Suggerimenti per la neurobiologia del disturbo di panico: il contributo degli studi clinici

Suggestions for the neurobiology of panic disorder: the contribution of clinical studies

G.D. Kotzalidis, V. Orlandi, R. Brugnoli, P. Pancheri

III Clinica Psichiatrica, Università di Roma "La Sapienza"

Parole chiave: Panico • Disturbo di panico • Neuroanatomia • Neurobiologia • Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) • Clomipramina • Imipramina • Inibitori delle monoaminoossidasi (IMAO) • Ansiolitici benzodiazepinici • Alprazolam • Clonazepam • Fattore di rilascio della corticotropina (CRF) • Psicoterapia cognitivo-comportamentale
Key words: Panic • Panic disorder • Neuroanatomy • Neurobiology • Selective serotonin reuptake inhibitors (SSRIs) • Clomipramine • Imipramine • Monoamine oxidase inhibitors MAOIs) • Benzodiazepine anxiolytics • Alprazolam • Clonazepam • Corticotropin-releasing factor (CRF) • Cognitive-behavioural psychotherapy

Introduzione-Was mir die klinische Untersuchungen erzählen

Le sperimentazioni clinico farmacologiche costituiscono il banco di prova di ogni teoria neurobiologica, nonché spesso una fucina di idee scaturite da osservazioni “serendipite” che rimandano alla sperimentazione di base informazioni correttive o innovative sui modelli da mettere alla prova. Tuttavia, le osservazioni che scaturiscono dalla clinica sono spesso di difficile interpretazione, perché i protocolli di ricerca sono spesso standardizzati secondo necessità aziendali, piuttosto che scientifiche, e i parametri da mantenere costanti sono assai in eccesso rispetto a quelli di laboratorio e spesso difficilmente controllabili. La misura in cui la realtà clinica può confondere e dissimulare la validità sottostante di un’ipotesi abbastanza accettabile varia a seconda della patologia trattata e di fattori inerenti alle condizioni sperimentali, tra cui il centro che ha effettuato la ricerca, le aspettative, la motivazione e le convinzioni del(i) terapista(i) riguardo alla terapia, le aspettative dei pazienti, la variabilità di dosaggio, l’eterogeneità della popolazione di pazienti (1). Ad esempio, un farmaco che viene dato nell’ambito di una determinata ipotesi per una data patologia, per sostenere la possibile validità dell’ipotesi, deve dimostrare una specificità terapeutica e quindi deve essere significativamente superiore ad una terapia aspecifica come il placebo. Ne consegue che, se la condizione trattata è ad alta responsività al placebo, l’ipotesi diventa più difficile da provare. Se una certa teoria su una determinata condizione costituisce solo una piccola parte di un modello più ampio, l’effetto di una metodica terapeutica o di un farmaco utilizzato nell’ambito di questa teoria sarà rivolto al miglioramento solo parziale (se il meccanismo relativo alla teoria non è centrale al modello) e tale miglioramento sarà solo marginalmente significativo e potrà essere oscurato dall’intervento di altri fattori. Ambedue queste ipotesi riportate si verificano nel caso del disturbo di panico.

Il disturbo di panico, come molti altri disturbi d’ansia, eccetto il disturbo ossessivo-compulsivo, evidenzia un’alta percentuale di responsività al placebo, intorno al 30% (2), che può superare anche il 50% se non si pongono criteri di responsività ristretti (3). La risposta del disturbo di panico al placebo si verifica presto nel corso della prova clinico sperimentale, tende a persistere anche dopo la sospensione della terapia e non è legata a particolari caratteristiche clinico demografiche del paziente (4). Ciò rende ulteriormente difficile la dissezione farmacologica degli effetti antipanico delle altre terapie (5). L’unica caratteristica biologica che ha maggiori probabilità di essere accompagnata da una risposta positiva al placebo è un asse ipotalamo-ipofisi-surreni (HPA) ben funzionante, come evidenziato dal test di soppressione al desametazone (6). La funzionalità dell’asse HPA è un indice di resilience del sistema e un predittore di risposta positiva non solo al placebo, ma anche alla farmacoterapia del disturbo di panico (7), e pazienti panicosi con compromissione di tale asse hanno maggiore probabilità di sviluppare ricadute alla sospensione della farmacoterapia (8) anche se non hanno una prognosi peggiore (9).

Da quando il disturbo di panico ha assunto con il DSM-III (10) (come disturbo da attacchi di panico) una dignità nosografica propria, sono stati effettuati studi clinico sperimentali riguardanti principalmente farmaci che interessavano le loro aziende produttrici in quel periodo, per cui diventavano centrali delle ipotesi che vanno concepite nell’ambito di un contesto più ampio, come si evince dalla massa di dati che abbiamo finora riportato. Così, la teoria benzodiazepinica fu mutuata dagli altri disturbi d’ansia quando vi era interesse ad affermare che le benzodiazepine triazoliche erano specificamente efficaci nel disturbo di panico, anche per via di alcune loro proprietà neurochimiche simili a quelli degli antidepressivi a livello ipotalamico, come successivamente vedremo; in seguito, con il fallimento dell’introduzione dell’adinazolam sul mercato, le ricerche si sono concentrate sulle “benzodiazepine ad alta potenza”, intendendo come tali in pratica solo il clonazepam, con l’aggiunta dell’alprazolam, reduce di successo dell’avventura triazolica. Tuttavia, anche per le altre benzodiazepine si sono riscontrati risultati non diversi da quelli ottenuti con l’alprazolam ed il clonazepam, i due dominatori della letteratura terapeutica benzodiazepinica, e quindi non si comprende la necessità di fomentare la proliferazione di termini e sigle per sostenere sostanzialmente una teoria come quella benzodiazepinica che ha molti caratteri di aspecificità, vista l’estrema diffusione del sistema GABAergico e dei recettori GABAA e la loro capacità inibente su quasi tutti i sistemi neurotrasmettitoriali. D’altra parte, il fatto che la teoria noradrenergica del locus coeruleus non sia riuscita a dare risultati concreti, data la scarsa efficacia dei beta-bloccanti e la prestazione non brillantissima dei bloccanti la ricaptazione noradrenergica, ha spostato sul sistema serotoninergico il centro d’attenzione per spiegare gli effetti positivi dell’imipramina, sempre negli anni Ottanta. Poiché l’industria si è prodigata nella produzione di molecole bloccanti la ricaptazione della serotonina (SSRI) in quel periodo, la teoria serotoninergica degli attacchi di panico ha dominato la scena tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta e quasi tutti i farmaci SSRI sono stati trovati utili negli attacchi di panico (ma non sempre). Però, l’averli trovati utili non significa che siano risultati risolutivi. Infatti, ridurre la frequenza o la gravità degli attacchi o l’ansia associata significa risolvere solo parte del problema. Dalla considerazione poi che il disturbo di panico è sintomatologicamente eterogeneo nei periodi intercritici, con presenza variabile di agorafobia, e che su questo particolare aspetto del disturbo è stata riportata solo sporadicamente un’efficacia dei farmaci utilizzati, deriva che non ci si può attendere la risoluzione della patologia da un solo tipo di terapia, ma che nel caso in cui una singola terapia abbia successo, non è da escludere che fattori non farmacologici o altri al di fuori del riquadro teorico della terapia abbiano giocato un ruolo. Ci riferiamo al rapporto medico-paziente e ai fattori aspecifici della terapia.

Il fatto che terapie come gli antagonisti non peptidici della colecistochinina si siano rivelate inefficaci non significa che l’ipotesi colecistochininica degli attacchi di panico sia da rifiutare, ma piuttosto da integrare con altre terapie; vanno inoltre ricercate le ragioni per cui a volte gli attacchi di panico indotti da una sostanza (CCK-4) che agisce su un determinato (CCKB) recettore non siano sempre, ma solo qualche volta, bloccati dagli antagonisti selettivi di questo recettore (possibili spiegazioni: a) il CCK-4 non induce il panico attraverso la stimolazione del recettore CCKB o solo attraverso tale stimolazione; b) gli agonisti impiegati non attraversano affidabilmente la barriera ematoencefalica; c) una volta scatenato, l’attacco da stimolazione dei recettori CCKB non si ferma con il blocco degli stessi recettori, oppure il pretrattamento con antagonisti è insufficiente a prevenire il legame del tetrapeptide con il recettore CCKB). Il fatto che qualche volta gli antagonisti CCKB in pretrattamento abbiano bloccato l’attacco di panico da CCK-4, pur risultando poi inattivi sul piano clinico, va inquadrato come significante una maggiore complessità biologica del disturbo di panico rispetto all’attacco chimicamente indotto.

Dagli studi clinici, per quanto riguarda l’ipotesi monoaminergica del disturbo di panico, emerge in sintesi che:

1. I meccanismi serotoninergici sono più importanti dei meccanismi noradrenergici.

2. Il blocco del trasportatore della serotonina è spesso efficace, a prescindere dai meccanismi recettoriali a lungo termine che il singolo farmaco comporta (i farmaci SSRI e il triciclico clomipramina inducono adattamenti recettoriali diversi tra di loro ed a questo corrisponde una diversità di effetti sul paziente).

3. Il recettore serotoninergico presumibilmente più coinvolto è il 5-HT2A, mentre il recettore 5-HT1A sembra non giocare un ruolo importante.

4. L’inibizione della MAO-A sortisce effetti discreti, ma inferiori a quello dei triciclici e degli SSRI; tuttavia, la massa dei dati riguarda in particolare gli inibitori reversibili moclobemide e brofaromina (non entrata in commercio), mentre i dati sugli altri inibitori delle monoaminoossidasi sono scarsi anche perché quando è stato definito il disturbo di panico come entità nosografica circoscritta tali farmaci erano abbastanza in disuso per via delle restrizioni alimentari che il loro uso comporta e la loro ipotetica (e aneddotica) pericolosità.

Sistema noradrenergico e imipramina

I meccanismi adrenergici si sono dimostrati poco importanti nell’azione dei farmaci antipanico. I beta bloccanti come il propranololo non hanno dimostrato nessun’efficacia (11,12). Il pindololo, che come il propranololo ha anche affinità per i recettori 5-HT1A (13) e 5-HT1B (14) e meno per i recettori 5-HT1D (15), induce effetti complessi a loro carico (16-24); il farmaco si è dimostrato solo in uno studio efficace nell’augmentation dell’azione della fluoxetina in pazienti con disturbo di panico farmaco-resistenti (25). Si ritiene che negli effetti di augmentation degli effetti di psicofarmaci da parte del pindololo il maggior ruolo sia svolto dall’antagonismo 5-HT1A (26-29). Sebbene il propranololo sia più lipofilo del pindololo (30), quest’ultimo ha maggiori effetti centrali (31) probabilmente a causa della maggiore concentrazione che riesce a raggiungere nel fluido cerebrospinale (32); il propranololo, contrariamente al pindololo, non è stato finora provato in add-on sulla farmacoterapia in vigore né nella depressione, né nel disturbo ossessivo-compulsivo, né nel disturbo di panico farmacoresistenti.

