Seneca o Nerone? Philosophe, cura te ipsum

R. Rossi

Dipartimento di Neuroscienze, Universit� di Genova

Key words: Seneca • Cognitive control of emotion • Need for philosophy
Correspondence: Prof. Romolo Rossi, via F. Nullo 1, 16467 Genova, Italy

L’occasione di questa digressione sul passato è stata una discussione su un tema di grande interesse attuale. Qualche mese fa, Giovanni Cassano si era occupato, attraverso discussioni ed interviste, in parallelo coi filosofi, di un problema che oggi si propone non affatto marginalmente.

E discutendo con lui mi confermavo una cosa che già sapevo da tempo, che la psichiatria che egli proponeva andava bene al di là degli stretti tecnicismi dei trials o del rituale drug A vs. drug B, fino a toccare aree come questa, che riguardano le nuove modalità cognitive nella loro maggiore o minore efficacia nella clinica psichiatrica o sulla possibilità di controllo delle condizioni emotive (anche quelle patologiche, come la depressione), problema attuale ma antico: Seneca, dunque, gli stoici (i più antichi cognitivi), insomma, per esempio, De Tranquillitate Animi. Così, spinto da questa discussione, ho sentito l’esigenza di parlare dell’argomento in questo articolo, scritto per, e dedicato a, un caro amico, Giovanni Cassano.

A ben pensarci, Seneca è il primo degli scrittori di libri, che oggi riempiono le librerie, quasi sempre best-sellers, che insegnano “come essere felici”, “come riuscire nella vita”, “come vincere la paura”, “come superare la depressione”.

Egli è, per lo psichiatra, un personaggio assieme grandioso o perturbante. A lui si adatta bene il termine di Unheimliche, indicato da Freud come espressivo, nella lingua tedesca, di tutte le contraddizioni emotive di cui l’uomo vive. Nell’accurata analisi linguistica che ne fa (sinistre in francese, uncanny in inglese, ceuios in greco, alienus in latino, forse perturbante – ma che strana parola! – in italiano) solo il tedesco mantiene il valore ossimorico: familiare, ma ciò che cerca di essere familiare diventa subito angoscioso, stravolgente, intacca la coscienza dell’Io.

Questa è l’impressione che fa Seneca allo psichiatra, il quale come prima cosa deve scusarsi coi filosofi per le sue grandi ingenuità: in campo filosofico lo psichiatra non è del mestiere, anche se si sente parente povero dell’aristocratica famiglia. Un pulsare interno, vorticoso, sensuale e stupendamente caotico, un maelström di emozioni, di passioni, di odi e di amori, con una atmosfera sottilmente perversa, nelle tragedie. Si dirà “ma è il mito greco, la tragedia greca!” E va bene, ma Seneca aggiunge qualcosa di suo e, diciamo pure, il sottilmente perverso è suo. Nulla è controllabile.

E per contro, nelle opere filosofiche, nei saggi, la ricerca dell’equilibrio, della distanza delle emozioni, indica un desiderio che la psiche (juch), intesa in modo molto diverso da come la si intendeva prima, esprima la capacità dell’uomo di tenere in pugno, controllare, regolare, distanziare, spegnere e, diremmo oggi con la nostra linguaccia, manipolare, coping with, emozioni, realtà, mondo, tutto insomma, a creare una atmosfera distaccata, virtuosa, equilibrata, priva di eccessi, costruttiva in modo calmo, e anche un po’ asettico. Povero Seneca! Non è certo andato a finire così, caduto dentro, stoicamente, alla madre di tutti gli eccessi, il suicidio. Dunque qui vediamo, da psichiatri, qualcosa: il disperato tentativo, comune a tutti, agli psichiatri, ai filosofi, ai pazienti, alla gente comune, a tutti i grilli parlanti di se stessi che siamo noi, ma in Seneca tentativo sistematico e strutturato, di credere e di far credere che la psiche (conosciuta anche sotto lo pseudonimo di volontà, o sotto il nomignolo di equilibrio) possa modificare il corso del pensiero, l’onda delle emozioni, il fiotto della paura, il crepuscolo della coscienza, l’abbagliamento dell’allarme. Per noi psichiatri questa è stata una illusione subito svanita, appena ci siamo resi conto dell’impossibilità di far cambiare opinione alle persone, se dentro non c’è già un impreciso ma autonomo interesse a cambiarla.

