Una famiglia particolare

A peculiar family

M. PAULIS

Dirigente medico I Livello Psichiatra, Psicoterapeuta, CSM Iglesias

Key words: Folie à plusieurs • Shared psychotic disorder • Forensic psychiatry • Delusions

Correspondence: Reg. Palmeri snc, 09016 Iglesias (Cagliari), Italy – Tel. +39 781 31783 – E-mail: almapa.p@email.it

Nella comune pratica del lavoro psichiatrico territoriale, i pazienti, specie quelli più gravi, presentano necessità complesse per cui è necessario un approccio multimodale, identificando come difficile il caso in cui convergono più fattori: clinici, psicopatologici, familiari, socio-ambientali e fattori legati agli operatori e alle strutture.

Così per poter recepire una domanda di aiuto spesso espressa, in modo non esplicito, da persone che noi definiamo “psicotiche”, l’attività di tipo sanitario dovrebbe essere integrata con la collaborazione dei Servizi Sociali, con le strutture del privato sociale, con le attività del volontariato e con le associazioni di familiari ed utenti psichiatrici.

Presentiamo un caso che ci sembra paradigmatico della problematicità legata al vuoto relazionale ed alla emarginazione e delle difficoltà, problemi, necessità e soluzioni da noi adottati in cui è stata necessaria la collaborazione estensiva tra i vari agenti territoriali.

Nel luglio 1997 il nostro CSM riceveva una segnalazione da parte dei servizi sociali del Comune di Iglesias: un’intera famiglia composta da tre persone (madre anziana e due figli, maschio e femmina sui quaranta anni) viveva da 20 anni “volontariamente” segregata in casa con contatti con il mondo esterno sempre più sporadici sino a ridursi ad uno solo dei componenti, la figlia, che usciva per le strette necessità alimentari; peraltro la madre, l’unico sostegno economico della famiglia, da diversi mesi non usciva più neanche per ritirare la misera pensione.

L’immediata visita domiciliare non sortiva alcun risultato, per cui si cercavano contatti con la famiglia di origine e una figlia, rientrata dopo un lungo periodo di assenza, ci riferiva una situazione difficile che lei, da diverso tempo, non controllava più.

Verificata una situazione di reale interesse psichiatrico, si concordava un intervento con la collaborazione di vigili del fuoco, carabinieri, vigili urbani, servizi sociali e noi, ciascuno per gli interventi di propria competenza.

Sfondata la porta dai vigili del fuoco, uno psichiatra ed un maresciallo dei carabinieri entravano in una specie di antro occupato da mucchi di buste dell’immondezza stracciate, inondato da un mare di acqua sporca con mobili che si erano dimenticati di esistere ed un pagliericcio messo in terra al posto del letto, un rubinetto per l’acqua, nient’altro.

Dopo una brevissima ricerca si trovavano di fronte a tre persone deliranti, vestite di stracci, intimidite per una situazione di cui non comprendevano la gravità e sorprese di determinare l’interesse di così tante persone (nel frattempo erano entrati anche gli operatori dei servizi sociali, i vigili del fuoco ecc.).

L’inutilità dei tentativi di stabilire un dialogo causava il Trattamento Sanitario Obbligatorio di tutta la famiglia, presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Carbonia, con un clamore che determinava diversi articoli sui principali quotidiani regionali.

Era un eccezionale caso di delirio a tre. Come descritto nel DSM IV-TR la condivisione avveniva tra persone con una stretta relazione, su un delirio coerente di tipo persecutorio, esordito inizialmente nella madre (delirante primario) sul finire degli anni Settanta. Il tema fondamentale del delirio era l’idea che le Brigate Rosse, che all’esordio del disturbo seminavano il terrore, avessero rinchiuso la società nel suo complesso in una specie di lager nazista, imprigionando e torturando molte persone. Questo diventava l’elemento dominante del rapporto tra i tre ed il mondo esterno.

Da segnalare la coincidenza di due rilevanti eventi: uno microsociale (la morte del marito) ed uno macrosociale (una lacerante crisi legata alla chiusura delle miniere, la più importante risorsa economica del territorio, con la conseguente emigrazione dei figli maggiori), per cui le persone più deboli della famiglia perdevano importanti punti di riferimento e di conseguenza sceglievano per difendersi l’isolamento, altro elemento descritto in letteratura come concausa del delirio condiviso.