L’agonista 2-adrenergico clonidina ha indotto effetti ansiolitici solo transitori in pazienti con disturbo di panico (33). Il razionale dell’impiego di clonidina risiederebbe nella proprietà agonista nei confronti degli autorecettori presinaptici 2-adrenergici, che risulterebbe in una ridotta sintesi e liberazione di noradrenalina dal locus coeruleus, che sta alla base della riduzione della sintomatologia panico simile della sindrome d’astinenza da oppioidi da parte di questo farmaco (34-36); tuttavia, la transitorietà della risposta fa pensare che siano importanti anche i meccanismi serotoninergici. Infatti, l’azione 2 agonista della clonidina sugli eterorecettori presinaptici potenzia il blocco della trasmissione serotoninergica indotto da noradrenalina (37). Al contrario, la mirtazapina, che grazie alla sua proprietà di blocco degli eterorecettori presinaptici 2-adrenergici allevia l’inibizione della liberazione della serotonina (38-40), ha indotto in aperto un controllo sintomatologico protratto nel 60% di un piccolo campione di pazienti affetti da disturbo di panico (41). Comunque, la modalità di controllo del rilascio di noradrenalina da parte della clonidina è piuttosto complessa, perché coinvolge anche una componente recettoriale imidazolinica stimolatoria di tipo II (42,43) ed è anche modulata negativamente dalla serotonina e positivamente dal glutammato (44), mentre per la mirtazapina non esiste finora evidenza di azione attraverso meccanismi imidazolinici.

La maggiore importanza dei meccanismi serotoninergici è testimoniata dal fatto che all’effetto antipanico da somministrazione di imipramina si correla il tasso di imipramina circolante, ma non del suo metabolita desipramina (45,46); giova ricordare come l’imipramina sia dotata di un’attività più equilibrata sui trasportatori della serotonina e della noradrenalina (47), mentre la desipramina, il metabolita principale dell’imipramina, blocca quasi esclusivamente la ricaptazione della noradrenalina (48). Anche in altri disturbi d’ansia i meccanismi serotoninergici sembrano più importanti; ad esempio, gli effetti clinici positivi ottenuti nel disturbo d’ansia generalizzato con la somministrazione di imipramina sono antagonizzati dalla desipramina (49).

Donald Klein sperimentò la somministrazione di imipramina negli anni sessanta negli attacchi d’ansia seguiti da agorafobia con ottimi risultati (50). Continuò a sperimentarla anche quando il disturbo assunse la sua ultima denominazione, ottenendo sempre altissime percentuali di responsività in aperto (51). Le ragioni di tale successo terapeutico dell’imipramina vanno cercate in fattori, come quelli aspecifici, che esulano dal modello fisiopatologico che si seguiva in quegli anni. Infatti, in quel periodo venivano effettuati studi atti a verificare una teoria serotoninergica-noradrenergica, tuttavia il disegno sperimentale era abbastanza semplicistico e le conclusioni venivano tratte con l’aiuto di salti logici. Ad esempio, un gruppo di ricercatori, che successivamente divenne uno dei più importanti gruppi di ricerca statunitensi, ha somministrato in pazienti affetti da disturbo di panico imipramina come sonda dell’attività noradrenergica, trazodone come sonda dell’attività serotoninergica e alprazolam come sonda GABAergica, ma anche della down-regulation -adrenergica (52). L’alprazolam e l’imipramina hanno evidenziato attività antipanico comparabile, pronta il primo e tardiva (4a settimana) la seconda, mentre il trazodone fu poco tollerato e solo in pochi casi efficace; gli autori conclusero “questi reperti sostengono le ipotesi che farmaci efficaci nel trattamento dei disturbi di panico agiscono alterando la funzione noradrenergica e che farmaci con azioni primarie sulla funzione della serotonina sono propensi ad essere dei trattamenti meno efficaci”. Questo senza considerare che l’attività dell’alprazolam sul sistema noradrenergico è abbastanza modesta per giustificare l’entità dell’effetto clinico ottenuto con la stessa benzodiazepina triazolica, che l’imipramina ha una notevole attività serotoninergica ed, infine, che il trazodone ha notevole affinità per i recettori 1- (53) e 2-adrenergici (54).

Era il 1986 e poco tempo dopo la tendenza è cambiata. Già un anno dopo il trazodone fu riabilitato per quanto riguarda la sua efficacia e tolleranza (55) e le conclusioni rispetto all’importanza del sistema serotoninergico nel disturbo di panico e dell’agorafobia divennero più lusinghiere (“… sottolinea l’importanza di meccanismi serotoninergici nei disturbi di panico e agorafobici”). Successivamente, un ampio studio italiano e uno svedese in doppio cieco hanno evidenziato una certa superiorità della clomipramina nei confronti dell’allora intoccabile imipramina (56,57) ed uno studio in doppio cieco olandese ha dimostrato efficacia per il farmaco bloccante la ricaptazione della serotonina fluvoxamina e inefficacia per il farmaco noradrenergico maprotilina, rovesciando completamente la natura dell’ipotesi monoaminergica del disturbo di panico (58). La maprotilina ha continuato a risultare inferiore agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (59), ma la desipramina, un inibitore della ricaptazione di noradrenalina, è stata utile nel ridurre la sintomatologia non panicosa del disturbo (60) e l’incidenza degli attacchi di panico in oltre l’80% del campione in uno studio in doppio cieco contro placebo (61), nonché i punteggi di varie scale di valutazione, anche se in misura inferiore alla clomipramina (62). Nell’ambito di teorie tutte serotoninergiche dei disturbi d’ansia e degli attacchi di panico, sono state ipotizzate anomalie (ipersensibilità) di recettori serotoninergici postsintaptici 5-HT2 (63,64) (ma la somministrazione dell’antagonista selettivo 5-HT2A/2C/7 ritanserina ha sortito un blando effetto positivo solo in aperto (65) e fu trovato senza effetto in uno studio in doppio cieco (66) )e presinaptici 5-HT1A (67) (ma anche qui, la somministrazione di sostanze specifiche come il buspirone o il flesinossano non ha sortito effetti positivi, come vedremo) quali alterazioni centrali al disturbo di panico. Si è così passati in due anni da un estremo (la noradrenalina è importante, la serotonina è marginale) all’altro, quello di considerare il sistema noradrenergico come inerte nel disturbo di panico; nei primi anni Novanta, infine, grazie anche alle evidenze provenienti dalla clinica, si è tornati ad una visione più integrata, nella quale, comunque, il sistema serotoninergico mantiene un posto privilegiato (68).

Il sistema serotoninergico

Tra i farmaci con attività selettiva sui recettori serotoninergici sono stati provati nel disturbo di panico il trazodone e il nefazodone, due farmaci derivati clorofenilpiperazinici a struttura triazolica (69,70). I due farmaci hanno profili farmacodinamici sovrapponibili, con il nefazodone che ha una maggiore capacità rispetto al trazodone di bloccare il recettore 5-HT2A nonché di bloccare, oltre al trasportatore della serotonina, anche quello della noradrenalina (71). La loro maggiore attività recettoriale il di blocco del recettore 5-HT2A (72,73), mentre è più modesta l’attività di blocco della ricaptazione di serotonina; inoltre, facilitano la trasmissione 5-HT1A-mediata (74,75) e, grazie al loro metabolita m-clorofenilpiperazina (mCPP) (76,77), stimolano il recettore 5-HT2C (78,79). Nei riguardi dei recettori adrenergici sono dotati di una buona capacità di bloccare i recettori 1 (80), ma sono molto meno potenti nei confronti dei recettori 2 (81), mentre sembrano scarsamente attivi sui recettori -adrenergici e muscarinici e posseggono una discreta attività antistaminica (82). Tuttavia, la somministrazione di trazodone in cronico non induce modificazioni dei parametri di legame dei recettori 5-HT2A/2C (83), ma desensibilizza i recettori -adrenergici (84,85). Il trazodone è stato confrontato in doppio cieco con imipramina e alprazolam risultando inferiore ai farmaci di confronto, mentre in aperto, come già detto, è risultato efficace. Il nefazodone è stato finora studiato solo in aperto nel disturbo di panico; in uno studio che ha impiegato alti dosaggi si è dimostrato efficace dopo 4 settimane in pazienti con disturbo di panico in comorbidità in più della metà del campione (86). Nell’altro studio, il farmaco ha ottenuto una risposta più modesta degli altri farmaci antipanico, ma è stato meglio tollerato (87). Poiché il metabolita mCPP di questi due farmaci induce ipersensibilità comportamentale in pazienti con disturbo di panico (88), è possibile che il mancato effetto terapeutico sia legato ad un’attivazione dei recettori 5-HT2C. Nell’insieme, questi dati indicano che la desensibilizzazione in cronico dei recettori 5-HT2A possa costituire un prerequisito per una buona efficacia di una terapia antipanico e che i farmaci che non la evidenziano nelle sperimentazioni su animali abbiano una ridotta potenza terapeutica, nonostante il blocco diretto del recettore. Risultati analoghi a quelli dei due triazoloni clorofenilpiperazinici sono stati ottenuti, come già discusso, con la mirtazapina, che condivide con questi farmaci la capacità di bloccare il recettore 5-HT2A e 1-adrenergico, ma che blocca molto più potentemente il recettore 2-adrenergico ed è dotato di proprietà 5-HT3-bloccanti (89).

Altra evidenza riguardo una maggiore importanza dei meccanismi serotoninergici, rispetto a quelli noradrenergici, viene da uno studio sull’effetto della venlafaxina nel disturbo di panico. Questo farmaco, come evidenziato da studi funzionali, bloccherebbe la ricaptazione di tutte le monoamine biogene, secondo una curva che cresce esponenzialmente; a dosaggi bassi blocca il trasportatore della serotonina con affinità simile a quella della fluoxetina e della clomipramina; a dosaggi tre volte superiori blocca anche il trasportatore della noradrenalina e solo a concentrazioni di oltre nove volte blocca anche il trasportatore della dopamina (90) (occorre tuttavia tenere presente che in un recente studio in vitro, la potenza della venlafaxina sul trasportatore della serotonina è risultata moderata, mentre sul trasportatore della noradrenalina era addirittura scarsa). Ebbene, dopo una prima segnalazione nel 1995 di un effetto antipanico a 50-75 mg (91), cioè a blandi dosaggi di mantenimento antidepressivo, in uno studio in aperto a dosaggi fissi/flessibili, la venlafaxina ha ottenuto il migliore effetto antipanico a dosi di meno di 50 mg pro die, un dosaggio sufficiente solo per un efficace blocco della ricaptazione della serotonina, ma non della noradrenalina (92). In uno studio in doppio cieco contro placebo, la venlafaxina ha ottenuto entro le otto settimane un miglioramento sintomatologico con tendenza al miglioramento della sintomatologia ansiosa e depressiva (93).

Fino agli anni Settanta, i disturbi d’ansia venivano trattati spensieratamente con benzodiazepine. Dopo avere realizzato il potenziale di questi farmaci a dare dipendenza (94-98), si cercarono farmaci alternativi. L’osservazione che nell’animale comportamenti assimilabili all’ansiolisi venivano indotti, oltre che dalle benzodiazepine, anche dagli azaspirodecanedioni (99), come il buspirone (100-102), il gepirone (103) e l’ipsapirone (104,105), ha spinto a provare questo gruppo di farmaci, accomunato da un agonismo dei recettori 5-HT1A (106), per lo più parziale (107), a partire dagli ultimi anni Settanta-primi anni Ottanta (108,109). Le ricerche portarono all’ampia commercializzazione del buspirone per il disturbo d’ansia generalizzato (110,111). Successivamente, David Sheehan e il suo gruppo hanno provato questo farmaco nel disturbo di panico (112,113). L’insuccesso iniziale fu attribuito, oltre che all’alta percentuale di responder nel gruppo del placebo, al dosaggio, che era vicino a quello ansiolitico. Tuttavia, anche uno studio successivo che ha impiegato dosaggi più alti ha ottenuto risultati analoghi (114). Uno studio che ha impiegato una dose intermedia di buspirone contro imipramina e placebo non ha trovato differenze significative tra i trattamenti anzi, come percentuale di risposta, l’imipramina risultava inferiore al placebo (115). Tutti gli effetti del buspirone nel disturbo di panico sembrano orientati sui sintomi ansiosi e non sui sintomi nucleari del panico; infatti, in aggiunta a benzodiazepine che avevano controllato gli attacchi di panico ma non l’ansia dei quattro pazienti studiati, il buspirone ha migliorato il quadro potenziando l’effetto ansiolitico delle benzodiazepine (116). Invece il gepirone, in uno studio in aperto condotto intorno al 1993, ha indotto la scomparsa degli attacchi in più della metà dei pazienti e un buon effetto ansiolitico (117). Tuttavia, questo studio non è stato affiancato da studi in doppio cieco. La somministrazione invece di ipsapirone ha indotto modificazioni comportamentali simili a quelle indotte dall’mCPP con induzione di attacchi di panico in più della metà dei soggetti anche se poi, dal punto di vista neuroendocrino, gli effetti delle due sostanze erano opposte (118).