E allora, cosa ci sarà in Seneca: perché la tragica e caotica persona trascinata dalla tempesta il mattino, e l’equilibrato e imperturbabile sapiente il pomeriggio? Ritorneremo tra poco su questo punto. Per ora annotiamo che è vero che Seneca è il primo degli uomini moderni: esprime il fatto che i romani stanno diventando individualisti (come dire moderni). Anche i Greci avevano l’idea del rapporto tra il razionale e l’emotivo, tra mente e corpo (il dualismo l’avevano inventato loro), ma erano estremamente più vicini al profondo, e i turbamenti emotivi, le tempeste, il mare nero dei sentimenti e delle pulsioni erano per loro molto più mescolate agli indirizzi del comportamento, ed una fatalità inevitabile rendeva nulli i precetti. Il mare, imprevedibile, oscuro, nero, mai calmo, ma infido ed enorme, era la loro similitudine per l’animo umano: il mare non è per loro mai sereno, tranquillo, invitante, ma cupo, urlante, mortale.

I Greci in fondo non avevano bisogno, come Seneca e come noi moderni, di precetti che si illudano di modificare la mente o di tenere l’unità mente-corpo sotto controllo: ma si psicoanalizzavano a teatro, tutta la polis, tutta la comunità assieme, in un certo periodo dell’anno e ad una certa ora del giorno, nella luce del mezzodì, e non avevano bisogno di pretesti, ma di consapevolezza, di catarsi.

Anche Lucrezio, romano più antico, non si lascerà ingannare dal mito della mente che controlla: lo sa, che non si può. Naturam furca expellas, tamen recurret, e semmai, un primo cenno al senechismo, o modernismo di Seneca, si coglie in Lucrezio quando sostiene senza possibilità di equivoci la necessità dello split, della scissione, in modo che l’uomo si divida in due, quello che è preso dall’implacabile turbine (ancora il mare! O il DNA, o i mediatori, o i recettori), e quello che si è staccato e guarda dal di fuori: la nevrosi, o meglio la pazzia, come salvezza: è un altro quello che soffre.

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,

e terra magnum alterius spectare laborem;

non quia vexari quemquamst incumbla voluptas,

sed quibus ipse malis careas quia cernere suavis est.

Suave etiam belli certamina magna tueri

Per campos instracta tua sine parte pericli.

Ma è subito evidente la ponderosa scissione, con la quale Lucrezio introduce Seneca e noi moderni: Niente di più dolce che occupare saldamente gli alti luoghi fortificati dalla scienza dei saggi: regioni serene da dove si può abbassare gli sguardi sovra gli altri uomini, vederli errare da tutte le parti, cercare a tentoni il cammino della vita, competere in genialità, disputarsi la gloria della nascita, sforzarsi notte e giorno …

O miseras hominum mentis, o pectora caeca!

Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis

degitur hoc aevi quodcumquest!

Chiunque può avvertire lo split, il sé che è preso dal turbine delle spinte interne, e l’altro, quello che deve vedere, sereno, lontano, da una spiaggia sicura, il tormento e il naufragio del sé che affonda.

Anche Dante la pensava così: ma la soluzione è diversa, e il meccanismo non è più lo split ma la sublimazione, dove il trionfalismo escatologico tutto risolve.

Ah miseri mortal, poveri infermi

che è quest’ambizion che in alto galla?

Non v’accorgete voi che noi siam vermi

Nati a formar l’angelica farfalla

che verso il Cielo vola sanza schermi?

