Segreteria scientifica e redazione: M. Bertelli
Coordinamento: G. La Malfa
Consensus Conference Nazionale della Società Italiana per lo Studio del Ritardo Mentale (SIRM)
Firenze, 3 luglio 2004
Premessa
Alla luce delle evidenze fornite dall’epidemiologia, la Disabilità Intellettiva (DI) si trova attualmente al centro di un intenso dibattito internazionale. L’organizzazione di questa “Consensus Conference italiana sull’utilizzo degli Antidepressivi e degli Antiansia nel Ritardo Mentale Adulto” rappresenta un altro dei tentativi della S.I.R.M. (Società Italiana per lo studio del Ritardo Mentale) di promuovere la partecipazione degli specialisti nazionali e dei medici generici ad eventi culturali e scientifici che si inseriscano produttivamente in questo dibattito e che vedano la Disabilità Intellettiva (DI) affrontata in tutte le sue differenti componenti – biologiche, psicologiche, sociali – al fine di proporre modelli efficaci di interpretazione, classificazione, intervento clinico e riabilitativo.
Come già è stato detto nel lavoro sugli antipsicotici e stabilizzanti dell’umore, l’evento “Consensus” non ha il carattere di un punto di arrivo, ma al contrario vuole rappresentare un incentivo ad un necessario percorso di miglioramento nazionale per tutti coloro che si impegnano in questo particolare settore.
Concetti generali sull’uso degli psicofarmaci nella DI
Per molto tempo la presenza in un paziente di una qualunque forma di Ritardo Mentale (RM) ha giustificato da sola, nel razionale nosologico della vecchia neuro-psichiatria, ogni altra disfunzione concomitante di ambito nervoso o psichico. Successivamente l’intervento valutativo e terapeutico si è sviluppato in riferimento a soggetti in età evolutiva e, a lungo, solo questi sono stati considerati capaci di sviluppare compensi al deficit di base, in funzione della non definitiva organizzazione delle strutture anatomiche, delle abilità e delle modalità comportamentali. Gli adulti con ritardo mentale continuavano ad esser considerati irrecuperabili. Questa distinzione legata all’età ha effetti ancora oggi e si estrinseca in vari modi. Alcuni dei più evidenti sono la difficoltà della psichiatria a riconoscere il ritardo mentale come un ambito di interesse proprio e la mancanza di un adeguato raccordo fra queste diverse figure professionali che seguono la persona con DI nelle diverse fasi della vita (neuro-psichiatra infantile, neurologo, psichiatra, geriatra).
La migliore individuazione di funzioni diverse del sistema nervoso centrale, delle strutture anatomo-chimiche che le determinano e delle relative patologie è frutto di un percorso iniziato in tempi relativamente recenti. Che la disfunzione dell’intelligenza logico-deduttiva non debba necessariamente implicare la compromissione di altre funzioni neuro-psichiche è un’acquisizione collocabile alla metà degli anni ’90 ed è infatti solo nell’ultimo decennio che la conoscenza tecnica dei problemi di salute mentale delle persone con disabilità intellettiva è significativamente aumentata, anche rispetto all’età adulta.
Il coinvolgimento della psichiatria nel ritardo mentale ha seguito fasi alterne. Nei decenni passati si è assistito ad una transizione da un’indiscussa egemonia della neuro-psichiatria, spesso troppo limitatamente orientata all’istituzionalizzazione ed alla sedazione, all’affermazione delle tecniche di intervento comportamentale. In certi ambiti gli psichiatri sono stati a lungo associati ad un intervento farmacoterapico improprio o ad un vero abuso di farmaci (1) (2). Questa associazione ha comprensibilmente condotto ad un atteggiamento di rifiuto rispetto al coinvolgimento dello psichiatra nell’intervento sulla persona con DI e rispetto all’uso di farmaci psicoattivi, atteggiamento che è ancora presente in alcuni ambiti e che dovrebbe esser corretto con una maggiore attività educazionale, da parte dello psichiatra stesso, nei confronti dell’équipe multidisciplinare di cui è parte e dei familiari dei pazienti con DI.
Dal 1995 ad oggi gli studi epidemiologici hanno mostrato che i disturbi psichiatrici ed i problemi comportamentali hanno una prevalenza maggiore nella DI rispetto alla popolazione generale e rappresentano il principale ostacolo al processo di integrazione sociale (2). La ricerca indica anche che l’utilizzo degli psicofarmaci in queste persone è molto diffuso e utile (3). Nonostante queste nuove acquisizioni l’intervento psichiatrico, e psicofarmacologico in particolare, presentano ancora limiti importanti. L’interesse della psichiatria per la persona con DI è, soprattutto in Italia, un fenomeno appena avviato. Gli psichiatri hanno ancora troppo spesso, nel loro pur vasto patrimonio culturale, una scarsa conoscenza delle problematiche legate a questa tipologia di utenti. La ricerca rivela una non completa adeguatezza degli attuali sistemi diagnostici (DSM-IV e ICD-10) rispetto alla DI. I supporti empirici per l’indicazione sono metodologicamente deboli, sperimentalmente scarsi e statisticamente insufficienti (4). La maggior parte degli studi sui farmaci è di tipo “naturalistico” o costituita da “case report” finalizzati alla segnalazione di effetti collaterali. I farmaci psicoattivi sono spesso usati senza una precisa diagnosi psichiatrica o per comportamenti giudicati contestualmente inadatti. Quasi tutti i farmaci psicoattivi non presentano indicazioni per il RM, suscitando problemi di prescrivibilità proprio nei confronti di una tipologia di paziente, che, data la sua grave invalidità, meriterebbe invece particolari facilitazioni.
Sebbene questo documento si riferisca all’età adulta, non può non sviluppare il concetto, solo accennato in precedenza, dell’utilità della collaborazione e della continuità dell’intervento di figure professionali diverse nelle diverse età della persona con DI, anche in funzione degli interventi psicofarmacologici. Tale continuità è infatti più teorica che pratica. Ne è esempio il fatto che non è ancora consentito usare antipsicotici, sia di vecchia che di nuova generazione, in età evolutiva nonostante la ricchezza di esperienze cliniche indicanti che un trattamento psicofarmacologico corretto possa permettere al bambino con DI di essere meglio inserito nei vari contesti e di elaborare con minore difficoltà le varie informazioni, senza effetti indesiderati significativi.
Tornando ai termini più generali della relazione tra DI e psicofarmacoterapia, si deve concludere che l’utilizzo degli psicofarmaci nel RM implica un preciso ruolo dello psichiatra. Egli deve contribuire all’ottimizzazione della qualità nell’identificazione e nella gestione dei disturbi mentali in questi soggetti. In tal senso, gli psichiatri devono fornire una valutazione generale, formulare diagnosi, impostare le modalità di intervento terapeutico, sia farmacologico che, di concerto con l’équipe multidisciplinare, non-farmacologico, eseguire verifiche di sicurezza delle farmacoterapie e valutazioni d’esito degli interventi terapeutici. Devono inoltre assicurare supervisione ed assistenza tecnica ai gruppi di lavoro sociosanitari, ai colleghi con cui, ad ogni titolo e livello, si trovino a collaborare, ai medici di base, agli assistenti personali, agli operatori della residenza e delle altre strutture ed ai familiari, tenendo conto di volta in volta delle caratteristiche individuali del paziente.