Sempre nell’ambito dell’ipotesi di un’iposensibilità autorecettoriale presinaptica e post-sinaptica 5-HT1A del disturbo di panico (119), è stato sperimentato l’agonista selettivo 5-HT1A flesinossano nel disturbo di panico in doppio cieco contro placebo con due disegni, uno cross-over e uno a due dosaggi; il farmaco ha indotto solo un aumento dell’ansia e della depressione nei pazienti trattati, ma non ha migliorato i sintomi del disturbo (120). Questo era da attendersi sulla base di risultati delle sperimentazioni animali, che dimostrano come il flesinossano aumenti nel ratto i comportamenti avversivi da stimolazione della sostanza grigia periacqueduttale (121). Da altri studi su animali emergerebbe un possibile ruolo protettivo o nullo dell’agonismo 5-HT1A nei confronti del disturbo di panico; comportamenti di fuga ad una via (modello del panico che presume l’inibizione della paura non condizionata da parte degli agonisti 5-HT1A nella sostanza grigia periacqueduttale laterale (122) )sono inibiti dall’imipramina nel ratto con la mediazione dell’agonista 5-HT1A/7/1B (123,124) 8-OH-2-di-N-propilamino-tetralina (125), mentre gli agonisti 5-HT1A nel topo non influiscono sui comportamenti di fuga (126). C’è da tenere presente, tuttavia, che l’ultimo modello può prescindere dalla sostanza grigia periacqueduttale e che il recettore 5-HT1A ha effetti antitetici a seconda della sede: nella sostanza grigia periacqueduttale inibisce la risposta di paura non condizionata, mentre nell’amigdala aumenta la risposta alla paura condizionata (127). Inoltre, l’imipramina induce in cronico una down-regulation dei recettori 5-HT1A (128), per cui il suo effetto positivo nel disturbo di panico potrebbe dipendere proprio da questo effetto. L’imipramina ha un effetto ansiolitico in cronico sia nei paradigmi di ansia che di panico, mentre in acuto è ansiogena nella paura condizionata (paradigma dell’ansia generalizzata) e ansiolitica nella paura non condizionata (paradigma del disturbo di panico) (129). Questo modello animale del disturbo di panico presuppone che l’ansia appresa sia mediata da un fascio serotoninergico che dal nucleo mediano del rafe si distribuisce nel nucleo centrale dell’amigdala, mentre l’ansia innata (panico) sarebbe modulata da un fascio serotoninergico retroattivo che va dall’amigdala alla sostanza grigia periacqueduttale dorsale (130). Colpisce il fatto che nell’uso clinico gli agonisti 5-HT1A possano avere una gamma di efficacia così ampia, che va da buona a nulla, fino al peggioramento della malattia. Si potrebbero invocare ragioni legate all’entità dell’agonismo parziale, ma occorre altresì tenere presente che questi farmaci non sono scevri da effetti su altri recettori serotoninergici (131-135) e su altri sistemi, come ad esempio quello dopaminergico (136,137) e quello noradrenergico (138).

SSRI e clomipramina

I farmaci che bloccano il trasportatore della serotonina si sono dimostrati tutti abbastanza efficaci nel disturbo di panico. Questa categoria di farmaci comprende la clomipramina e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Apparentemente il meccanismo d’azione di questi farmaci è semplice, in quanto bloccherebbero la ricaptazione della serotonina dallo spazio intersinaptico all’interno della cellula nervosa e garantirebbero una protratta disponibilità della serotonina stessa nella sinapsi; in questo modo, “correggerebbero” un presunto deficit di trasmissione serotoninergica. Tuttavia, il meccanismo di azione di questo eterogeneo gruppo di farmaci comporta anche altre modificazioni nel turnover della serotonina, nelle proprietà di legame dei recettori serotoninergici e di altri recettori, dei secondi messaggeri intracellulari. Queste modificazioni sono ad ampio spettro e in parte diverse per ogni singolo farmaco e conferiscono a questi farmaci, usati tutti come antidepressivi, le loro peculiari proprietà cliniche ed un esteso spettro nosografico d’azione.

Clomipramina

Di questi farmaci, il primo ad essere stato introdotto sul mercato è stato la clomipramina, un antidepressivo triciclico introdotto tardivamente negli Stati Uniti come antiossessivo. Come per la venlafaxina, anche per la clomipramina, che ha un’affinità molto più alta per il trasportatore della serotonina che per quello della noradrenalina (139), sono efficaci i dosaggi medio-bassi (140-143). L’osservazione iniziale di un’efficacia nel 75% dei pazienti con disturbo di panico risale agli inizi degli anni Ottanta (144). Il farmaco induceva un miglioramento più prominente a carico dei sintomi nucleari del panico, ma era meno efficace per quanto riguarda i sintomi fobici. Come per l’imipramina, il maggiore problema della farmacoterapia antipanico con triciclici è costituito dalla compliance e dal tasso di drop-out (145,146), che tuttavia variava tra i vari studi dallo 0% al 30%.

Fluoxetina

La prima segnalazione di efficacia della fluoxetina in un gruppo di pazienti con attacchi di panico risale al 1989 (147); lo studio in aperto è stato effettuato dal gruppo di Donald Klein e ha riportato una percentuale di responsività di meno della metà del campione, concludendo che il farmaco possa essere utile e che i meccanismi serotoninergici nel disturbo di panico siano degni di essere indagati. La bassa percentuale sembrava dovuta alla bassa tollerabilità nel campione, per cui uno studio successivo in aperto dello stesso gruppo ha impiegato bassi dosaggi, ottenendo una migliore responsività (intorno al 75%) e tolleranza (148). Come risoluzione del problema della tollerabilità fu suggerita la graduale salita alla dose terapeutica di 20 mg pro die in pazienti con panico e depressione (149). Un altro studio in aperto su ampia casistica ha riportato la percentuale di responsività attorno al 50% dopo otto settimane di trattamento (150). Uno studio controllato verso placebo su un ampio campione ha correlato la dose di 20 mg con la migliore risposta clinica, che però era stata definita molto ampiamente e si basava solo in piccola parte sul parametro della riduzione della frequenza degli attacchi di panico (151). Successivamente, constatata l’efficacia della molecola, uno studio ha rilevato il mantenimento dell’efficacia nel lungo termine (6 mesi), sia per quanto riguarda i sintomi fobici che la frequenza degli attacchi (152), e un altro ha suggerito il mantenimento con una dose settimanale unica di 10-60 mg, a seconda del caso, e ha ottenuto una buona risposta in termini di assenza di attacchi dopo 26 mesi di trattamento (153). È interessante d’altra parte che la somministrazione di fluoxetina in pazienti affetti da patologie diverse dal disturbo di panico abbia indotto sporadicamente attacchi di panico (154-156). In un modello animale degli attacchi di panico il farmaco e agonisti selettivi 5-HT2C hanno indotto ansiolisi (157), per cui gli autori dello studio ritengono che gli effetti anti-panico possano essere mediati attraverso questo recettore; tuttavia, questo è il principale recettore attraverso il quale agisce l’mCPP, che somministrata in pazienti con disturbo di panico e disturbo ossessivo-compulsivo (158), ma non depressivo (159), induce ipersensibilità comportamentale, per cui è possibile che nel caso dell’induzione di attacchi di panico vi sia stata un’ipersensibilità individuale di questi recettori alla sostanza.

Sono stati indagati eventuali effetti noradrenergici dipendenti dal recettore 2-adrenergico (test di stimolo alla clonidina) nel corso del trattamento con fluoxetina in pazienti con disturbo di panico in due studi; in uno è stata riscontrata la persistenza dell’attenuazione della risposta dell’ormone della crescita a prescindere dalla risposta clinica (160), nell’altro la risposta alla clonidina dell’MHPG (3-metossi, 4-idrossi-fenilglicole) risultava in basale oscillatoria e alta, la sua riduzione nel corso di terapia con fluoxetina si correlava alla risposta terapeutica (161). Dei parametri di funzionalità serotoninergica è stato studiato il legame del trasportatore piastrinico; nei pazienti affetti da disturbo di panico il trasportatore risultava ridotto prima del trattamento e ripristinato nei pazienti responsivi dopo la terapia con fluoxetina.

Fluvoxamina

La fluvoxamina è stata subito sperimentata in doppio cieco nel disturbo di panico sin dal 1988. In uno studio è stata provata contro la maprotilina ed è stata trovata significativamente superiore a quest’ultima sia nella riduzione della frequenza degli attacchi di panico che dei sintomi ansiosi, a partire dalla 4a settimana, mentre verso i sintomi depressivi ambedue i farmaci sono risultati efficaci. In un altro studio, la fluvoxamina è stata confrontata con la ritanserina, un farmaco sperimentale il cui principale meccanismo d’azione ipotizzato è il blocco dei recettori 5-HT2 (162), principalmente 5-HT2A e 5-HT2C (163,164), ma anche 5-HT1D e meno 5-HT1D (165), ma che non ha significativa attività 1-adrenolitica o D2-antidopaminergica (166). In quest’ultimo studio, la fluvoxamina era attiva prima sui parametri del panico (intensità, frequenza) e poi sugli evitamenti, mentre la ritanserina è risultata inefficace. In ambedue questi studi, la dose impiegata era di 150 mg, inferiore a quella in genere impiegata nel disturbo ossessivo-compulsivo e nella depressione. In un breve (4 settimane) studio verso placebo in cross-over, il farmaco ha indotto la frequenza degli attacchi, ma non dell’ansia libera o degli evitamenti (167). In un altro studio contro placebo, invece, la fluvoxamina ha ridotto, rispetto al placebo, la frequenza ma non l’intensità degli attacchi di panico dalla terza settimana in poi, e l’ansia, la depressione e l’incapacità dovuta al disturbo solo dopo la sesta settimana (168); occorre sottolineare, tuttavia, che tutti e cinquanta i pazienti partecipanti allo studio sono migliorati. Anche in un altro studio la risposta della fluvoxamina non è stata soddisfacente (miglioramento solo degli attacchi paucisintomatici, ma nessuna riduzione della frequenza rispetto al placebo); tuttavia, gli autori hanno notato una correlazione tra risposta positiva al farmaco e i suoi livelli plasmatici (finestra terapeutica) (169). Simili dosaggi di fluvoxamina sono stati impiegati in altri due studi condotti contro imipramina e placebo; in uno l’imipramina risultava superiore alla fluvoxamina e il placebo inferiore, ma l’ultimo risultava pure efficace in un’alta percentuale (170), nell’altro, fluvoxamina e imipramina risultavano simili in efficacia (171).