Così i modernissimi libri di Seneca: basta scorrerne i titoli: Epistulae morales ad Lucilium, De Vita Beata, De Tranquillitate Animae. Sarebbero, oggi, nelle mani di un editore californiano, dei best-sellers, magari adeguando i titoli in “Come combattere la depressione con la forza della mente”, “Come vivere felici”, “Come saper amare” e così via. Secondo l’ottimismo stoico, la natura umana è buona, e il logoV è in grado di evitare il suo decadimento, che avviene quando cade in mano ai paqh. Se questo accade, la ragione non viene meno, ma anzi raffina, indirizza la cattiveria, ne gode, fino a conferire all’uomo quel raffinato sadismo che manca sempre nei greci.

Ma le tragedie di Seneca sono tutte il contrario: più cruente, più disperate, piene di sangue e di morte in scena, rispetto al prototipo Greco. Non ci sono più dei, come in Medea:

Per alta vade spatia sublimi aetheris,

testare nullos esse, qua veheris, deos

“Vedi bene che dove sarai portata,

per i sublimi spazi del cielo,

non ci sono dei”.

Nell’Edipo, “mentre in Sofocle la vittoria sulla Sfinge è motivo di sicurezza, qui non è più in grado di garantire nessuna speranza per il futuro, così che il percorso verso l’autocoscienza (in Sofocle ispirato dalla speranza e dalla volontà di raggiungere una soluzione positiva) assume in Seneca la connotazione di un disperato procedere verso una certezza negativa” (Biondi).

Ma la differenza più grande sta nella figura di Clitennestra dell’Agamennone, in cui il conflitto tra ragione e passione, che è il vero problema di Seneca, si manifesta appieno. In opposizione con la Clitennestra Eschilea, donna dal senno virile, leonessa bipede, la madre perversa è una donna succube di Egisto, debole, che si dibatte tra pudore e passione, tra amore materno e furore geloso, che rinuncia dolorosamente alla virtus e va meditando addirittura l’uccisione di Oreste. Ecco, dunque, il nostro Oreste, povero bimbo disamato e abbandonato non da una furia impazzita (la Clitennestra di Eschilo), ma da una madre nevrotica, moderna, e tanto più pericolosa (la Clitennestra di Seneca).

A questo punto, possiamo pensare che il disperato tentativo di Seneca, e dell’uomo moderno, di credere che la “Psiche” possa modificare se stessa, o il corso delle cose e della persona, sia in realtà un tentativo di autoterapia, per spostare all’esterno e tenere sotto controllo tutto, a dispetto dell’impotenza di fronte all’autonomia del funzionamento della mente. Molti anni, dopo Seneca, dovranno passare per giungere ai tre colpi mortali all’orgoglio dell’uomo, quello Copernicano, per cui la terra non è al centro dell’universo, quello Darwiniano, per cui l’uomo è un animale come gli altri, e per ultimo quello Freudiano, che poi è quello della neurobiologia, per cui l’Io non è neppure padrone in casa propria. Che sia il funzionamento della macchina, o la complessa interazione di molecole e di recettori, oppure lo stratificarsi della storia interna nell’inconscio, poco cambia. Il fatto è che Seneca non poteva non rendersi conto, profondamente e oscuramente, che pulsioni, desideri, eventi, gli stavano scappando di mano. E l’ossessiva, o stoica (sono un po’ sinonimi) pretesa del controllo da parte della mente dei profondi sussulti melanconici, fino a raggiungere la serenità dell’animo, doveva avere questo significato. Proviamo a pensare, in termini dinamici, alla melancolia di Seneca, suicida, non dimentichiamolo; ed il suicidio è il punto estremo del discontrollo, non del controllo, comunque lo si voglia mascherare, o comunque pretendessero che fosse gli stoici. Noi psichiatri siamo dalla parte di Pier delle Vigne e non dalla parte di Catone.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,

credendo col morir fuggir disdegno

ingiusto fece sé contra sé giusto.

E allora, ci chiediamo, cosa succederà a Seneca? E la mamma di Seneca? Facciamo un largo giro.