In riferimento più specifico all’intervento psicofarmacoterapeutico si individua la necessità di attenersi alle seguenti specifiche raccomandazioni:
– formulare una diagnosi di Ritardo Mentale secondo criteri internazionalmente riconosciuti (AAMR, DSM-IV TR, ICD-10; la diagnosi dovrebbe sempre riportare i criteri utilizzati per la formulazione, al fine di permettere una confrontabilità dei risultati ottenuti dalle diverse ricerche; è inoltre essenziale cercare di formulare anche una diagnosi eziologica ed una diagnosi psicopatologica dimensionale;
– organizzare un Progetto Abilitativo ed un Piano Terapeutico per ogni persona con Ritardo Mentale che presenti sintomi o sindromi psicopatologiche. Ciò permette di valutare, tramite un’opportuna raccolta di dati, tutti i fattori che concorrono alla comparsa di sintomi psicopatologici o comportamenti aberranti e al tempo stesso tutti i possibili strumenti di intervento terapeutico (psicoterapie, terapie educative, interventi socio-educativi); il modello è quello di un algoritmo decisionale basato su dati;
– ricordare che la medicazione psicoattiva è una terapia aggiuntiva, non una terapia esclusiva, e che essa trova il suo razionale d’azione in un preciso piano terapeutico, che ne individui indicazioni, durata, modalità di vigilanza e trattamento degli eventuali effetti collaterali;
– porre e imporre particolare attenzione al rispetto dei diritti umani;
– assicurarsi che l’individuo e i suoi familiari/assistenti: possano partecipare allo sviluppo del piano terapeutico e forniscano un consenso informato (da parte del responsabile legale se interdetti);
– accertarsi che la terapia non sia usata in modo eccessivo, per punizione, per convenienza dello staff, come sostituto di servizi o in quantità che interferiscano con la qualità di vita dell’individuo;
– garantire una continua informazione e informazione dell’intera équipe d’intervento;
– sviluppare ricerche metodologicamente più corrette.
Oltre a quella del sistema nervoso centrale, le persone con DI presentano spesso compromissione anatomica o funzionale di altri organi, apparati o sistemi. Questo giustifica una vulnerabilità somatica e una sensibilità ai farmaci psicoattivi maggiore rispetto alla popolazione generale (2).
Per tutte le molecole è dunque da raccomandarsi un dosaggio inferiore a quello comunemente usato nella la popolazione generale.
Un’attenzione particolare deve essere riservata all’uso di antiepilettici per il trattamento di disturbi psicopatologici. La prevalenza di disturbi epilettici e vulnerabilità epilettogena sono infatti molto elevate nella popolazione con DI. Il rischio di induzione, scompenso o riesacerbazione sintomatologica di un’errata terapia anticomiziale deve essere scongiurato da un’attenta valutazione neurologica preliminare.
Un’altra premessa generale riguarda i problemi di compliance farmacologica. Anche questi rappresentano un ostacolo frequente all’attuazione ed all’efficacia della terapia farmacologica. A tal proposito si consiglia di valutarne attentamente i determinanti biologici, psicologici o ambientali e di operarne una rimozione, parallelamente può essere valutata l’opportunità di utilizzare somministrazioni orodispersibili, in soluzione o parenterali. Data la sussistenza di disabilità più o meno gravi anche rispetto alla cura di se stessi, la valutazione della compliance farmacologica di una persona con DI deve essere rivolta non solo alla persona stessa ma a tutto il suo ambiente di vita e di assistenza. Una cattiva disposizione dei familiari nei confronti dei farmaci psicoattivi od una madre che non riesca a contare bene le gocce possono rappresentare due esempi di condizioni limitanti.
L’uso dei farmaci antidepressivi nella persona con DI
Nelle ultime decadi vari studi di prevalenza hanno riportato nella popolazione adulta con Disabilità Intellettiva (DI) percentuali di disturbi depressivi variabili dall’1,3 al 3,7 (almeno uguale o superiore alla popolazione generale). Nella popolazione generale la prevalenza è di circa il 2% (5). La più importante causa di queste differenze percentuali è l’eterogeneità degli strumenti diagnostici utilizzati, che infatti variano da quelli in uso per la popolazione generale, come i criteri ICD-10 o DSM-IV TR, a diverse scale diagnostiche specifiche per questa popolazione (6) (7). Nel caso di pazienti con DI lieve o moderata i criteri generali trovano una loro affidabilità, che invece è estremamente ridotta nelle situazioni in cui la DI è grave o gravissima. Tuttavia i dati della letteratura indicano che sia possibile, con opportuni strumenti, diagnosticare i disturbi depressivi anche in queste situazioni (1) (8) (9).
Nel valutare la presentazione della sindrome depressiva nella popolazione con DI occorre tener presente la possibilità di sintomi “atipici”. Questi sono prevalentemente di tipo neurovegetativo e comportamentale e possono rendere difficoltosa la diagnosi. Destano particolare interesse l’irritabilità e l’aggressività, sia etero- che auto-diretta.
Nella popolazione con DI è molto diffuso, ancor più che nella popolazione generale (10), un uso dimensionale dei farmaci AD e AA. Qui infatti, stanti le frequenti difficoltà alla formulazione di una precisa diagnosi di asse I, le varie molecole sono spesso utilizzate per trattare l’ossessività, l’impulsività, la fobia, e l’aggressività come dimensioni relativamente indipendenti dai quadri categoriali di riferimento.
Nel processo di formulazione diagnostica è necessario considerare fattori biologici, psicologici, sociali e di sviluppo, che possono giocare un ruolo nell’esordio e nel mantenimento della sintomatologia. Spesso questi fattori necessitano di un intervento terapeutico complesso, farmacologico, psicologico, comportamentale, o di tipo non convenzionale, in un “approccio integrato” (11). Si tenga presente che molte delle pratiche utilizzate per la popolazione generale sono applicabili, con gli opportuni accorgimenti, anche alle persone con DI (12).
Anche se a tutt’oggi la classe di farmaci più usata nelle persone con DI è ancora quella degli antipsicotici (13), vi è da parte dei clinici un crescente interesse verso l’utilizzo degli antidepressivi.
Il presente lavoro è partito da una revisione critica della letteratura riguardo l’utilizzo degli antidepressivi nella DI, negli anni compresi tra il 1992 e il 2003. L’atteggiamento critico ha tenuto soprattutto conto del fatto che la letteratura farmacologica risente per certa parte delle pressioni di mercato. Molti lavori di ricerca non vengono pubblicati e la maggior parte degli articoli reperibili è indicativa di efficacia della molecola studiata.