Il trattamento con fluvoxamina, come quello con fluoxetina, ha indotto un up-regulation (aumento del numero) del trasportatore piastrinico della serotonina ma, diversamente dalla stessa fluoxetina, non ha influito sulla concentrazione plasmatica di MHPG; tuttavia, il trattamento cronico attenua l’ansia indotta nel test di stimolo all’2-adrenolitico yohimbina, pur non interferendo con la risposta biochimica o fisiologica dell’agente di stimolo (172). Il fatto che un trattamento di 8 settimane con fluvoxamina protegga i pazienti responder dal panico indotto dal tetrapeptide C-terminale della colecistochinina (CCK-4) (173) fa pensare che questo peptide interferisce con processi serotoninergici affievoliti o vulnerabili per provocare l’attacco di panico. La terapia con fluvoxamina per almeno 6 settimane è protettiva anche nei confronti del panico provocato dall’anidride carbonica al 35% (174), cosa che fa ipotizzare una via finale comune serotoninergica come difesa dall’attacco di panico.

Paroxetina

La paroxetina è stata sperimentata nel disturbo di panico dalla metà degli anni Novanta. I quattro studi finora eseguiti riguardano ampie casistiche e si basano su metodologie rigorose e tempi di trattamento sufficienti per considerare i dati come validi. Il farmaco è risultato più efficace del placebo in una popolazione di pazienti che ha ricevuto per 12 settimane dosi fisse multiple (20, 40 e 60 mg pro die) o placebo e terapia cognitiva, con tutti e tre i dosaggi che si dimostravano efficaci relativamente ai parametri principali (175). In questo studio, la differenza dal placebo assume particolare rilevanza perché l’effetto del farmaco andava al di là di una terapia, come quella cognitiva, che di per sé ha effetti terapeutici. Un altro studio ha impiegato 10, 20 e 40 mg pro die di paroxetina per 12 settimane verso placebo e ha trovato che il dosaggio di 40 mg dava la migliore risposta terapeutica, la quale comprendeva la riduzione della frequenza e dell’intensità degli attacchi di panico, degli attacchi paucisintomatici, dell’ansia, della depressione e della fobia associate al disturbo (176). Lo studio che ha confrontato la paroxetina con la clomipramina e con il placebo ha trovato i farmaci di efficacia simile e superiore a quella del placebo nelle 12 settimane dello studio, ma la paroxetina risultava più rapida nel ridurre il numero degli attacchi di panico a zero ed era meglio tollerata della paroxetina (177). Un ulteriore studio ha esteso l’osservazione dei pazienti a 48 settimane totali e ha confermato il mantenimento dell’effetto clinico, l’equipollenza tra i due farmaci e la loro superiorità nei confronti del placebo, nonché la migliore tollerabilità della paroxetina (178). Come la fluvoxamina, l’imipramina e la sertralina, anche la paroxetina riduce la reattività emotiva e comportamentale indotte in pazienti con disturbo di panico dall’agente panicogeno anidride carbonica al 35% (179).

Sertralina

La sertralina è stata studiata in quattro studi multicentrici iniziali, condotti in doppio cieco e con disegno randomizzato, i cui dati sono stati successivamente cumulati per ulteriori analisi. I primi due studi hanno indagato sull’effetto di dosaggi flessibili di sertralina verso placebo per la durata di 10 settimane; il primo (180) ha rilevato una riduzione degli attacchi di panico di quasi il 90% nei pazienti riceventi il farmaco, mentre il placebo otteneva una riduzione di circa la metà degli attacchi di panico. Il secondo studio (181) ha rilevato una significativa riduzione della frequenza degli attacchi di panico con la sertralina rispetto al placebo. Gli altri due studi sono stati effettuati sempre in doppio cieco contro placebo e hanno impiegato dosaggi fissi multipli di sertralina 50, 100 o 200 mg pro die per 12 settimane. Nel primo furono riscontrate riduzioni nel numero degli attacchi di panico, degli attacchi situazionali, inattesi e a sintomi limitati per tutti i dosaggi impiegati senza differenza tra essi (182), il secondo ha confermato questi dati e ha rilevato che la presenza di depressione “subsindromica” non attenuava l’efficacia della sertralina (183). Un altro studio che ha analizzato i dati degli ultimi due studi ha rilevato che i pazienti che rispondevano alla sertralina ottenevano anche un miglioramento della qualità della vita a differenza dei placebo-responder (184). Suddividendo il campione cumulativo dei quattro studi in ad alto e basso rischio sulla base del sesso femminile, della durata della malattia, della presenza di depressione o di disturbo di personalità in comorbidità, della gravità degli attacchi di panico e della presenza di agorafobia, Pollack et al. (185) osservarono simili tassi di risposta nei due gruppi. Basandosi sull’osservazione che il precedente uso di benzodiazepine riduce la responsività ai farmaci serotoninergici nel disturbo d’ansia generalizzato186, lo stesso gruppo di ricercatori ha anche analizzato i dati dei quattro studi per quanto riguardava l’uso pregresso di benzodiazepine nel campione, rilevando che tale uso non pregiudica la responsività alla sertralina (187).

Anche la sertralina, come altri SSRI e antidepressivi triciclici, riduce la reattività emotivo-comportamentale al test di provocazione al panicogeno CO2 al 35%. Come riportato per la fluoxetina, anche la sertralina ha indotto attacchi di panico sporadicamente (188,189).

Citalopram

La somministrazione in aperto di citalopram, dopo un iniziale peggioramento dell’ansia, ha migliorato significativamente la sintomatologia nel 75% di pazienti con disturbo di panico e tali miglioramenti sono stati mantenuti in cronico, estendendo lo studio a 15 mesi (190). La somministrazione in un campione di pazienti con disturbo di panico di vari intervalli di dosaggi di citalopram per 8 settimane in doppio cieco verso clomipramina e placebo ha indotto miglioramenti significativi nella sintomatologia panicosa; tali miglioramenti erano simili per il citalopram e la clomipramina e superiori a quelli ottenuti dal placebo (191); nello stesso campione analizzato successivamente, il citalopram riduceva significativamente la sintomatologia fobica verso il placebo ed il dosaggio medio (20-30 mg pro die) anche verso la clomipramina (192). I risultati positivi di citalopram e clomipramina persistevano anche seguendo i pazienti per un anno (193).

Come con la fluoxetina, anche con la farmacoterapia per 8 settimane con citalopram si è ottenuta una protezione dal panico indotto da CCK-4 (194). Diversamente dagli altri SSRI, il citalopram non ha modificato dopo 6-8 settimane o dopo 6 mesi di terapia i parametri di legame del trasportatore piastrinico della serotonina, ma ha indotto una down-regulation dei recettori 5-HT2 nelle piastrine (195).

Considerando nel loro insieme questi dati relativi ai diversi farmaci attivi sul sistema serotoninergico, viene da pensare che il blocco del trasportatore della serotonina sia molto più che un semplice blocco recettoriale; gli adattamenti che conseguono al blocco protratto del trasportatore non sono sufficienti per spiegare gli effetti degli SSRI e dei triciclici, che superano quelli dei farmaci bloccanti selettivi dei recettori 5-HT2A/2C o degli agonisti 5-HT1A. È nota da oltre 10 anni la cooperazione funzionale tra trasportatore della serotonina e autorecettori serotoninergici (196): recentemente, i meccanismi di tale cooperazione si vanno chiarendo. L’assenza del trasportatore della serotonina in topi knock-out per questa molecola si accompagna a riduzione dell’espressione di acido ribonucleico messaggero (mRNA) per gli autorecettori 5-HT1A del rafe (197) e 5-HT1B nigrali (198) e il blocco cronico del trasportatore ad opera dell’SSRI fluoxetina induce in un primo momento un abbassamento dei livelli di mRNA per il trasportatore della serotonina nel nucleo dorsale del rafe, seguito da riduzioni protratte dell’mRNA per gli autorecettori 5-HT1B (199) e 5-HT1A nel rafe (200). Contemporaneamente, l’mRNA del recettore 5-HT1B postsinaptico nella corteccia e nello striato aumenta significativamente. Quindi, con il blocco della ricaptazione non si hanno le semplici modificazioni recettoriali a lungo termine indotte con molecole agoniste o antagoniste selettive, ma modificazioni profonde e durature della funzione dei neuroni serotoninergici che aumentano la loro produzione e liberazione di serotonina per effetto del ridotto controllo autorecettoriale. Sembra che la regolarizzazione ad opera della somministrazione cronica di SSRI della Bmax del trasportatore della serotonina, down-regolato nel disturbo di panico, possa riflettersi in modificazioni a catena che ripristinano la funzione del neurone serotoninergico (dal nucleo dorsale del rafe all’amigdala e dal nucleo centrale mediale amigdaloideo alla sostanza grigia periacqueduttale), che nel disturbo di panico è più sensibile all’azione di questi farmaci; di qui la necessità di dosaggi in genere inferiori a quelli impiegati nella depressione.

IMAO

Gli inibitori delle monoaminoossidasi (IMAO) sono stati i primi farmaci dell’era moderna della farmacoterapia antidepressiva (201). Sono stati successivamente soppiantati dai triciclici per via dei molti svantaggi che li contraddistinguevano: restrizioni alimentari (202), interazioni con altri farmaci (203,204), effetti collaterali potenzialmente pericolosi (205-207), epatotossicità (208-210), sospensione e passaggio ad altro farmaco elaborati (211). I problemi, in genere, si verificano quando il paziente non viene seguito attentamente dal suo medico, ma nonostante i vantaggi di questi farmaci rispetto ai triciclici e agli SSRI (minori effetti collaterali sulla sfera sessuale), sono caduti in disuso. I farmaci IMAO di prima generazione sono stati incriminati di questa serie di svantaggi sulla base della loro aspecificità di legame alla monoaminoossidasi (MAO) e sulla base dell’irreversibilità di tale legame. Un nuovo impulso al loro uso è stato dato negli ultimi anni Settanta-primi anni Ottanta con la dimostrazione che l’effetto antidepressivo dipendeva poco dall’inibizione dell’isoenzima B della MAO (212,213), il che ha spinto a sintetizzare degli inibitori della MAO-A selettivi e reversibili, come la moclobemide (214), la brofaromina (215), il befloxatone (216) e il pirlindolo (217); questi farmaci, ad eccezione del befloxatone (che comunque ha rivelato un profilo antidepressivo (218) e tollerabile in volontari sani (219,220) ), sono stati sperimentati efficacemente nella depressione (221-223), ma problemi legati alla breve emivita (224-227) ne hanno limitato l’uso clinico (228).

Negli attacchi di panico, la prima generazione di questa classe di farmaci si è mostrata efficace nella riduzione della sintomatologia (229,230). Nella depressione cosiddetta “atipica” e nella depressione maggiore o minore erano i pazienti affetti anche da attacchi spontanei di panico che traevano il maggiore giovamento dalla terapia IMAO (231,232). Anomalie nella funzione o nella quantità dell’enzima MAO nei pazienti affetti da disturbo di panico sono state riportate sia nel senso dell’aumento (233) che della riduzione (234), ma sono anche state confutate (235). Anche per il polimorfismo del gene della MAO-A sono stati riportati effetti contraddittori; uno studio ha trovato un eccesso di alleli del promoter del gene ad alta attività della MAO nelle pazienti con disturbo di panico (236), mentre un altro studio non ha trovato linkage o associazioni tra polimorfismi e disturbo di panico (237). Bloccando il metabolismo delle bioamine cerebrali, i farmaci IMAO aumentano la disponibilità sinaptica della noradrenalina, della serotonina e della dopamina, ottenendo un effetto clinico. Altri meccanismi con i quali potrebbero agire riguardano gli effetti recettoriali a lungo termine; gli IMAO desensibilizzano l’autorecettore 5-HT1A somatodendritico nel rafe e non gli autorecettori terminali (5-HT1B/D) (238). La down-regulation del recettore 5-HT1A costituisce la modificazione recettoriale a lungo termine più frequentemente riportata con le varie terapie antidepressive e potrebbe costituire il meccanismo principale con il quale gli IMAO inducono un effetto positivo nel disturbo di panico.