Nerone, forse, ci fa capire tante cose. Come possiamo dimenticare che Seneca teorizza il concetto di optimus princeps, per il suo allievo Nerone? L’idea di un principe che agisce con la clemenza come suo strumento fondamentale (De Clementia), ma che è al di sopra delle leggi. Come può pensare, il coltissimo Seneca, una cosa del genere? Non riusciamo ad evitare di concludere che per il precettore Seneca, Nerone è una parte di sé, in cui il controllo della ragione è totale e fonte di ogni serenità e dell’ordinamento di ogni cosa. Sarà stato per nascondere, eliminare o raggirare quella parte di sé, matricida e suicida, che Seneca trovò poi perfettamente realizzata in Nerone, in modo neppure tanto simbolico, dato che il suicidio di Seneca avvenne, paradossalmente, per ingiunzione di Nerone, per mano dell’altra parte di Sé priva di ogni controllo nel suo estremo e finale controllo.

E per capire meglio il grande paradosso di Seneca, che è poi il nostro paradosso, all’origine degli attuali De tranquillitate Animae, e di quello che viene chiamato “bisogno di filosofia” e della inopinata improvvisa passione del filosofo d’oggi per la psichiatria, ripercorriamo un poco alcuni aspetti della storia di Nerone e di Seneca. Abbiamo due fonti autorevoli, Svetonio e Tacito, come dire un abile giornalista da Tabloid e un arcigno e scientifico storico, tanto per fare pendant.

Dunque Seneca, precettore di Nerone, pur essendosi interessato a fondo del mito di Oreste, non ha mai descritto direttamente il matricidio: la vendetta dell’Agamemnonio è solo annunciata profeticamente da Cassandra, ferita a morte da Clitennestra. Questo Agamemnon, pur di fonte eschilea, non ha un seguito dove l’azione tragica precipiti al compimento, Coefore, e poi si plachi e concluda, Eumenidi. Viene il sospetto che debba esistere quasi un legame tra la incompiutezza della sua “Orestiade” e la compiutezza degli impulsi e l’indole orestea di Nerone. Si ha la sensazione di un rifiuto di Seneca di scavare nelle misteriose profondità dei presentimenti, per un’improvvisa ribellione della coscienza angustiata, come vedremo più a fondo in seguito.

Già questo giustifica una rievocazione di Nerone in uno studio su Oreste; e tanto meno si può dimenticare che l’aspirazione megalomanica all’armonia e alla concordia universale ed anche alla superiorità su tutti, quasi in uno sforzo di perfezionamento e di continuo superamento, una aspirazione per molti aspetti comune a Seneca, doveva accostarsi in Nerone ad un atto eccezionale, un delitto straordinario, il matricidio.

Basterà ricordare alcuni momenti della sua vita e del suo comportamento, esaminandolo come il personaggio che si configura appunto dalle descrizioni di Tacito e di Svetonio. Specialmente Svetonio mostra di aver intuito il parallelo che corre tra Oreste e Nerone, pur non osando, evidentemente per non far torto a Oreste, indicarlo più esplicitamente. Per Svetonio, Nerone “cantò anche in tragedia sostenendo parti di eroi e di dei, e similmente di eroine e di dee, sul volto ponendosi maschere somiglianti a se stesso e alla donna che in quel momento era la sua favorita. Fra le altre cantò nella ‘Canace partoriente’, nell’‘Oreste matricida’, nell’‘Edipo accecato’“. Accostamento che non è solo casuale e che, si precisa più avanti, a descrizione del matricidio avvenuto:

Ci sono testimonianze precise che completano il racconto con particolari più raccapriccianti: che egli accorse, appena fu uccisa, a vederne il cadavere, e ne palpò le membra, parte vituperandola parte lodandola, e che, frattanto, venutagli sete, bevve. Eppure, tuttavia, non poté mai, né subito né appresso, far tacere il rimorso, nonostante gli facessero animo ed i soldati ed il popolo ed il senato con le loro congratulazioni: spesso confessava che il fantasma della madre lo perseguitava insieme ai flagelli e alle fiaccole ardenti delle Furie. Arrivò al punto di far evocare dai Magi, mediante incantesimi, i Mani, tentando di placarli. Nel viaggio in Grecia, poi, non osò prendere parte ai misteri di Eleusi, perché, per bocca del banditore, gli empi e gli scellerati sono esclusi dalla iniziazione ad essi” (Svet. 34, 4).