Per l’individuazione dei contributi scientifici da includere nella banca dati necessaria alle elaborazioni statistiche è stata stilata una lista di molecole da ricercare su MEDLINE insieme alle parole Mental Retardation e Intellectual Disability, per il periodo di tempo compreso tra Gennaio 1992 e Dicembre 2003.
Le ricerche bibliografiche hanno utilizzato il classico approccio per sottoinsiemi progressivamente affinati, a partire dall’insieme generato dalla ricerca di un singolo termine, attraverso processi di combinazione booleani (AND-OR-NOR).
La profondità della ricerca ha raramente superato il quarto livello, cioè quattro combinazioni di sottoinsiemi derivati dalla ricerca di una singola parola chiave in tutti i campi. La ricerca non ha considerato i lavori che riguardavano esclusivamente o prevalentemente i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, così come quelli relativi a molecole non in commercio in Italia.
L’inquadramento delle evidenze reperite nella letteratura è stato effettuato secondo i seguenti cinque livelli (14):
– evidenza di tipo I: valida rassegna sistematica e meta-analisi (comprendente almeno uno studio randomizzato e controllato);
– evidenza di tipo II: studio randomizzato e controllato;
– evidenza di tipo III: studio applicativo con valido disegno sperimentale senza randomizzazione;
– evidenza di tipo IV: studio osservativo con valido disegno sperimentale;
– evidenza di tipo V: opinione di esperto, studio o report autorevole.
I titoli individuati sono stati memorizzati in un data base e selezionati automaticamente mediante un algoritmo che ha preso in considerazione prima i campi titolo (TI) e gli abstract (AB), e successivamente i campi codificati per le chiavi di ricerca di MEDLINE primaria (RM) e secondaria (RT-RX). Gli articoli indicati da più chiavi, e quindi duplicati, sono stati valutati in base a parametri predefiniti e, in caso di parità di punteggio, estratti a sorte.
Tutti gli studi esaminati sono elencati in bibliografia e riportano tra parentesi il tipo di evidenza corrispondente.
Antidepressivi triciclici (ADT)
La quasi totalità dei dati disponibili per questa classe si riferisce all’efficacia della clorimipramina. Un solo lavoro è stato reperito per l’amitriptilina.
La clorimipramina è stata usata per:
a – il trattamento di comportamenti ossessivi, stereotipati e ripetitivi, principalmente in individui con DI grave e gravissima;
b – il trattamento di comportamenti autolesivi (CAL);
c – il trattamento di comportamenti aggressivi.
In uno studio clinico in aperto sul trattamento di undici pazienti con stereotipie croniche e Comportamenti Auto Lesivi (CAL), dieci (91%) hanno presentato una marcata diminuzione nelle medie dei comportamenti bersaglio, indipendentemente dal livello di DI. Nonostante l’inclusione nel gruppo di sei pazienti con precedente storia di eventi epilettici, non sono state registrate crisi comiziali (15). Un altro studio trasversale, in doppio cieco e placebo controllato, riporta una significativa riduzione della frequenza e dell’intensità di stereotipie, un miglioramento dell’iperattività e dell’irritabilità, un incremento delle attività adattative e un decremento dei comportamentali afinalistici. Effetti collaterali sono stati riscontrati in tre dei dieci soggetti trattati (16). Effetti di controllo su discinesie da farmaci sono suggeriti in un case-report relativo ad un soggetto adolescente affetto da disturbo autistico e DI grave. Questi aveva sviluppato importanti disturbi della motilità, inclusi acatisia e tics, un mese dopo aver cessato una terapia di due anni con farmaci bloccanti i recettori dopaminergici. Un trattamento in aperto di 17 settimane con clorimipramina ha prodotto una notevole riduzione dei disturbi, che si è mantenuta per tutti i due anni e mezzo di follow-up, ad eccezione dei periodi di interruzione della cura (17). Un altro studio ha riguardato il trattamento di compulsioni disabilitanti in soggetti adulti con DI [75 mg/die nella formulazione a rilascio prolungato (RP)]: nove soggetti con rituali di lavaggio di lunghissima durata sono stati trattati, per la prima settimana, con 32,5 mg/die, con 75 mg/die per le restanti sette settimane. In tal modo sono state ottenute riduzioni statisticamente significative della gravità dei rituali, valutate con un’adeguata batteria di strumenti al completamento dello studio (18). Un’altra valutazione sperimentale in aperto sembra indicare la capacità di ridurre movimenti incontrollati e compulsioni in soggetti prepubere con disturbo autistico e DI grave. Lo studio si riferisce a 5 soli casi resistenti a precedenti trattamenti e mostra limiti metodologici relativi alle scale di valutazione degli effetti (19). L’efficacia sulla tricotillomania è indicata da un case report riguardante una donna con DI media. Questa aveva manifestato, già all’età di 2-3 anni, un disturbo da discontrollo degli impulsi con tricofagia ed era andata incontro a numerose complicanze, quali malnutrizione, ostruzioni intestinali, insufficienze vascolari intraddominali e ulcerazioni. Prima di quello con clorimipramina nessun altro trattamento farmacologico aveva prodotto risultati apprezzabili (20). In un altro studio clinico in aperto la clorimipramina (3-5 mg/kg/die) è risultata efficace nel ridurre disturbi del movimento e compulsioni in 5 bambini con autismo, DI grave, discinesie, aggressività e precedenti trattamenti con neurolettici. Tuttavia alti dosaggi (200 mg/die) hanno determinato la comparsa di effetti collaterali, quali agitazione, aggressività, tremori, diarrea, insonnia e anoressia (19).
il trattamento di comportamenti autolesivi (CAL)
Uno studio trasversale in doppio cieco e placebo-controllato è stato condotto su 8 soggetti con DI grave/gravissima e CAL. La procedura sperimentale è stata completata da 6 pazienti che hanno mostrato un significativo miglioramento (50% o più rispetto al placebo) della frequenza dei CAL. Gli stessi individui hanno mostrato anche contemporanei progressi clinici rispetto all’intensità dei CAL ed alla frequenza di stereotipie, compulsioni, ed altri problemi comportamentali. Effetti collaterali (crisi epilettiche, tachicardia, agitazione) sono comparsi in due degli otto soggetti, con una pervasività tale da indicare l’interruzione del trattamento (21).
Due case report indicano risultati contrastanti. Nel primo, riferito ad un soggetto di 17 anni con DI e CAL gravi, la clorimipramina viene utilizzata dopo naloxone e sulpiride, dando risultati inferiori a quest’ultima e simili a quelli del naloxone. Il soggetto presentava risposta prolattinica inferiore alla norma al test di stimolazione con l’ormone tiroide-stimolante (TSH) (22). Nel secondo, relativo ad un paziente con DI grave, il trattamento risulta invece efficace (23).
il trattamento di comportamenti aggressivi
Un case report relativo ad un soggetto adolescente con autismo e DI suggerisce l’efficacia della clorimipramina nell’eliminazione di comportamenti aggressivi (24).