La fenelzina somministrata per 6 mesi ha indotto la scomparsa degli attacchi in tutti i pazienti di una popolazione affetta da disturbo di panico senza agorafobia ed in una percentuale leggermente inferiore nei pazienti che presentavano sintomi agorafobici, mentre la riduzione dei sintomi fobici si otteneva meno frequentemente ed era più tardiva (239). Tuttavia, con l’uso di questo farmaco è stato notato anche lo sviluppo di tolleranza verso i suoi effetti terapeutici (240). L’effetto degli altri IMAO non reversibili e non selettivi (pargilina, nialamide, isocarbossazide, isoniazide, tranilcipromina) non è stato sistematicamente indagato nel disturbo di panico. Vi è stata solo una segnalazione del potenziamento reciproco tra alprazolam e tranilcipromina (241) o fenelzina (242) in pazienti depressi farmaco-resistenti con attacchi di panico.

Fra IMAO reversibili selettivi per l’isoenzima A (RIMA), sono stati sperimentati la brofaromina e la moclobemide. In un primo studio in aperto la brofaromina, somministrata in aperto per 4 settimane alla dose di 150 mg pro die, ha indotto miglioramenti dell’ansia e della depressione in un campione ristretto di pazienti affetti da disturbo di panico (243). Questo farmaco, somministrato per 8 settimane in doppio cieco verso clomipramina, ha ridotto il numero degli attacchi in modo analogo al farmaco di confronto (244). Studi più estesi (a 12 settimane), effettuati su ampi campioni in doppio cieco contro placebo (245) e fluvoxamina (246), hanno messo in evidenza un effetto clinico significativo nel 70% dei pazienti ma senza riduzione del numero degli attacchi di panico e una sostanziale equipollenza tra i due farmaci. I sintomi ansiosi erano i primi a rispondere alla terapia, seguiti più tardi da quelli fobici. Inoltre, nel secondo studio, l’iniziale aumento di ansia era più prominente per la fluvoxamina che per la brofaromina. Estendendo il periodo di osservazione ad ulteriori 12 settimane, i risultati positivi si mantenevano e si rafforzavano,. La brofaromina non è stata ancora commercializzata come antidepressivo e sembra che il tentativo di introdurla sul mercato sia stato abbandonato dalla casa farmaceutica produttrice.

La moclobemide, già in uso come antidepressivo, è stata sperimentata in due ampi studi multicentrici. In un primo studio, la moclobemide alla dose di 300-600 mg pro die è stata confrontata con 10-30 mg pro die di fluoxetina e placebo ed è stata trovata di efficacia comparabile al farmaco di confronto e superiore al placebo (247). Gli effetti positivi dei due farmaci si mantenevano anche a distanza di un anno (248). L’altro studio multicentrico è stato condotto in doppio cieco e con disegno randomizzato ed ha confrontato la dose di 450 mg pro die di moclobemide con 150 mg pro die di clomipramina, rilevando la scomparsa degli attacchi di panico in circa la metà dei pazienti ed un miglioramento sintomatologico in più dei tre quarti del campione (249). Le percentuali di miglioramento ottenute erano leggermente migliori per la clomipramina. In un altro studio condotto in un singolo centro sono stati confrontati i seguenti regimi terapeutici forniti per 8 settimane: moclobemide più terapia cognitivo-comportamentale, moclobemide più gestione clinica aspecifica (psicoterapia “placebo”), terapia cognitivo-comportamentale più placebo e psicoterapia “placebo” più placebo (250). Sono stati ottenuti risultati significativamente superiori all’associazione placebo-psicoterapia “placebo” solo nei gruppi che hanno ricevuto anche terapia cognitivo-comportamentale e tali risultati si mantenevano per la durata di 6 mesi dopo la fine del trattamento (che era comunque breve rispetto ai tempi standard della terapia cognitivo-comportamentale). Quest’ultimo studio ha ottenuto risultati per la moclobemide non significativamente diversi da quelli del placebo.

Considerati nel loro insieme, questi dati indicano che l’effetto positivo sugli attacchi di panico è più appannaggio degli inibitori irreversibili e aspecifici delle MAO che dei RIMA. Mentre gli studi condotti per il primo gruppo sono meno rigorosi metodologicamente, quelli riguardanti i RIMA sono metodologicamente ineccepibili, anche perché risentono del fatto di essere stati condotti più recentemente, dopo che dagli ultimi anni Ottanta i criteri di Good Clinical Practice (Buona Pratica Clinica) sono stati accettati in modo crescente in campo internazionale (251). Tuttavia, la maggioranza degli studi pubblicati sui RIMA sono stati pubblicati su supplementi di varie riviste, un indice di “sponsorizzazione” da parte delle case farmaceutiche interessate. Questi studi non hanno messo in evidenza risultati eclatanti di questi IMAO sui parametri-chiave nella risposta antipanico, come l’azzeramento della frequenza o la riduzione di almeno il 50% dei punteggi di scale specifiche per il panico o per l’agorafobia, ma solo risultati significativi ottenuti su punteggi di scale aspecifiche, come quelle dell’ansia o della depressione o del miglioramento clinico globale. Quindi, tutte queste ricerche, che mirano a dimostrare la sostanziale equipollenza della sostanza di cui si desidera mettere in vista l’efficacia con il triciclico di confronto e la migliore tollerabilità, saranno state anche condotte secondo la Good Clinical Practice, ma comportano dei bias (pregiudizi) che rendono i loro risultati meno credibili. È invece più credibile uno studio che ha confrontato le possibili combinazioni di psicoterapia cognitiva, psicoterapia aspecifica, moclobemide e placebo e che dichiarava tra i suoi obiettivi quello di mettere in evidenza un possibile effetto additivo tra psicoterapia e farmaco nella riduzione della sintomatologia del disturbo di panico, non riuscendo ad evidenziare nessun potenziamento, anche per l’assenza di attività antipanico specifica del farmaco nello studio stesso.

Benzodiazepine ed il sistema GABAergico

Il meccanismo d’azione delle benzodiazepine prevede il legame di queste sostanze su un sito specifico del recettore GABAA (252,253), che a seconda della composizione subunitaria (254) ha diverse affinità per le varie benzodiazepine (255-258); tale legame aumenta la probabilità che l’acido gamma-aminobutirrico (GABA) si leghi su questo recettore (259). Il legame del GABA sul recettore GABAA, conseguente al legame dell’agonista benzodiazepinico sul suo sito, aumenta la frequenza di apertura del recettore (260,261), che è del tipo canalare (262), e comporta il passaggio degli ioni cloro attraverso il canale-recettore e la successiva iperpolarizzazione della membrana del neurone che espone il recettore GABAA (263-266). Ne consegue una riduzione della frequenza di scariche neuronali (267). Il GABA è considerato un aminoacido inibitore, poiché modula negativamente la trasmissione mediata attraverso altri neurotrasmettitori, ma può anche risultare eccitatore per disinibizione di alcuni circuiti (268) quando deprime la trasmissione di altri interneuroni GABAergici, a loro volta inibitori del circuito (Fig. 1), oppure in contesti in cui risulta depolarizzante. Infatti, la prevalenza della proprietà iperpolarizzante viene conferita durante lo sviluppo dal co-trasportatore potassio/cloro (che estrude il cloro) (269), ma il GABA conserva la sua abilità di depolarizzare o iperpolarizzare le membrane a seconda del contesto (270,271). In alcuni contesti le due attività possono coesistere ed esplicarsi in maniera sequenziale (272), e in altri l’attività depolarizzante può diventare il meccanismo principale (273-276); le benzodiazepine potenziano questa attività depolarizzante del GABA (277,278). Data l’estrema diffusione delle sinapsi GABAergiche nel cervello (fino al 49% in alcune aree (279) )e dato che il GABA disattiva gran parte dell’attivazione cerebrale (280-282), le benzodiazepine risulterebbero antipanico nell’ambito del modello focale (283,284).

Alprazolam

L’alprazolam è una triazolobenzodiazepina sintetizzata verso la metà degli anni Settanta e intesa come antidepressivo (285) o ansiolitico (286). Il primo studio controllato in doppio cieco che ha indagato l’effetto di una benzodiazepina nel trattamento del panico risale al 1982 (287) dopo che l’American Psychiatric Association aveva riconosciuto al panico un’autonomia nosografica nell’ambito del DSM-III. In questo studio, che sottolineava come all’epoca il trattamento del disturbo di panico prevedeva l’impiego di antidepressivi triciclici o IMAO, è stato rilevato un miglioramento, a dosaggi fino a 3 mg pro die di alprazolam, superiore a quello ottenuto con placebo. L’alprazolam in aperto ha ridotto la frequenza degli attacchi di panico in oltre il 70% dei pazienti, ma sull’ansia anticipatoria e sull’evitamento fobico il risultato era variabile; comunque, i pazienti responsivi ottenevano una protezione nei confronti degli attacchi di panico indotti dall’acido lattico (288), in modo analogo a quello degli antidepressivi triciclici e SSRI.

Studi multicentrici effettuati contro placebo hanno evidenziato un miglioramento significativo alla fine della prima settimana di trattamento riguardante la frequenza e l’intensità degli attacchi situazionali e spontanei, i sintomi ansiosi e fobici, l’evitamento e l’incapacità secondaria al disturbo, con la scomparsa degli attacchi alla quarta settimana in circa la metà del campione che ha ricevuto alprazolam contro il meno del 30% dei pazienti che ha ricevuto placebo (289); sebbene vi fosse un debole effetto legato alla dose, la somministrazione di alprazolam per 8 settimane ha dimostrato una sostanziale equivalenza dei dosaggi di 2 e di 6 mg pro die (290). Questi risultati furono confermati anche per la formulazione a rilascio prolungato somministrata contro placebo per otto settimane a dosaggi inferiori ai 6 mg pro die, ma si verificarono problemi alla brusca sospensione della terapia (291). Tale formulazione è stata confrontata con quella a pronto rilascio e placebo per sei settimane; entrambe le formulazioni sono risultate superiori al placebo nei parametri sopra descritti negli studi multicentrici (292).

La maggior parte degli studi di confronto tra alprazolam e altri farmaci ha visto l’imipramina come farmaco di confronto. Uno studio multicentrico ha evidenziato una maggiore rapidità d’azione per l’alprazolam, una maggiore azione antifobica ed anche sull’ansia anticipatoria, con azioni antipanico comparabili tra i farmaci e superiori a quelli del placebo (293). Poiché era stato suggerito che la presenza di depressione costituisse un fattore predittivo di responsività (294), è stato condotto uno studio multicentrico in doppio cieco che ha sfatato quest’ipotesi, dimostrando che la risposta positiva all’alprazolam o all’imipramina, somministrati per otto settimane, non dipende dalla presenza di depressione o di disforia (295). Nell’anziano, il confronto tra alprazolam e imipramina a dosaggi ridotti di circa la metà dei dosaggi comunemente impiegati per otto settimane ha evidenziato la riduzione degli attacchi per ambedue i farmaci in modo comparabile (296). Uno studio in doppio cieco, che ha messo a confronto dosaggi piuttosto alti di ambedue i farmaci (10 mg pro die di alprazolam contro 250 mg pro die di imipramina), ha confermato in acuto (otto settimane) la maggiore rapidità del miglioramento indotto dall’imipramina e una migliore responsività in termini di scomparsa degli attacchi dei pazienti in trattamento con alprazolam rispetto a quelli che ricevevano imipramina o placebo nel lungo termine (otto mesi) (297). Per la fase di mantenimento di otto mesi, i farmaci sono stati ridotti a circa 6 mg pro die l’alprazolam e a 175 mg pro die l’imipramina (298) e così mantenuti per un follow-up in aperto, al termine del quale, i farmaci sono stati sospesi gradualmente in tre settimane e molti vantaggi terapeutici sono stati mantenuti alla fine di un periodo di un anno e tre mesi. In uno studio catamnestico di 3 anni, sono stati rivalutati pazienti trattati con alprazolam o imipramina per nove settimane; in molti di loro i sintomi fobici, ampiamente presenti in basale, erano scomparsi al follow-up, e circa tre quarti di loro non soffrivano più di attacchi di panico, mentre più di un terzo non assumeva terapie psicofarmacologiche (299).