Ed ancora più esplicitamente:

Molti epigrammi greci e latini furono affissi ai muri e fatti circolare, come questi: Nerone, Oreste, Alcmeone, matricidi” (39, 2).

Ma prima di parlare di Nerone è bene tornare a Seneca, signore assoluto, anche se incompreso, della propria epoca, che ha negato il matricidio per sé, ma ha armato la mano del suo discepolo.

D’altra parte Seneca fu una delle più indagate e discusse figure già nell’età sua, provocando giudizi benevoli, ma soprattutto animosi, che le contraddizioni della sua vita, le incoerenze morali, hanno contribuito a perpetuare nei secoli in un continuo dibattito spesso mancante di una comune base di discussione. Da Dione Cassio che disprezzava Seneca perché, pur biasimando la tirannide, divenne in seguito educatore di un tiranno, a Sant’Agostino, a Calvino che ne prese le difese contro Erasmo, a Leopardi che lo giudicò “corrottissimo nello scrivere”, per non citare che i più autorevoli, fino ai tanti studiosi della nostra epoca, impegnati nel riesame continuo delle contraddizioni di Seneca, di quelle che lui stesso si riconobbe e di altre del tutto nuove.

Per quanto riguarda l’Agamemnon il principale modello di Seneca è eschileo, facilmente riconoscibile malgrado diversi cambiamenti. Lo svolgimento della vicenda, attraverso sottili e minuziose aderenze anche alle ramificazioni marginali del mito, ottenute con inutili citazioni e raccordi, sterile sticomitia e inopportune descrizioni, ha inizio con l’invocazione della vendetta da parte della vagante ombra di Tieste che, ricordando l’orribile invito a banchetto di Atreo dove era imbandita la carne dei suoi stessi figli, maledice e implora. Egisto quindi, ricordando a Clitennestra la figlia Ifigenia sacrificata e rendendole noto l’arrivo imminente di Cassandra, la convince ad uccidere Agamennone. Agamennone, finalmente ritornato, non vuole credere a Cassandra che gli ha predetto il corso del destino, e viene assassinato. Oreste scampa al pericolo: è salvato da Elettra che lo affida poi a Strofio, giunto dalla Focide per rivedere il cognato dopo dieci anni di lontananza e per congratularsi con lui della vittoria. Elettra può perciò confortarsi e rincuorarsi. Infine Clitennestra, strappandola dall’altare dove aveva cercato rifugio, colpisce a morte Cassandra, che, prima di esalare l’ultimo respiro, predice il matricidio di Oreste, la vendetta.

Si ha l’impressione, nell’Agamemnon, che l’evidente antitesi fra la cupa vicenda della tragedia e il caratteristico intimismo della morale senechiana, sia determinata da una improvvisa ritrosia di Seneca a giungere alle estreme conseguenze — insieme con la composizione del naturale proseguimento, cioè le Coefore — dell’interpretazione del matricidio.

Sembra tuttavia non manchi che un piccolo passo. Seneca riconobbe la presenza di una forza interiore e nascosta nell’uomo; e la necessità di indagare questo strano meccanismo del quale è facile intuire la vastità e complessità, le reazioni, le difese, i rapporti con il mondo esterno.

Se Seneca non giunge alle Coefore, alla rappresentazione dell’atto del matricidio, se non approfittò della sua conoscenza del cuore umano nei suoi più riposti angoli, e della felice, energica espressione dei fatti psichici, fu perché si trovò di fronte ad un altro spettro tremendo e cieco, la venerata dignità della mater familias, tanto spesso attestata dalla letteratura di Roma, città ancora lontana dalla consapevole sensualità dell’Oriente e delle sue usanze: la poligamia legalizzata, la sacra prostituzione in Mesopotamia, i consueti incesti dell’Egitto. In realtà Seneca ci pare rappresentare, da solo, tutto il grave impaccio psicologico del mondo romano: la rigidità, la difesa ottusa, la negazione ed il pervicace intento di mantenere la madre intatta e propizia. Tutto il pulsare, il comparire del matricidio come negazione del trauma della nascita, che traspare nella tragedia greca, qui si irrigidisce in una difesa che è negazione dell’angoscia dell’abbandono, tramite la negazione del matricidio (cioè la negazione della negazione), e con la costruzione di quegli ideali maestosi, tipici dei romani, quasi sempre formali, che in questi casi servono alla preservazione della madre, mater familias.