Risultati importanti sull’utilizzo dell’amitriptilina sono forniti da indagini condotte su 54 pazienti istituzionalizzati con DI gravissima e sintomatologia depressiva (appiattimento affettivo, ritiro sociale, grida, disturbi del sonno e dell’alimentazione). Quaranta dei soggetti selezionati hanno presentato miglioramenti in due differenti valutazioni (25).
Gli esperti partecipanti alla CC hanno espresso alcuni opinioni di utilità pratica. Il farmaco ADT è in grado di ridurre, per la sua azione anticolinergica, la scialorrea, effetto frequente e di rilievo clinico nei casi di disabilità multipla. Questo possibile vantaggio dovrebbe esser valutato per ciascun soggetto in una più ampia considerazione di costi e benefici e dovrebbe essere studiato in modo scientifico. Gli ADT potrebbero più generalmente essere usati anche per il trattamento indiretto di problemi organici particolarmente disturbanti, quali scialorrea o enuresi (26).
Gli ADT sembrano essere i farmaci antidepressivi più potenti sui comportamenti ossessivi e compulsivi ma, data la vulnerabilità organica della popolazione con DI, specialmente nei gradi grave e gravissimo, e la suscettibilità ai numerosi effetti collaterali, devono venir considerati come farmaci di seconda scelta. Di prima scelta solo in casi particolari in cui sussista un’ulteriore indicazione specifica.
Quando utilizzati, gli ADT implicano un’attenta monitorizzazione degli effetti collaterali, soprattutto della stipsi.
Inibitori della ricaptazione selettivi per la serotonina – IRSS
Fluoxetina
In questa classe la fluoxetina risulta essere la molecola più studiata. Anche in questo caso la sua efficacia è stata testata in differenti condizioni cliniche:
a – trattamento della depressione e dell’ansia;
b – trattamento di problemi comportamentali;
c – trattamento di disturbi ossessivo-compulsivi;
d – trattamento dei comportamenti autolesivi (CAL).
Nel contesto di uno studio in aperto, valutazioni effettuate con la sottoscala ‘gravità’ della Clinical Global Impression hanno evidenziato un significativo miglioramento in 15 di 23 soggetti con disturbi autistici e in 10 di 16 soggetti con DI. Sei dei 23 pazienti con disturbi autistici e 3 dei 16 pazienti con DI hanno presentato effetti collaterali tali da interferire significativamente con il funzionamento dei soggetti. Fra questi effetti i più frequenti sono stati: iperattività, agitazione, diminuizione dell’appetito, insonnia (27).
Un altro protocollo di valutazione ha avuto come oggetto 6 pazienti adulti con DI e depressione. In tutti l’applicazione della Hamilton Depression Rating Scale ha rilevato miglioramenti, 5 dei quali statisticamente significativi (28).
Un terzo lavoro consiste in un case report di una ragazza di 15 anni con sindrome dell’X-fragile, grave timidezza, ansia, attacchi di panico, instabilità timica e deficit d’attenzione. Una terapia combinata farmacologica (fluoxetina per l’ansia e metilfenidato per i disturbi d’attenzione) e comportamentale ha prodotto una buona risposta clinica (29).
Trattamento di problemi comportamentali
L’efficacia della fluoxetina nel trattamento dell’aggressività è nota da tempo (30). In uno studio retrospettivo 37 soggetti adulti con DI e comportamenti disadattivi persistenti sono stati trattati con fluoxetina o paroxetina. In 15 soggetti (40%) non si sono evidenziati miglioramenti; in altri 9 (25%) si è osservato un peggioramento della condizione clinica, mentre alcune riduzioni dei disturbi comportamentali si sono manifestate in tredici casi (35%). In questo ultimo gruppo non sono state individuate differenze tra fluoxetina e paroxetina (31).
In un’altra ricerca 19 pazienti istituzionalizzati con DI, epilessia e comportamenti aggressivi sono stati trattati con 20 mg di fluoxetina al giorno. Dieci pazienti hanno risposto positivamente, mentre 9 hanno presentato un incremento dell’aggressività ed un ritorno ai livelli di baseline alla cessazione del trattamento. I risultati sono tuttavia condizionati dal fatto che tutti i soggetti reclutati hanno assunto, oltre alla molecola da testare, anche altri psicofarmaci, tra cui carbamazepina e neurolettici (32) (33).
Alcuni membri del pannello di esperti hanno indicato per fluoxetina e simili un effetto di attivazione, anche nel senso dell’aggressività, molto più probabile su soggetti con caratteristiche di evitamento, fobia o passività che non su quelli con disforia.
Trattamento di disturbi ossessivo-compulsivi
In uno studio longitudinale della durata di 4 mesi, 10 soggetti con comportamento compulsivo e 6 controlli, sono stati trattati con fluoxetina. Sette dei 10 pazienti hanno risposto positivamente al trattamento, mentre nessuno dei controlli ha mostrato miglioramenti (34).
Tre soggetti in età evolutiva con DI di grado medio e mutismo sono stati trattati con un intervento multimodale, centrato principalmente su una terapia del linguaggio e su interventi educativi individualizzati. A due pazienti, che non hanno presentato miglioramenti dopo quattro settimane, è stata somministrata fluoxetina (5 mg/die per la prima settimana, 7 mg/die per le settimane successive). Entrambi hanno riportato miglioramenti a tutte le valutazioni effettuate: Defiance subscale of the New York Teacher Rating Scale for Disruptive and Antisocial Behaviour (NYTRS), Diagnostic Assessment for Severely Handicapped (DASH) e Vellone Speech Scale (VSS) (35).
Un case-report riferisce gli effetti di un trattamento con fluoxetina e naltrexone su di un bambino di 9 anni con diagnosi di Prader-Willi, DI di grado moderato, alimentazione e comportamenti compulsivi e problemi comportamentali. Il soggetto ha mostrato un marcato miglioramento sia del peso corporeo che del comportamento (36). Per contro un altro case-report evidenzia un peggioramento dell’iperfagia e del conseguente aumento di peso in un adolescente con sindrome di Prader-Willi trattato con fluvoxamina e fluoxetina (37).
Trattamento dei comportamenti autolesivi (CAL)
Una review evidenzia come 42 di 44 casi di autoaggressività hanno presentato una risposta positiva al trattamento con fluoxetina. La pubblicazione include uno studio di ulteriori quattro casi adulti e mostra come ciascuno di questi abbia benficiato dell’intervento in una percentuale variabile dal 20 all’88% (38).
Un altro lavoro descrive gli effetti della molecola nel trattamento di depressione cronica associata ad autoaggressività attraverso l’analisi di due casi. Nel primo, riferito ad una donna con DI grave, sono stati evidenziati un drastico decremento dei CAL ed una normalizzazione dei disturbi del sonno, nel secondo, avente per oggetto un uomo con DI gravissima, l’ugualmente sostanziale riduzione dei CAL si è associata ad una rarefazione dell’uso di strumenti contenitivi (39).