Adinazolam

Il successo della prima triazolobenzodiazepina ha stimolato le indagini sull’effetto di un’altra molecola triazolica sintetizzata dalla stessa casa farmaceutica nei primi anni Ottanta ed inizialmente intesa come antidepressivo (300). L’adinazolam è stato confrontato con l’alprazolam con un disegno in doppio cieco cross-over per quattro settimane, a dosi flessibili (10-120 mg pro die per l’adinazolam e 0,5-6 mg per l’alprazolam), e ha evidenziato un effetto clinico non dissimile da quello dell’alprazolam (301). L’effetto antipanico della formulazione a lento rilascio si correlava alle concentrazioni plasmatiche del suo metabolita N-desmetil-adinazolam (302). Tuttavia, in un ampio studio condotto in doppio cieco, della durata di quattro settimane, il farmaco nella sua formulazione a rilascio prolungato non si è dimostrato nettamente superiore al placebo (303); ad esempio, mentre la percentuale di responsività misurata con il punteggio alla Clinical Global Improvement (CGI) favoriva l’adinazolam (circa 70% contro il circa 40% del placebo) e vi erano differenze a favore dell’adinazolam nella frequenza degli attacchi, nella gravità della fobia e nell’ansia generale e anticipatoria, non vi erano differenze per quanto riguardava la gravità della fobia autovalutata, gli attacchi di panico inattesi o situazionali e l’incapacità legata al disturbo. Uno studio multicentrico, invece, condotto in doppio cieco con dosaggi fissi multipli della formulazione a rilascio prolungato contro placebo per quattro settimane, è riuscito ad evidenziare un vantaggio per i dosaggi superiori (60 e 90 mg pro die) dell’adinazolam, ma solo impiegando come criteri di responsività i parametri che erano risultati significativi nello studio precedente (304). Il farmaco non è stato finora commercializzato e dal 1998 non si hanno notizie di somministrazione di adinazolam nell’uomo (305) e dal 1999 nell’animale (306). L’adinazolam sembra un farmaco in via di abbandono.

Clonazepam

Il clonazepam, un derivato 1,4-benzodiazepinico, è stato sviluppato all’inizio degli anni Settanta come antiepilettico (307,308). Pochi anni dopo il successo dell’alprazolam è stato sperimentato in aperto nel disturbo di panico e trovato efficace (309). Per questa sua efficacia, replicata successivamente anche a bassi dosaggi (310), anche in pazienti farmaco-resistenti (311,312) e pediatrici (313,314) e confermata a lungo termine (315), si è meritato l’appellativo di “benzodiazepina ad alta potenza” (316), che poi è venuto a condividere con l’alprazolam (317). Essendo ad emivita più lunga, il clonazepam ha il vantaggio di un controllo più continuativo dei sintomi ansiosi, ma presenta anche l’inconveniente di una sedazione insopportabile nel 20% dei pazienti con disturbo di panico. Comunque, molti pazienti che sono passati da alprazolam a clonazepam nella metà degli anni Ottanta si sono dimostrati soddisfatti per la riduzione dell’ansia intersomministrazione e per la riduzione del numero di somministrazioni (318). Il clonazepam da allora ha guadagnato molto spazio nel trattamento farmacologico del disturbo di panico.

Nel primo studio in doppio cieco comparso in letteratura (319), successivamente ampliato (320), il clonazepam è stato confrontato con l’alprazolam ed il placebo; i due farmaci hanno ridotto significativamente rispetto al placebo ed in misura uguale il numero degli attacchi di panico ed il tempo totale di ansia anticipatoria, di paura e di evitamento fobico. Rispetto al placebo, con il clonazepam somministrato per quattro settimane si registravano riduzioni significative della frequenza, durata e intensità degli episodi di panico; quest’ultima riduzione si correlava direttamente con i livelli plasmatici del farmaco (321). Il clonazepam si è dimostrato simile anche all’imipramina nel ridurre la sintomatologia panicosa (322,323), risultando addirittura superiore all’imipramina nel ridurre i punteggi della scala di Hamilton di valutazione della depressione e senza presentare problemi alla sospensione graduale. La dose di 2 mg pro die, somministrata per sei settimane, ottenne la scomparsa degli attacchi in una percentuale significativamente più alta rispetto a quella verificatasi con la somministrazione di placebo (324). In un altro studio in doppio cieco, centrato sulla qualità della vita e sulla produttività lavorativa, dopo sei settimane di trattamento il clonazepam ha mostrato un miglioramento significativo di entrambe rispetto al placebo (325).

A distanza di un anno e mezzo, i pazienti trattati con clonazepam o alprazolam conservavano i vantaggi terapeutici, ma accusavano anche sintomatologia residua, soprattutto quelli con comorbidità affettiva o altra patologia ansiosa, con maggiore cronicità e con maggiore quota agorafobica (326). Uno studio multicentrico sull’effetto del clonazepam a dosaggi multipli fissi (0,5, 1, 2 e 3 mg pro die), a salire e scalare gradualmente per 16 settimane contro placebo, ha stabilito che la dose efficace minima (la dose più piccola che dimostrava effetti positivi significativamente diversi dal placebo) è quella di 1 mg pro die; in questo studio è stata rilevata una risposta clinicamente significativa anche per il placebo ed un lieve peggioramento durante la fase di graduale sospensione (327), ma non una vera e propria sindrome d’astinenza (328). Il clonazepam risultava superiore al placebo. Seguendo i pazienti per due anni, lo stesso gruppo di ricercatori ha potuto constatare che circa la metà continuava ad assumere clonazepam e/o altre terapie e conservava i vantaggi terapeutici raggiunti con il trattamento in acuto con clonazepam (329).

Negli anni Settanta era convinzione comune dei clinici (non basata su evidenze statistiche) che le benzodiazepine fossero dei buoni ansiolitici per casi di disturbi d’ansia diversi dal disturbo ossessivo-compulsivo e dal disturbo di panico e che in quest’ultimo, nonostante fossero utilizzate, fossero insufficienti. L’osservazione dell’effetto antipanico dell’alprazolam, a volte risultato superiore nelle prove clinico-sperimentali all’allora farmaco di riferimento per il disturbo di panico, cioè l’imipramina, come anche l’attività antidepressiva nei paradigmi animali della depressione, sono stati attribuiti alla struttura triazolica della molecola e a particolari sue proprietà. L’alprazolam in esperimenti su animali ha messo in evidenza proprietà analoghe a quelle degli antidepressivi; invero, ha solo parzialmente impedito in cronico l’up-regulation da reserpina dei recettori beta-adrenergici corticali nel ratto (330), mentre gli antidepressivi inducono una down-regulation di questi recettori (331,332), ma la cosa importante per spiegare l’unicità dell’effetto antipanico dell’alprazolam e della struttura triazolica, in generale, era che il diazepam era inattivo a questo riguardo. Le triazolobenzodiazepine alprazolam e adinazolam riducono in acuto il contenuto di CRF nel locus coeruleus, nell’amigdala e nella corteccia e lo aumentano nell’ipotalamo di ratto (333), mentre in cronico l’alprazolam riduce il contenuto di CRF nel locus coeruleus (334,335), esattamente l’opposto di quello che accade nello stress sia acuto che cronico e riduce l’espressione di CRF nel nucleo amigdaloideo centrale e dei recettori CRF1 nel nucleo amigdaloideo basolaterale (336). Anche il trattamento con triciclici nel lungo termine induce modificazioni tese a correggere la disfunzione dell’asse HPA, ma che sono diverse per qualità (riduzione dell’espressione del mRNA del CRF nell’ipotalamo e riduzione dell’espressione dell’enzima limitante la sintesi di noradrenalina, tirosina idrossilasi, nel locus coeruleus (337) ). La brusca sospensione di alprazolam induce nel ratto un rimbalzo nel CRF del locus coeruleus e una down-regulation transitoria dei recettori CRF1 ipofisari,. Nella scimmia, l’alprazolam disattiva un asse HPA iperattivo agendo sul neurone CRFergico attraverso il legame sul complesso recettoriale GABAA/benzodiazepinico/canale Cl- (338); sempre nella scimmia, riduce gli effetti dello stress da separazione e i comportamenti di paura e terrore (339). Nell’uomo, l’alprazolam inibisce l’asse HPA attivato dallo stress, ma non influisce sulla stimolazione della secrezione di ACTH da parte del CRF esogeno (340). I pazienti affetti da disturbo di panico evidenziano un asse HPA ipersensibile (341) e l’alprazolam per 12 settimane normalizza questa sottile anomalia (342). Nel loro insieme questi dati indicano che gli effetti delle benzodiazepine triazoliche dipendono dall’occupazione del recettore benzodiazepinico e che i loro effetti neurochimici (343) e clinici (344) solo in parte si sovrappongono a quelli degli antidepressivi triciclici, consistendo principalmente nella riduzione degli effetti dello stress.