Altre idee deliranti in cui erano scomparsi i sacerdoti, o non si producevano più indumenti né determinati alimenti, che venivano scambiati retroattivamente tra madre e figlio (la figlia non era parte attiva in questo scambio), confermavano il delirio primario, rafforzavano i motivi della segregazione e spiegavano le loro condizioni di indigenza.

Erano presenti nella madre altri deliri meno coerenti, la convinzione che un figlio minore, morto giovanissimo per una affezione broncopolmonare, fosse in realtà ancora vivo ed avesse una occupazione presso gli uffici INPS di Cagliari, legato presumibilmente al distacco traumatico dai figli emigrati. Un delirio genealogico in cui la figlia era stata in realtà generata dalla regina d’Italia, come reazione alla consapevolezza, seppur confusa, della sua situazione di degrado.

Il figlio che era stato costretto ad abbandonare gli studi l’ultimo anno di ragioneria, presentava un disturbo schizofrenico, esordito dopo il delirio della madre (delirante secondario), condivideva pienamente il delirio fondamentale della madre, rinforzandolo anche con le sue allucinazioni uditive, affermando di sentire le voci delle persone imprigionate e torturate. Criticava i deliri meno coerenti, anche se non spontaneamente, ma solo se sollecitato ad un giudizio. Presentava a sua volta un delirio persecutorio originale in cui pensava di essere ricercato dai carabinieri perché renitente alla leva, motivo questo che lo rafforzava nella decisione di non uscire mai. Era il più consapevole della condizione di estrema miseria in cui vivevano.

Una considerazione a parte merita la figlia, affetta da un lieve ritardo mentale, che non appariva in grado di criticare i deliri dei congiunti, ma li faceva propri senza discutere e senza proporre idee personali. L’assenza di produzioni deliranti le permetteva di diventare l’unico referente possibile con il mondo esterno per gli acquisti indispensabili; nello stesso tempo effettuava però solo quelli che confermassero il loro mondo e contribuiva in maniera rilevante alla lunga durata della loro particolare situazione.

In questo caso troviamo un tipico delirio indotto: l’unica persona che riusciva ad avere un contatto con la realtà e a vederla, la negava per conformarsi alla modalità di pensiero dominanti nel suo contesto familiare.

Dopo un mese di ricovero ed una relativa stabilizzazione clinica si proponeva la necessità di trovare un contesto che accettasse la presenza di tutto il nucleo familiare e che permettesse una difficile riabilitazione.

Per cui con la collaborazione dei Servizi Sociali, la famiglia veniva inserita in una struttura del privato sociale (il Centro AIAS di Domusnovas), con cui il nostro Centro aveva da tempo instaurato un rapporto di reciproca collaborazione.

Dopo un periodo di osservazione delle interazioni familiari, la proposta di lavoro iniziale fu quella di un lentissimo e graduale distacco dei due giovani, che vivevano sotto la supervisione costante della madre, attraverso uscite “mirate” ad uno scopo particolare, acquisto di un indumento, di oggetti personali ecc.

In questo modo il figlio riusciva a separarsi dalla madre per tempi sempre più lunghi e ad acquisire una certa autonomia, sino ad essere impegnato in attività riabilitative floro-vivaistiche quotidiane presso un’azienda agricola di proprietà dell’AIAS.

La separazione dalla figlia fu più difficoltoso e fummo costretti ad una maggiore gradualità, anche perché probabilmente ci scontravamo con una perdita di ruolo della madre. Per cui impostammo il lavoro con continue conferme del ruolo materno, in modo che la madre accettasse il distacco ed anche la figlia venisse inserita nella stessa attività del fratello.

In seguito anche la madre veniva inserita in un laboratorio di produzione di cestini di vimini assieme a donne della sua età.

Si cercava inoltre di favorire il riavvicinamento con i familiari, che venivano costantemente rimproverati dalla madre. Una delle figlie maggiori, quella che era ritornata in città, riusciva almeno a farsi accettare, presentandosi con sempre maggiore frequenza e dimostrando per loro un certo interesse.