In uno studio in aperto ventuno soggetti con DI grave o gravissima e comportamenti autoaggressivi erano trattati con dosaggi di fluoxetina compresi fra 20 e 40 mg/die per un periodo minimo di tre mesi. Un miglioramento marcato è stato registrato in 13 pazienti, uno moderato in 4, uno lieve in 2, solo 2 pazienti non hanno riportato alcun miglioramento. Un solo paziente ha dovuto interrompere la terapia per la comparsa di anoressia e perdita di peso, tutti gli altri hanno tollerato bene il farmaco, senza interazioni negative con le eventuali terapie concomitanti (40).
Fluvoxamina
Sull’utilizzo della fluvoxamina nella DI sono stati reperiti soltanto due studi. Nel primo, condotto in aperto, sono stati trattati 60 pazienti (20 con DI di grado lieve, 40 di grado moderato) con comportamento aggressivo, in un disegno sperimentale che prevedeva 1 settimana di wash-out, 2 di placebo e 3 di trattamento (dosaggio compreso tra 200 e 300 mg/die). I risultati mostravano un significativo decremento del comportamento aggressivo, valutato attraverso l’Handicap Behavior and Skill Schedule (HBSS), e l’assenza di gravi effetti collaterali (41). Un case report riferisce di un aggravamento dei sintomi correlati al cibo, con conseguente aumento di peso, in un adolescente affetto da sindrome di Prader-Willi trattato con fluvoxamina e fluoxetina (37).
Citalopram
Per quanto riguarda il citalopram sono stati individuati tre studi, tutti di tipo V.
In uno studio in aperto controllato, 20 pazienti con DI, affetti da un disturbo depressivo caratterizzato da sintomi di ambito affettivo, motivazionale, motorio e neurovegetativo, sono stati trattati con un dosaggio di 20 mg/die per 6 settimane, incrementato successivamente fino a 60 mg/die. Dodici soggetti hanno riportato un miglioramento da moderato a marcato della sintomatologia attribuito attraverso la Clinical Global Improvement Scale (CGIS). La prosecuzione del trattamento per 1 anno è risultata efficace nella prevenzione di episodi depressivi ricorrenti. L’uso concomitante di anticonvulsivanti ha ridotto la responsività alla terapia (42).
L’efficacia delle molecole è indicata anche da due case-report. Il primo fa riferimento ad un soggetto adulto di sesso femminile affetto da sindrome di Wolf-Hirschhorn (caratterizzata da DI, ritardo dello sviluppo, microcefalia, tratti facciali tipici ed altre anormalità somatiche) e depressione maggiore con sintomi atipici (43). L’altro riguarda un paziente con sindrome di Down, disturbo ossessivo-compulsivo, depressione maggiore e anoressia nervosa (44).
Paroxetina
Sulla paroxetina sono stati trovati 5 studi: 1 di classe II e 4 di classe V.
Nel primo, in aperto e prospettico, è stata valutata l’efficacia del trattamento di gravi comportamenti auto- ed etero-aggressivi in 15 pazienti istituzionalizzati. I valori dei parametri inerenti la frequenza e la gravità dell’aggressività sono stati espressi dai membri dello staff di cura. L’efficacia è risultata significativa per tutte le variabili indagate nel primo mese di terapia, limitandosi alla gravità degli episodi nei follow-up dei 4 mesi successivi (45).
Un’analisi retrospettiva condotta su 37 adulti con DI istituzionalizzati ha studiato l’efficacia di fluoxetina o paroxetina nel trattamento di disturbi comportamentali pervasivi. L’intervento è risultato inefficace in 15 soggetti (40%) e si è associato ad aggravamento clinico in altri 9 (25%). Nei 13 casi (35%) in cui si sono ottenuti miglioramenti non sono state evidenziate differenze tra fluoxetina e paroxetina (31).
In un altro studio 7 adolescenti con DI di grado moderato e disturbo depressivo maggiore sono stati trattati con un dosaggio compreso fra 20 e 40 mg/die per 9 settimane. Alla fine dello studio sono stati registrati miglioramenti significativi dei punteggi della Montgomery-Asberg Depression rating Scale. Effetti collaterali, quali sedazione, problemi gastrointestinali ed insonnia, sono risultati rari, transitori e di scarsa gravità (46).
Anche per la paroxetina sono stati individuati 2 case-report indicanti una buona efficacia. Il primo riguarda un paziente con sindrome di Johanson-Blizzard, grave disturbo ossessivo compulsivo ed aggressività, in cui la somministrazione quotidiana della molecola è stata associata ad un programma di intervento comportamentale (47). Il secondo si riferisce al trattamento di un disturbo depressivo in una ragazza di 13 anni con sindrome di Down (48).
Sertralina
Per la sertralina sono stati reperiti 5 studi, 1 di tipo II e 4 di tipo V.
Il primo dei 4 case-report ha valutato l’efficacia della molecola nel ridurre i CAL di un uomo di 20 anni con DI grave (24). Il secondo riguarda invece un uomo di 43 anni con DI e epilessia, al quale l’associazione di lamotrigina, fenitoina, fenobarbital, lorazepam, sertralina e tioridazina ha prodotto irritabilità, iperattività e comportamenti oppositivi (49). Nel terzo e nel quarto vengono riportate note di buona efficacia rispettivamente su sintomi ossessivo-compulsivi (50) e su comportamenti aggressivi (51).
In uno studio in aperto 9 soggetti con DI, di cui 5 con concomitante disturbo autistico, sono stati trattati per comportamenti auto- o eteroaggressivi con un dosaggio variabile da 25 a 150 mg/die. Otto pazienti hanno presentato significativi miglioramenti clinici globali. Gli effetti collaterali sono stati minimi. In un solo soggetto l’agitazione psico-motoria e l’aggravamento del comportamento autolesionistico, insorti dopo diciotto settimane di terapia, hanno reso necessaria l’interruzione del trattamento (52).
Gli esperti concordano nel riconoscere ai serotoninergici un’attività antiaggressiva e antiviolenza. Ipotizzano che tale azione possa riconoscere un percorso indipendente da quello antidepressivo.
Viene raccomandata una particolare attenzione ai dosaggi ed alla titolazione. In questa popolazione i primi dovrebbero essere mediamente più bassi e la seconda mediamente più lenta, soprattutto nei casi di DI con particolari problemi organici concomitanti. È inoltre consigliabile utilizzare sempre una monoterapia, l’uso di più principi attivi dovrebbe essere adottato, con particolare attenzione, solo per i disturbi più resistenti.
Gli IRSS possono interagire con altri principi farmacologici, psicoattivi e non, con conseguenze negative significative. Nelle Tabelle I e II gli esperti hanno ritenuto utile riportare le principali interazioni di rilevanza clinica ed i possibili effetti di due delle principali molecole di questa classe: fluoxetina e fluvoxamina.