La stimolazione cronica del sistema GABAergico con un farmaco come l’alprazolam, attraverso i recettori GABAA, avrebbe un effetto bidirezionale nei confronti della trasmissione dei circuiti CRFergici/urocortinici; da una parte ridurrebbe l’mRNA del CRF e quello dei recettori CRF1 nell’amigdala centrale e ventrolaterale, rispettivamente, nonché la stimolazione CRF-mediata della secrezione di ACTH da una parte, mentre dall’altra aumenterebbe l’mRNA dell’urocortina nel nucleo di Edinger-Westphal e dei recettori CRF2A nel setto laterale e nell’ipotalamo ventromediale. La reciprocità tra recettori CRF1 e CRF2 e tra CRF e urocortina è stata interpretata come un adattamento reattivo alla riduzione del CRF (345), nell’ambito di un modello dei disturbi d’ansia basato sull’influenza di esperienze precoci avverse (346) nel quale sono attivi in senso protettivo meccanismi GABAergici (347); un simile modello sarebbe in linea con i dati epidemiologici sugli antecedenti di eventi avversi precoci nel disturbo di panico (348), anche se questi sembrano caricare di più sul versante depressivo che su quello ansioso nel disturbo stesso (349). Risultati interessanti ci sono anche per il clonazepam, anche se diversi da quelli delle benzodiazepine triazoliche. Comportamenti simili al panico sono indotti dall’inibizione dell’attività GABAergica nel nucleo ipotalamico dorsomediale; sia il clonazepam che l’imipramina ripristinano la funzione GABAergica compromessa dall’applicazione intraipotalamica dorsomediale dell’antagonista GABAA bicucullina (350). Si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un circuito integrato che possa armonizzare tutti questi dati nell’ambito di un modello integrato. Il nucleo centrale dell’amigdala invia proiezioni CRFergiche nel nucleo ventromediale dell’ipotalamo (351), però né esso né quello mediale dell’amigdala inviano fibre ad altri nuclei dell’amigdala (352), quindi è difficile capire il dato dell’abbassamento del contenuto di CRF nel nucleo centrale con il contemporaneo abbassamento dei recettori CRF1 nel nucleo amigdaloideo basolaterale, se non nell’ottica di circuiti più lunghi. Il nucleo centrale dell’amigdala manda inoltre proiezioni CRFergiche sia al nucleo paraventricolare (353), ricco di neuroni CRFergici e vasopressinergici, che ai nuclei del rafe (354), sede dei pirenofori serotoninergici, attraverso le quali può modulare l’attività dell’asse HPA, ma anche l’attività del locus coeruleus (Fig. 2). Il nucleo ipotalamico dorsomediale, sede influenzata dal clonazepam, nell’uomo invia proiezioni intraipotalamiche sia nel nucleo ventromediale, che nel nucleo paraventricolare (355), sedi influenzate dall’alprazolam. Nel ratto, anche il nucleo ventromediale invia fibre al nucleo dorsomediale, mentre sono meno numerose le fibre inviate al nucleo paraventricolare, che è il nucleo che più intensamente innerva gli altri nuclei ipotalamici (356). Il nucleo dorsomediale ipotalamico, a sua volta, invia fibre al locus coeruleus (357). Il CRF inibisce l’attività dei neuroni del nucleo dorsale del rafe attraverso la stimolazione di recettori CRF1 (358). Si potrebbe ipotizzare per le benzodiazepine un’azione GABAergica che spenga un circuito CRFergico ipotalamico-coeruleo che attiverebbe le scariche noradrenergiche dal locus coeruleus e un’altra che disattivi la disattivazione CRF1-mediata della serotonina del rafe, la quale poi liberandosi dall’inibizione CRFergica andrebbe ad inibire, sempre nel locus coeruleus, l’iperattività noradrenergica (Fig. 2). In questo contesto, l’aumento del contenuto compensatorio di urocortina nel nucleo di Edinger Westphal (359), dove è contenuta la maggioranza dei pericari urocortinici (360) e, a livello del nucleo ipotalamico ventromediale, dei recettori CRF2, che sono stati ipotizzati essere i bersagli fisiologici dell’urocortina (361) (un’ipotesi contestata, se non confutata (362) ), potrebbe avere un significato adattativo, spostando il funzionamento cerebrale verso comportamenti più adatti alle finalità individuali, ad esempio, dalla difensività legata al CRF e al circuito dello stress verso un maggiore stato di arousal (363) e di esploratività (364).

L’urocortina è un peptide CRF-simile che ha una localizzazione cerebrale diversa dal CRF e una distribuzione neuronale propria, che solo in parte si sovrappone a quella del CRF (365). La maggior parte dei neuroni urocortinici si concentra nel nucleo di Edinger-Westphal, nel nucleo olivare superiore laterale e nel nucleo sopraottico; mentre alcuni neuroni nella sostanza nera e nell’area ventrale del tegumento co-localizzano urocortina e dopamina. I neuroni urocortinici si distribuiscono in varie specie per lo più nel setto laterale, ma anche nel bulbo olfattorio, nei nuclei ventromediale e paraventricolare dell’ipotalamo, nel nucleo interpeduncolare, nel nucleo dorsale del rafe, nel cervelletto, in alcuni nuclei di nervi cranici, nel nucleo ambiguo, nel ponte, nella corteccia cerebrale e nell’amigdala (366-368). L’urocortina ha affinità per i recettori sia CRF1 che CRF2, ma mentre sul primo è solo un po’ più potente del CRF (369), sul secondo dispiega un’affinità di 40 volte superiore al CRF stesso (370). La distribuzione dei neuroni urocortinici è in parte parallela a quella dei recettori CRF2 (371), mentre i recettori CRF2 sono localizzati, oltre che nel setto e nell’ippocampo, dove abbondano, nella corteccia, nel nucleus accumbens, nel mesencefalo e nell’amigdala (372), come i CRF2-tr (prodotto di splicing) (373) che regolano la produzione di CRF in questa struttura (374); tuttavia, il contenuto e la distribuzione di urocortina nell’amigdala sono più compatibili con l’esistenza di altri peptidi CRF-simili che regolino l’attività di neuroni CRFergici amigdaloidei intrinseci. Sebbene CRF e urocortina abbiano effetti ansiogeni in vari paradigmi sperimentali animali (375-377), i loro effetti sono solo in parte sovrapponibili (378); sembra che il CRF sia maggiormente responsabile delle risposte allo stress e dell’apprendimento avversivo, mentre l’urocortina sia maggiormente implicata nel comportamento di soppressione dell’alimentazione (379,380). Quindi, è possibile che l’urocortina esogena, che passa la barriera ematoencefalica, possa agire sui recettori CRF1 comportandosi come una sostanza ansiogena, mentre fisiologicamente la sua azione prevalente sembra mediata attraverso i recettori CRF2, la cui up-regulation da parte dell’alprazolam depone a sfavore di un ruolo nell’ansiogenesi.

Per quanto attiene ad altri meccanismi attraverso i quali potrebbe agire il clonazepam, si è dimostrato che non influisce sull’espressione dei recettori beta-adrenergici (381), ma aumenta la trasmissione serotoninergica (382) e in cronico ha effetti poco chiari sui recettori serotoninergici. è stato riportato che aumenta il numero dei recettori 5-HT1 e 5-HT2 frontocorticali del ratto (383), però i ligandi utilizzati in questi studi avrebbero potuto occupare anche molti altri recettori. Comunque, il diazepam non era in grado di imitare questi effetti del clonazepam. Il clonazepam ha indotto una riduzione del numero dei recettori 5-HT1A/7 nell’ippocampo di ratto (384) in modo analogo all’imipramina (385), mentre era inattivo sull’autorecettore 5-HT1A del rafe, che viene down-regolato da molti SSRI (386,387), ma non da tutti (388). Infine, per tornare ad una sperimentalità più vicina alla clinica, una singola somministrazione di clonazepam risulta protettiva, rispetto al placebo, nei confronti della panicogenesi da anidride carbonica (389).

Tutte queste ipotesi sulla specificità delle due benzodiazepine più sperimentate, alprazolam e clonazepam, sulle proprietà squisitamente antinoradrenergiche della prima o proserotoninergiche della seconda, potrebbero essere di significativa importanza fisiopatogenetica solo qualora le altre benzodiazepine, che sono inattive sui suddetti paradigmi sperimentali, dovessero risultare inefficaci nel trattamento del disturbo di panico.

Confronti tra benzodiazepine

Anche altre benzodiazepine si sono rivelate efficaci nel disturbo di panico. Il diazepam è stato confrontato in cross-over con placebo e terapia di rilassamento (390) e con propranololo (391) ed è stato trovato superiore ad ambedue le terapie (che però si trovano frequentemente inefficaci). Tuttavia, questi studi hanno una metodologia non comparabile a quella della maggior parte degli studi sull’alprazolam o sul clonazepam, per cui solo studi di confronto diretto tra l’alprazolam o il clonazepam e le altre benzodiazepine possono dirimere il dubbio se queste due benzodiazepine abbiano un effetto specifico che comprende altri meccanismi rispetto a quello GABAergico comune a tutti o se agiscono come tutte le altre, inibendo tutta l’iperattività cerebrale.

In uno studio l’alprazolam e il diazepam sono stati trovati equipollenti nella riduzione della frequenza degli attacchi di panico e dell’ansia libera (392); altri due studi (393,394) hanno confrontato in doppio cieco l’alprazolam con il lorazepam trovando lo stesso tipo di effetto positivo per i due farmaci (riduzione degli attacchi e della fobia). Tuttavia, i dosaggi impiegati sono stati alti, superiori per i farmaci di confronto rispetto all’alprazolam in termini di equivalenti di diazepam. Purtroppo, mancano studi di confronto tra clonazepam e benzodiazepine diverse dall’alprazolam e gli studi effettuati con questi due farmaci hanno evidenziato una sostanziale equipollenza dei due farmaci. Da questi dati, data la loro esiguità, non è possibile affermare che le benzodiazepine comunemente usate nella pratica clinica come farmaci antipanico, come l’alprazolam e il clonazepam, siano aspecifiche e uguali in tutto alle altre benzodiazepine, in quanto per le altre benzodiazepine sono state sempre necessarie dosi più alte. Tuttavia, si può affermare che gli effetti delle varie benzodiazepine nel disturbo di panico si esplichi attraverso il legame sul sito benzodiazepinico del recettore GABAA e la conseguente facilitazione dei circuiti GABAergici.

Occorre tenere presente che il sistema GABAergico interviene lungo il circuito di controllo delle reazioni di stress-allarme in vari punti (Fig. 3) e che gli altri farmaci alternativi, che si sono dimostrati anche più efficaci o più affidabili nel trattamento del disturbo di panico, interverrebbero più limitatamente. Questo circuito prevede l’intervento di sistemi come quello oppioide (395), quello serotoninergico, quello noradrenergico, per non nominare i sistemi dopaminergico, colinergico, colecistochininergico, aminoacedergico eccitatorio, già citati e non menzionati per mantenere basso il numero delle variabili da controllare. Tuttavia, anche a livelli di complessità così bassa, emergono delle contraddizioni nell’approccio farmacologico semplicistico. Ad esempio, se l’aumento dell’attività della serotonina nel rafe è legato allo sviluppo di paura condizionata, ha senso dare un farmaco che riduca l’attività della serotonina in questo nucleo, come una benzodiazepina; ma, allora, perché attivare la trasmissione serotoninergica nel rafe con un SSRI o con un triciclico? Ha senso anche questo, in quanto la serotonina dal rafe va ad attivare la trasmissione GABAergica nell’amigdala basolaterale (396), che a sua volta spegne il circuito dello stress che innesca l’attacco di panico. Inoltre, ha anche senso stimolare la proiezione dal nucleo oscuro del rafe che va ad attivare gli interneuroni GABAergici nella sostanza grigia periacqueduttale (397), che successivamente bloccano l’attività all’interno di questa struttura che è connessa con la paura non condizionata. Ha anche senso bloccare l’attivazione glutamatergica dei neuroni noradrenergici del locus coeruleus (Fig. 2) aumentando l’attività serotoninergica dal rafe, ma tale blocco di attivazione si può anche ottenere con un farmaco GABAergico, in quanto nel locus coeruleus neuroni GABAergici bloccano l’attività noradrenergica (398-400) (Fig. 3). Ma bloccare l’attività noradrenergica potrebbe deprimere il paziente (401) e potrebbe inoltre compromettere l’attività GABAergica frontocorticale (402), così importante per processi cognitivi, valutativi e decisionali. Inoltre, perché solo benzodiazepine per inibire serotonina nel rafe e noradrenalina nel locus coeruleus e non altri farmaci GABAergici, come gli agonisti GABAB, che dimostrano anch’essi un’attività inibente sia nel rafe (anche se la potenza è minore, perché l’agonista GABAB tende a ridurre l’attività GABAergica con meccanismo autorecettoriale (403) )che nel locus coeruleus, oppure come gli anticonvulsivanti, vista la potenza del clonazepam?

Una parentesi: gli antiepilettici

Nel disturbo di panico sono state provate sostanze antiepilettiche, nell’ambito della teoria focale, con risultati alterni. Il primo farmaco antiepilettico ad essere provato nel disturbo di panico è stata la carbamazepina in aperto negli ultimi anni Ottanta; le modificazioni indotte dalla farmacoterapia in un piccolo campione di pazienti furono bidirezionali (aumento o riduzione della frequenza di attacchi) e l’unico effetto positivo riguardava l’ansia (404). L’acido valproico è stato trovato di possibile utilità (più per la componente ansiosa e somatica che per quella fobica) in due studi in aperto su campioni ridotti nei primi anni Novanta (405,406), ma da allora non è stato provato in doppio cieco. La gabapentina è stata somministrata in un recente studio in doppio cieco verso placebo su un ampio campione ed è stata trovata di una qualche utilità solo nella sottopopolazione di pazienti a maggiore gravità di malattia (407). Occorrono studi più sistematici con sostanze anti-kindling (non semplici agenti antiepilettici) per comprendere la reale importanza dei meccanismi di tipo kindling nella fisiopatologia del disturbo di panico.