A questo punto, dopo due anni e mezzo, l’esperienza dell’AIAS cominciava a manifestare alcuni limiti legati alle caratteristiche di tutte le istituzioni, nella routinarietà ed impersonalità degli interventi, per cui ci sembrava utile riportare la famiglia ad una condizione più “familiare”, comunque protetta dalle tentazioni regressive, anche per valutare meglio il senso ed il valore effettivo del cambiamento.

Diveniva di nuovo estremamente preziosa la collaborazione con i Servizi Sociali del comune che proponevano un affidamento familiare; l’idea veniva discussa prima tra tutte le persone coinvolte ed infine venne proposte alla famiglia.

La madre manifestava fortissime resistenze nei confronti di questa proposta che le appariva come un limite al suo dominio e comunque riuscivamo a convincerla. I figli pur non esprimendosi in maniera troppo esplicita, dimostravano un certo interesse.

Gli altri familiari non accettavano il progetto che sembrava una ulteriore disconferma del loro ruolo, aggravando un vissuto di colpa, per cui abbandonavano la riunione in cui erano convocati, assieme a tutti gli interessati, minacciando denuncie se si fossero verificati problemi.

Sin dall’inizio cercavamo di chiarire agli affidatari la loro notevole importanza come stimolo nei confronti della famiglia affinché ciascun componente assumesse un ruolo più funzionale all’interno delle relazioni tra loro e con il mondo esterno.

Se le prime settimane si rivelavano abbastanza difficili, soprattutto la gestione delle relazioni con la madre, l’inserimento in affidamento gradualmente cominciava a dare buoni frutti, ormai i due figli si dimostravano sempre più capaci di affrontare nuovi contesti e situazioni e la madre riscoprì il suo ruolo di padrona, tanto da accettare l’autonomia dei figli. L’estate successiva i figli passavano un periodo di vacanza estiva separati da lei ed effettuavano un breve viaggio come fosse una cosa normale.

Dopo due anni una novità cambiava ulteriormente la situazione: i Servizi Sociali a suo tempo avevano inoltrato per la famiglia una richiesta di inserimento nelle graduatorie per le case IACP ed erano risultati tra i primi aventi diritto, per cui si poteva impostare un programma di maggiore autonomia in una casa finalmente loro, anche se sempre sotto supervisione costante.

Decidevamo di cercare l’appoggio della figlia maggiore che, nel frattempo, anche in seguito al successo dell’affidamento, si era ricreduta sui problemi dei familiari ed aveva accettato di poterli aiutare a vivere una situazione ormai così strettamente “domestica”.

Per cui dopo una lunga fase di discussione e preparazione tra tutti i servizi e le persone coinvolte, nel novembre 2002, la famiglia trovava sistemazione definitiva nella sua casa.

Il problema della terapia farmacologica veniva affrontato subito dopo la dimissione, tenendo presente il profilo clinico dei pazienti, in cui è sembrato di maggior rilievo la presenza di sintomi negativi, ci siamo orientati per l’uso di un neurolettico atipico con olanzapina 10 mg/die per la madre e lo stesso farmaco ad un dosaggio di 5 mg /die per i figli.

In questi cinque anni non ci sono stati ricoveri per motivi psichiatrici in nessun membro della famiglia e i deliri, pur presenti, venivano gradualmente incapsulati.

Da quanto finora descritto si può concludere che le idee che ci hanno guidato sin dall’inizio sono legate alla necessità di lavorare nel territorio per riuscire a dare una risposta riabilitativa realmente adeguata alle necessità degli utenti, anche nei casi più complessi, laddove sembrerebbe difficile uscire dal circolo della istituzionalizzazione.

Per cui ci è sembrato necessario:

– La definizione del contesto socio-ambientale e relazionale, non necessariamente per definire la patologia ma anche e soprattutto per reperire risorse che ci avrebbero potuto aiutare nel processo riabilitativo.

– La ricostruzione della storia personale del paziente alla ricerca della logica dello scompenso con l’individuazione della struttura di personalità e delle qualità personali che ci avrebbero guidato nella ricerca delle risposte più adeguate.

Questo lavoro di ricostruzione psico-socio-ambientale ci è sembrato propedeutico a qualsiasi intervento che permettesse l’integrazione sociale, il territorio di conseguenza diveniva il luogo privilegiato di verifica delle proposte terapeutiche da noi presentate ai pazienti.

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