Come già accennato, i disturbi comportamentali non hanno sempre una base organica. Pertanto l’intervento farmacologico deve essere preceduto da un’attenta analisi funzionale.
Viene infine ricordato che, con maggiore o minore probabilità a seconda del quadro psicopatologico di partenza, l’uso di IRSS può indurre viraggi dell’umore e favorire la comparsa di comportamenti disforici, aggressivi o suicidiari.
Antidepressivi noradrenergici e serotonergici specifici (ANaSS) e Inibitori della ricaptazione selettivi per la serotonina e la noradrenalina (IRSSN)
Su questa categoria farmacologica la nostra ricerca ha individuato 2 pubblicazioni.
La prima riguarda il grado di concordanza, rispetto al trattamento dei problemi comportamentali e psichiatrici dei pazienti con DI, tra le terapie suggerite da esperti del settore e quelle adottate dai clinici durante la pratica quotidiana. A tale scopo una review di linee guida è stata confrontata con gli interventi farmacologici di 85 specialisti in psichiatria operanti in centri accoglienti persone con DI. Il confronto ha individuato poche differenze. Una di queste riguarda l’uso maggiormente diffuso tra i clinici di venlafaxina e mirtazapina (53).
La seconda pubblicazione consiste in uno studio naturalistico in aperto condotto per valutare l’efficacia e la tollerabilità della mirtazapina nel trattamento di sintomi associati ad autismo e altri disturbi pervasivi dello sviluppo. Ventisei soggetti (5 femmine e 21 maschi di età compresa fra i 3,8 e i 23,5 anni) di cui 20 con disturbo autistico, 1 con disturbo di Asperger, 1 con sindrome di Rett e 4 con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non altrimenti specificato, sono stati trattati con mirtazapina (dosaggio variabile tra 7,5 e 45 mg/die). Venti soggetti presentavano comorbidità con DI e 17 assumevano altri psicofarmaci. Alla fine dello studio 9 (34,6%) dei 26 pazienti che hanno completato almeno 4 settimane di trattamento hanno mostrato una buona risposta abbinandosi a giudizi positivi della CGI e a consistenti decrementi di punteggio dell’Aberrant Behaviour Checklist. Gli effetti collaterali sono risultati minimi e hanno incluso aumento dell’appetito, irritabilità e sedazione transitoria (54).
Le esperienze dirette di alcuni dei membri del pannello di esperti indicano che adulti con DI possono rispondere positivamente al trattamento con i più recenti antidepressivi ANSS, manifestando effetti collaterali scarsi e non rilevanti. La venlafaxina è indicata soprattutto nei casi in cui vi siano importanti sintomi d’ansia e dovrebbe essere utilizzata nella forma RP, in grado di migliorare la compliance e ridurre ulteriormente gli effetti collaterali iniziali.
La mirtazapina può favorire un incremento ponderale e pertanto deve essere usata con cautela nei soggetti tendenti all’obesità.
Altri farmaci
La revisione della letteratura ha individuato solo 2 lavori sull’utilizzo del trazodone in soggetti con DI e aggressività (55) (56) ed uno sull’amoxepina. Quest’ultimo consiste in un case-report riguardante 2 soggetti adulti di sesso femminile di 28 e 35 anni, con DI di grado rispettivamente moderato e grave e disturbo depressivo. La risposta al trattamento è stata positiva dopo precedenti resistenze agli ADT, sia da soli che associati ad antipsicotici (57).
Gli esperti hanno individuato nel trazodone una molecola molto utilizzata. Utile a migliorare il sonno e nella gestione dei disturbi comportamentali in acuto, soprattutto per via intramuscolare. Raccomandano di fare attenzione all’insorgenza di alcuni problemi gastrici, rigidità e rallentamento. La formulazione in gocce è stata riconosciuta come più maneggevole, cominciando con 20 gocce serali, fino a 100 mg al giorno.
Discussione
La revisione della letteratura sull’utilizzo degli antidepressivi nel campo della DI, condotta attraverso MED-LINE come ampiamente raccomandato dalla letteratura internazionale (58)-(61), rivela gravi carenze sia quantitative che qualitative. Infatti il numero degli studi che hanno soddisfatto i criteri di ricerca si è fermato a 49 e sono solo 7 (14%) i lavori classificabili nelle classi Cochrane I, II o III, mentre la maggioranza appartiene alla classe V.
Di tutti gli studi solo 25 (51%) si riferiscono all’efficacia sui disturbi dell’umore o d’ansia, che rappresentano gli ambiti di indicazione specifica, la restante metà valuta l’effetto su disturbi comportamentali, soprattutto sull’aggressività auto o eterodiretta.
Questo consistente impiego degli antidepressivi per la gestione dei problemi del comportamento o di altri sintomi, che gli anglofoni definirebbero ‘off-label’, trova possibili spiegazioni in supposizioni da parte degli psicofarmacoterapeuti che tali disfunzioni possano rappresentare sintomi atipici di disturbi dell’umore e d’ansia oppure che tali molecole possano agire su fattori psicopatologici transnosografici sostenuti da alterazioni neuro-chimiche sensibili.
La revisione sembra anche indicare che le strategie di trattamento per le persone con DI non siano dissimili da quelle per la popolazione generale (62). È possibile che i clinici estrapolino i dati della letteratura e dell’esperienza clinica sulla popolazione generale e li applichino alle persone con DI. Tenendo conto che, rispetto alla popolazione generale, le persone con DI presentano maggiori vulnerabilità somatica, prevalenza di disturbi psichici e malattie organiche e sensibilità agli effetti indesiderati da farmaci psicoattivi, tale estrapolazione dovrebbe essere scoraggiata a favore di esperienze dirette controllate.
Nonostante i più recenti studi di prevalenza indichino nella popolazione generale una percentuale di disturbi affettivi (1,3-3,7%) paragonabile a quella dei disturbi psicotici (63), persiste nel clinico una certa resistenza a formulare la diagnosi di depressione nei soggetti con DI. Oltre alle difficoltà valutative ed alla carenza di strumenti specifici, a cui è già stato fatto cenno, ciò è probabilmente attribuibile ad un retaggio culturale che individua soltanto nella psicosi e nei disturbi ad essa correlati l’ambito di espressività psicopatologica delle persone con DI. Tale possibilità è sostenuta dal fatto che anche nei casi in cui venga formulata una diagnosi di disturbo depressivo, il pattern di trattamento utilizzato include frequentemente farmaci antipsicotici e stabilizzanti dell’umore (64).