Il circuito dello stress-allarme-paura condivide le strutture illustrate in Figura 3 con altri circuiti che presidiano su altre funzioni; ad esempio, l’amigdala, che sarebbe sia un organizzatore dei comportamenti agonistici (408,409) che un’importante stazione intermedia della risposta allo stress (410), partecipa, grazie anche alle sue connessioni con la corteccia prefrontale (411), alla valutazione cognitiva delle situazioni (412), alla presa di decisioni (413,414) e alla regolazione emotivo-affettiva (415) e, grazie alle stesse connessioni, modula l’attività frontocorticale relativa ad una paura condizionata realizzata altrove (416). Se quest’ultima attività è quella che ha maggiore rilevanza per il disturbo di panico, le altre attività, il cui svolgimento dipende dalla storia e dal momento e dalla struttura del paziente, fanno parte di un quadro che rendono più o meno verosimile che un attacco di panico si verifichi. Come risulta evidente, vi è tale interdipendenza delle funzioni, che sarebbe difficile credere che un intervento semplice possa risolvere il problema alla sua radice. D’altra parte risulta difficile credere che un intervento semplice, come un farmaco dal semplice meccanismo d’azione, vista la complessità (volutamente contenuta e rappresentativa di una minima parte della complessità effettiva) dei circuiti implicati nella Figura 2 e nella Figura 3, sia davvero semplice. Ogni intervento farmacologico viene somministrato nell’ambito di un rapporto medico-paziente e comporta l’intervento delle molteplici variabili legate a questo rapporto.

Psicoterapie: con o senza farmacoterapia?

Un potenziamento tra farmacoterapia e psicoterapia in associazione è stato riportato per la depressione (417-420), specie per quella più grave (421), ma non per il disturbo ossessivo-compulsivo (422). Sugli altri disturbi d’ansia, eccetto che per il disturbo di panico, vi è l’impressione che possa esistere un potenziamento (423), ma mancano studi sistematici. Nel disturbo di panico gli studi comparativi tra farmaci e psicoterapia effettuati hanno dato una grande varietà di risultati, che vanno dalla superiorità delle farmacoterapie (424) alla superiorità della psicoterapia (425), all’equivalenza tra i due trattamenti (426-428). Oltre agli studi, sono state condotte meta-analisi sui risultati (429-432), ma sia gli studi che le meta-analisi sono inficiati da disegni sperimentali e metodi inadeguati (433), per cui non verranno qui presi in esame. Questi studi non solo non garantiscono una valutazione in cieco, ma i loro risultati risentono di pregiudizi ideologici; ad esempio, in uno studio che ha riportato un miglioramento significativo con tutte le terapie, cioè fluvoxamina, terapia cognitiva e placebo, le terapie sono state somministrate per 8 settimane ed il punto di valutazione è stato effettivato a 4 settimane; a questo punto di valutazione la fluvoxamina era significativamente superiore alla terapia cognitiva, che a sua volta era superiore non significativamente al placebo (434) (a proposito, la rivista nella quale è stato pubblicato è quella a maggiore impact factor tra le riviste psichiatriche). Tuttavia, quattro settimane è un periodo troppo breve per valutare i risultati della terapia cognitiva, mentre i risultati del placebo tendono a ridursi dopo questo periodo, per cui era naturale che a questo punto non vi fossero differenze significative tra psicoterapia e placebo. Sull’altro versante, un altro studio ha confrontato la terapia cognitiva con la terapia di rilassamento e con la farmacoterapia con imipramina a dosaggio adeguato. Tutti i gruppi comprendevano interventi di autoesposizione in aggiunta e sono stati confrontati a 3, 6 e 15 mesi con un gruppo di controllo costituito da pazienti in lista d’attesa da tre mesi. L’imipramina è stata gradualmente sospesa dopo i 6 mesi, termine anche delle altre terapie. Tutte le terapie sono risultate superiori relativamente all’efficacia al gruppo di controllo, ma a 3 mesi la terapia cognitiva era superiore all’imipramina e alla terapia di rilassamento, a 6 mesi imipramina e terapia cognitiva erano superiori alla terapia di rilassamento, mentre a 15 mesi la terapia cognitiva è tornata ad essere superiore all’imipramina, anche se in un numero inferiore di parametri di efficacia; tuttavia, alcuni pazienti che avevano assunto imipramina erano ricaduti. Questo non è sorprendente, visto che è necessaria una profilassi di mantenimento per almeno altri 6 mesi per prevenire le ricadute (435). Quindi, più che dichiarare come scopo dell’articolo il confronto dell’efficacia dei trattamenti, sarebbe stato più corretto affermare che si voleva vedere se la terapia cognitiva operasse delle modificazioni nella struttura biologica del paziente tali da proteggerlo dalla malattia più a lungo di quanto riescisse a fare l’imipramina. Inoltre, ogni seduta di terapia cognitiva o di rilassamento durava un’ora, mentre quella dedicata alla somministrazione di imipramina durava 25 minuti; però, l’effetto del tempo totale di terapia ricevuta non è stato indagato. Purtroppo, nella letteratura scientifica proliferano studi condotti pregiudizialmente e articoli che si basano sulle conclusioni di simili studi, per cui è possibile che l’opinion-making su determinati argomenti sia condizionato da interessi extra-scientifici, economici e/o ideologici.

Lo studio prospettico più ampio pubblicato finora (436) ha confrontato imipramina e terapia cognitivo-comportamentale da sole o associate con placebo da solo o associato a terapia cognitivo-comportamentale, trattati per tre mesi in acuto e sei mesi in mantenimento ed osservati per altri sei mesi. Il farmaco e la psicoterapia e la loro combinazione erano analoghi per i loro effetti in acuto e nel periodo di mantenimento e superiori al placebo, ma vi era una certa superiorità del trattamento combinato nel lungo termine. In uno studio, l’aggiunta di una di psicoterapia breve ad orientamento dinamico alla farmacoterapia con clomipramina per nove mesi ha ridotto la frequenza di recidive rispetto al gruppo che riceveva solo clomipramina (437). In altri studi, l’associazione di fluvoxamina ha significativamente accentuato gli effetti positivi della psicoterapia d’esposizione (438) e cognitiva (439). In un altro studio, la combinazione tra moclobemide e terapia cognitiva non risultò superiore alla terapia cognitiva da sola, ma giusto perché la moclobemide da sola non ha avuto effetti terapeutici significativi. In due studi multicentrici che riportavano sostanzialmente gli stessi dati (440,441), l’aggiunta di buspirone ha accentuato l’effetto della terapia cognitiva sull’ansia generalizzata e sull’agorafobia nelle prime 16 settimane di trattamento, ma risultava senza valore aggiunto a 68 settimane. Presi nell’insieme questi dati, che riguardano principalmente la terapia cognitiva e molto meno le altre psicoterapie, indicano che l’associazione tra terapie è più efficace delle singole terapie da sole. L’unica voce discordante è quella di Isaac Marks, che ha confrontato alprazolam per otto settimane, e scalaggio a zero per altre otto, e rilassamento con terapia d’esposizione e placebo con la combinazione tra alprazolam ed esposizione con rilassamento e placebo, e seguito i pazienti per 43 settimane (442). Lo studio è stato condotto in due centri inglesi e ha evidenziato una buona risposta a farmaco e terapia durante la fase di terapia a dosaggio pieno e della terapia d’esposizione durante tutto lo studio. Nella fase di scalaggio e nel follow-up l’alprazolam perdeva efficacia, mentre l’associazione tra alprazolam e terapia d’esposizione migliorava non significativamente la risposta terapeutica rispetto alle due terapie date da sole con i rispettivi placebi (rilassamento e placebo), ma impediva l’ulteriore miglioramento ottenuto dalla psicoterapia da sola, il cui effetto terapeutico persisteva sei mesi dopo la fine della terapia. Quindi, questi risultati fuori dal coro invitano alla cautela quando si consigliano ai pazienti interventi associati.

In un articolo del 1989, Jack Gorman e altri ricercatori del gruppo di Donald Klein, nel tentativo di spiegare l’efficacia sia della psicoterapia che della farmacoterapia, hanno formulato un’ipotesi neuroanatomica del disturbo di panico, che poneva le varie componenti del disturbo in rapporto a siti specifici del sistema nervoso centrale, cioè l’attacco di panico al tronco encefalico, l’ansia anticipatoria con il sistema limbico e l’evitamento fobico con la corteccia prefrontale (443). A distanza di 11 anni, lo stesso gruppo di autori ha riesaminato l’argomento sulla base di nuove evidenze, riassumendo che “il circuito della paura” nel cervello ha il suo centro nell’amigdala e interagisce con l’ippocampo e con la corteccia prefrontale mediale, e che le proiezioni dall’amigdala a centri ipotalamici e mesencefalici sono responsabili dei sintomi e segni di paura condizionata osservati in questo disturbo”, concludendo che “efficaci trattamenti psicosociali possono anche ridurre la paura contestuale e le errate attribuzioni cognitive a livello della corteccia prefrontale e dell’ippocampo” (444). L’apprendimento e l’esperienza inducono nel ratto una riorganizzazione della connettività sinaptica nel nucleo basolaterale dell’amigdala e nella corteccia orbitofrontale che a tale nucleo si connette (445); modificazioni analoghe, vantaggiose per il funzionamento di queste due aree (che coprono vari aspetti del disturbo, come l’affettività legata al sintomo centrale del disturbo e il comportamento evitante), potrebbero essere indotte attraverso un lavoro psicoterapico che comporti una rielaborazione cognitiva dell’esperienza. è possibile, come risulta da studi effettuati su pazienti ossessivo-compulsivi, che effetti analoghi nei pazienti responsivi a livello della circuitry cerebrale si ottengano sia con la terapia farmacologica che con la psicoterapia (446) oppure è possibile che alcuni pazienti, sulla base di indicatori alla PET del loro funzionamento cerebrale, possano trarre vantaggio da un tipo di terapia piuttosto che da un altro (447) oppure da entrambe in associazione (448).

Corrispondenza: G.D. Kotzalidis, III Clinica Psichiatrica, Università di Roma “La Sapienza”, 00185 Roma

Fig. 1. Controllo GABAergico della neurotrasmissione bioaminergica. GABAergic control of bioaminergic neurotransmission.

Fig. 2. Ruolo dei peptidi CRF-simili nell�attivazione del locus coeruleus. Role of CRF-like peptides in activating the locus coeruleus.

 BL=nucleo basolaterale dell�amigdala; C=nucleo centrale dell�amigdala;
CO=nucleo corticomediale dell�amigdala; CRF=corticoliberina;
DM=nucleo dorsomediale ipotalamico; DRN=nucleo dorsale del rafe;
GABA=acido gamma-aminobutirrico; Glu=glutammato;
MRN=nucleo mediano del rafe; NA=noradrenalina;
PaV=nucleo paraventricolare ipotalamico; RM=nucleo 5-HT=serotonina;
ACTH=corticotropina; BL=nucmagno del rafe;
Ucn=urocortina; VM=nucleo ventromediale ipotalamico;
?=trasmettitore sconosciuto (o altri peptidi CFR-simili)
(neurotransmitter unknown [or other CRF-like peptides])
.

Fig. 3. Influenze GABAergiche in vari punti del circuito coinvolto nell�ansia e nel panico. GABAergic influences at various points of the anxiety-panic circuitry.

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