I dati disponibili sugli ADT riguardano quasi esclusivamente la clorimipramina. Alcuni studi indicano una certa efficacia di questa molecola sui disturbi ossessivi e correlati (disturbi del movimento, tics), mentre altri, più sporadici, sui CAL. Non vengono segnalati effetti collaterali importanti, anche se il numero di pazienti indagati è veramente esiguo. Durante l’assunzione di ADT le persone con DI più grave sembrano riportare, oltre agli effetti collaterali classici come alterazioni dell’ECG, secchezza delle fauci e stitichezza, anche “effetti comportamentali” come aggressività paradossa ed autolesionismo, e alterazioni funzionali del SNC. Inoltre sono segnalate, in soggetti in età dello sviluppo, alterazioni dose indipendenti di interesse cardiologico e morte improvvisa, soprattutto in trattamenti con imipramina e desipramina (65). L’insieme di queste osservazioni deve indurre il clinico ad attente valutazione e monitorizzazione nell’impiego degli ADT in pazienti con DI.
Quella degli IRSS è sicuramente la classe farmacologica con più dati di letteratura e, al suo interno, la fluoxetina risulta la molecola più studiata. Anche per questa categoria di antidepressivi i lavori riguardanti le indicazioni più classiche sono una minoranza (circa un quinto). Molte sono le evidenze che depongono per una buona efficacia, ma non mancano alcune segnalazioni di effetti collaterali e paradossi, ad indicare che, quando si intervenga su persone con DI, è sempre necessario mantenere una certa attenzione, anche nell’uso di molecole più sicure.
La maggioranza dei lavori sugli IRSS riporta dati riguardanti i “comportamenti sfida”, con particolare attenzione all’aggressività auto ed eterodiretta. Oltre che ai motivi già trattati in riferimento alle considerazioni generali su tutti gli antidepressivi, ciò è anche attribuibile al fatto che le molecole che incrementano la disponibilità sinaptica di 5-HT sono state utilizzate e studiate ampiamente nella popolazione generale come strumenti di controllo del comportamento aggressivo (66). Varie molecole (fluoxetina, fluvoxamina, sertralina, paroxetina, citalopram) sono state segnalate come aventi una certa efficacia nel trattamento dell’aggressività, soprattutto autodiretta, in pazienti con DI, anche se per la fluoxetina sono segnalati anche effetti paradossi.
Conclusioni
La letteratura sull’utilizzo degli antidepressivi nelle persone con DI risulta scarsa e pervasa da studi metodologicamente carenti. È auspicabile l’esecuzione di ricerche con disegni sperimentali ben costruiti, che riguardino sia il trattamento di disturbi depressivi e di disturbi ossessivi compulsivi, sia il trattamento di “comportamenti di sfida” con specifico riguardo all’aggressività auto ed eterodiretta. Si ricorda che quello antidepressivo deve essere considerato un trattamento dei disturbi del comportamento alternativo ed in alcuni casi più efficace di quello centrato su principi neurolettici e antipsicotici.
Attualmente la maggior parte dei lavori in accordo con le linee-guida internazionali riguarda la categoria degli IRSS. Questa categoria ha mostrato una buona efficacia terapeutica e una buona sicurezza d’uso. Maggiore attenzione deve essere posta nei confronti degli ADT sia rispetto alla ricerca che all’utilizzo clinico. Questi farmaci hanno mostrato dubbia sicurezza nella persona con DI, che mostra una particolare vulnerabilità somatica ed una spiccata sensibilità agli effetti indesiderati dei farmaci psicoattivi. Gli IRSSN hanno mostrato buone potenzialità in termini di efficacia e sicurezza ma, come per le altre categorie di antidepressivi (IMAO, ANaSS, IRNa, ecc.), i dati sono ancora insufficienti per qualunque generalizzazione.
Gli attuali dati di letteratura forniscono al clinico che debba utilizzare farmaci antidepressivi sulla persona con DI un riferimento solo parziale. Pertanto è di estrema importanza che tale riferimento venga integrato sia con eventuali esperienze personali precedenti, sia con opinioni di esperti. A questo proposito appaiono particolarmente utili le raccomandazione di Day (67):
– far precedere l’impiego dei farmaci antidepressivi da una valutazione sistematica del paziente e del contesto ambientale;
– usare preferibilmente un singolo trattamento alla volta, con una dose adeguata (anche massima se non sono presenti effetti collaterali), per un tempo sufficiente.
Un altro valido riferimento per il clinico può essere rappresentato da linee-guida internazionali (68) (69).
Integrando una di queste opere (70) e partendo dalla constatazione che molti antidepressivi hanno un’efficacia equivalente, viene qui raccomandato di scegliere il farmaco da utilizzare sulle seguenti basi:
– anamnesi farmacologica personale e familiare (risposte positive su parenti biologici precedentemente trattati);
– valutazione dei possibili effetti indesiderati, soprattutto attraverso valutazioni ematologiche o strumentali e valutazione di possibili interazioni con altri farmaci;
– valutazione del grado di compliance.
Da un punto di vista generale valgono le stesse considerazioni fatte per gli antidepressivi.
Anche l’individuazione e l’inquadramento dei contributi di letteratura sono stati attuati con la stessa metodologia seguita per il gruppo precedente e descritta nel relativo paragrafo. Il periodo di riferimento cronologico è stato invece esteso al mese di Aprile 2004.
Non sono stati presi in considerazione i lavori riguardanti l’utilizzo degli ansiolitici nella DI per la terapia dell’epilessia o di altri disturbi e malattie strettamente pertinenti gli ambiti d’azione neurologico ed anestesiologico.
I lavori selezionati sono stati suddivisi in due categorie:
1. effetti terapeutici;
2. effetti collaterali.
Anche in questo caso l’inquadramento delle evidenze reperite nella letteratura è stato effettuato secondo i cinque livelli Cochraine sopra descritti.
Effetti terapeutici
Il buspirone, agonista della serotonina, può avere un buon impatto sui disturbi emozionali, sui disturbi del sonno (71) e sulle convulsioni psicogeniche (72).
Ricketts et al. (73) hanno valutato l’efficacia del buspirone sui comportamenti autolesivi in 5 soggetti con DI. La molecola è stata usata da sola su 2 soggetti e associata alla tioridazina negli altri 3. Quando comparati ai livelli basali, tutti e 5 gli individui hanno mostrato una significativa risposta alla terapia, con una riduzione dei comportamenti autolesivi variante dal 13% al 72%, a seconda della dose. La dose più efficace è risultata quella di 30 mg die per 3 individui e 52,5 mg per gli altri 2. Questa dose è stata mantenuta per un periodo variabile da 6 a 33 settimane. Coesistenti sintomi di ansia non sono risultati predittivi di una buona risposta.
In un altro studio sono stati trattati 8 pazienti con DI e gravi e prolungati comportamenti aggressivi, auto- o eterodiretti, e impulsività. I risultati dimostrano che il buspirone, con un dosaggio giornaliero variante tra 20 e 50 mg, può essere efficace nel ridurre questo tipo di disturbi comportamentali, favorendo anche un miglioramento della tendenza alla socializzazione. Viene qui ipotizzato che la responsività al buspirone possa essere il risultato di un fenomeno di de-arousing, mediato da corticosteroidi e dipendente da meccanismi omeostatici dello stress (74).
Colella et al. (75) hanno trovato il buspirone efficace nella riduzione di una forma di aggressività paramestruale grave e resistente di un soggetto di sesso femminile. Precedenti trattamenti con antipsicotici, benzodiazepine e beta bloccanti erano risultati inefficaci.
In un case report riferito ad un soggetto maschio con epilessia e disturbi del comportamento resistenti a numerosi trattamenti precedenti con molecole di classi diverse, l’aggiunta di clonazepam a carbamazepina ha prodotto significativi miglioramenti. Si è ipotizzato che tale efficacia sia attribuibile ad una sinergia degli effetti anticonvulsivanti, ansiolitici, miorilassanti e sedativi della molecola (76).
Il diazepam viene riferito come utile al trattamento della sindrome maligna da neurolettici e della catatonia in un case report redatto da Dent (77). Secondo lo studio condotto da Gaind et al. (78) su due fratelli, la catatonia acuta nella DI potrebbe rispondere rapidamente anche al trattamento con lorazepam.
Effetti collaterali
Gli effetti collaterali comportamentali derivati dall’uso di benzodiazepine possono essere facilmente sottostimati in individui con DI e inavvertitamente confusi con altri disturbi del comportamento o condizioni di interesse psichiatrico. Tali effetti sembrano riguardare una percentuale variabile dall’11 al 25% delle persone con DI a cui vengono prescritte benzodiazepine (79) (80).
Gli effetti collaterali comportamentali derivati dall’uso di clonazepam possono includere agitazione, aggressività, iperattività, irritabilità e pantoclastia. Questi effetti vengono spesso malinterpretati come esacerbazioni di preesistenti disturbi del comportamento. In un case-report Kalachnik et al. (81) hanno mostrato come l’uso di clonazepam a 2 mg al giorno per il trattamento di aggressività auto- ed eterodiretta abbia indotto un aggravamento del quadro e come invece i comportamenti problema si siano significativamente attenuati dopo la riduzione del dosaggio e la sospensione.
Conclusioni
I partecipanti alla CC hanno sottolineato l’esistenza di scarsa pratica clinica riguardo all’uso del buspirone nella DI adulta. Relativamente all’esperienza fatta la molecola è risultata di efficacia limitata, anche rispetto alle indicazioni off-label come la PICA.
Per la letteratura e la ricerca sull’utilizzo degli antiansia nelle persone con DI valgono le considerazioni generali già fatte per gli antidepressivi.
La scarsa letteratura esistente concorda nell’individuare nelle benzodiazepine una classe da utilizzare raramente e con estrema cautela sulle persone con DI. Questa popolazione presenta rischi molto più alti di quelli riscontrabili nella popolazione generale. È invece comune il reperto di un frequente e consistente utilizzo, soprattutto in ambito istituzionale.
L’indicazione elettiva è rappresentata dall’insonnia. Quando inevitabile, l’impiego dovrebbe orientarsi verso la molecola con caratteristiche di cinetica e dinamica più adatte alle esigenze specifiche (Tab. III) e dovrebbe essere sospeso il prima possibile con una riduzione graduale del dosaggio. Si ricorda che l’efficacia clinica non è dimostrata per periodi superiori alle 4 settimane.
Si invita inoltre a fare attenzione agli effetti paradossi, alla tossicità comportamentale ed alla compromissione cognitiva.
Per la gestione dell’ansia, con particolare attenzione all’insonnia, sono state suggerite altre molecole fra cui melatonina, iperico e antistaminici. Per mancanza di specificità il loro utilizzo non è stato approfondito.
Tab. I. Fluoxetina: principali interazioni, possibili effetti e meccanismo. Fluoxetine: prinicipal interactions, possible effects and mechanism.
Principio interagente |
Possibili effetti |
Meccanismo |
derivati dell�ergot |
nausea, vomito, ischemia vasospastica |
riduzione metabolismo ergotamina |
fenfluramina |
Sindrome Serotoninergica (SS) |
effetti serotoninergici additivi |
fenitoina |
aumento tossicità da fenitoina |
riduzione metabolismo fenitoina |
IMAO |
neurotossicità, sindrome serotoninergica |
Inibizione metabolismo serotonina |
pimozide |
bradicardia, sonnolenza |
? |
propafenone |
aumento propafenonemia |
interferenza citocromiale (P450; 2D6) |
sibutramina |
SS |
effetti serotoninergici additivi |
terfenadina |
cardiotossicità |
riduzione metabolismo terfenadina |
tramadolo |
convulsioni |
? |
trazodone |
Tossicità da trazodone o SS |
riduzione clearance trazodone |
triptofano |
SS |
eventi avversi additivi |
Fonte: adattamento da Garattini S, Nobili A. Interazioni tra farmaci � gli psicofarmaci � una valutazione della loro rilevanza clinica. Pavia: Selecta Medica 2003 |
Tab. II. Fluvoxamina: principali interazioni, possibili effetti e meccanismo. Fluvoxamine: prinicipal interactions, possible effects and mechanism.
Principio interagente |
Possibili effetti |
Meccanismo |
cisapride |
cardiotossicità |
interferenza citocromiale (P450; 3A4) |
fenfluramina |
Sindrome Serotoninergica (SS) |
effetti serotoninergici additivi |
fenitoina |
aumento tossicità da fenitoina |
riduzione metabolismo fenitoina |
litio |
SS |
? |
procarbazina |
tossicità SNC o SS |
Inibizione ricaptazione serotonina |
sibutramina |
SS |
effetti serotoninergici additivi |
terfenadina |
cardiotossicità |
riduzione metabolismo terfenadina |
tramadolo |
convulsioni |
? |
triptofano |
SS |
eventi avversi additivi |
Fonte: adattamento da Garattini S, Nobili A. Interazioni tra farmaci � gli psicofarmaci � una valutazione della loro rilevanza clinica. Pavia: Selecta Medica 2003 |
Tab. III. Principali benzodiazepine, emivita, metaboliti attivi ed usi terapeutici. Principal benzodiazepines, half-life, active metabolites and therapeutic uses.
Molecola |
emivita |
t 1/2 (ore) |
metaboliti attivi |
usi terapeutici |
alazepam |
breve |
14 |
nordiazepam |
ansia |
clorazepato |
breve |
2 � 0,9 |
nordiazepam |
ansia e convulsioni |
flurazepam |
breve |
74 � 24 |
N-idrossietilflurazepam, |
insonnia |
N-dealchilflurazepam |
||||
prazepam |
breve |
< 6 |
nordiazepam |
insonnia |
triazolam |
breve |
2,9 � 1 |
– |
insonnia |
alprazolam |
media |
12 � 2 |
non significativi |
ansia |
clordiazepossido |
media |
10 � 3,4 |
demetilclordiazepossido |
ansia, astinenza |
lorazepam |
media |
14 � 5 |
– |
ansia |
oxazepam |
media |
8 � 2,4 |
– |
ansia |
temazepam |
media |
11 � 6 |
– |
insonnia |
diazepam |
lunga |
43 � 13 |
nordiazepam |
ansia, epilessia |
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