Uno dei corni dell’ambivalenza viene eliminato, ed il conflitto madonna-prostituta, madre propizia-madre espulsiva, viene risolto eliminando la madre espulsiva. Ma fino a che punto?

Proprio Seneca, educatore e maestro di un tiranno matricida, fino a che punto non avrà armato la mano del tiranno, agendo sottilmente al di là dell’habitus moralistico? L’ambiguità di Seneca, e potremmo dire la sua ambivalenza neurotica, sono abbastanza testimoniate dai contemporanei, per non farci pensare che egli non abbia usato come arma tremenda un tiranno, il cui odio e la cui aggressività erano, vedremo poi, interamente rivolti verso la madre.

Converrà ora tornare proprio al tiranno, all’unico, grande Oreste romano, da cui eravamo partiti, rappresentato non sulle scene del teatro, ma in quelle più ampie e più seguite, in fondo dal pubblico, dalla corte imperiale romana e dalla storia. Il matricidio di Nerone, personaggio di Svetonio e Tacito, racchiude in sé il dramma di Oreste, gli stessi intimi profondi convincimenti.

Anche rivedendo il Nerone di Tacito, che non lo avvicina mai esplicitamente a Oreste del quale non mostra di ricordarsi, non si può non considerare ancora una volta l’atto matricida come l’estrema risoluzione al trauma della nascita, espulsione le cui conseguenze determinano riflessi esiziali e che perciò è tanto più necessario ignorare ed annullare.

Numerosi e diversi tentativi di difesa di Nerone sono facilmente riscontrabili in quelli di emancipazione che si possono avvertire già qualche tempo prima dell’avvelenamento di Britannico; appena cioè Seneca e Burro diventano antagonisti di Agrippina la quale intuisce la potenziale rivalità di Nerone. Questa via di Nerone al matricidio è tracciata con precisione da Tacito, ed è lo storico stesso che lascia intravedere la presenza di Seneca dietro la vicenda nel bene e nel male.

La prima vittima del nuovo principato fu Giulio Silano, proconsole d’Asia. La morte venne, all’insaputa di Nerone, insidiosamente tramata da Agrippina: non già provocata da violenza di carattere in lui (…). Né meno sollecita fu la fine di Narciso, il liberto di Claudio” (Tac. XIII, 1).

E gli assassini si sarebbero moltiplicati, se non vi avessero posto argine Afranio Burro e Anneo Seneca. Precettori del giovane principe, in concordia d’intenti rara tra persone di pari autorità, questa essi esercitavano su di lui in egual misura sebbene per vie diverse (…). A entrambi era comune ostacolo la sfrenata intemperanza di Agrippina, che invasata da tutte le passioni di una perversa strapotenza, aveva legato a sé Pallante, per iniziativa del quale Claudio s’era degradato a nozze incestuose e ad una funesta adozione. Non aveva però Nerone indole tale da subir dominio di servi; e Pallante gli si era reso odioso per l’arroganza sconveniente alla condizione di liberto.

Pubblicamente, per altro, Agrippina veniva colmata di ogni onore; e ad un tribuno della corte pretoria che secondo l’uso militare chiedeva a Nerone la parola d’ordine, questa esso gli aveva dato: – l’ottima fra le madri –” (XIII, 2).

Non a caso, infatti, nelle prime monete che fece coniare erano impresse insieme le immagini di Agrippina e Nerone, i nomi di madre e figlio e, dice Svetonio, “in appresso comparve frequentemente in pubblico al suo fianco, nella lettiga di lei medesima” (Svet. II, 1).

L’evoluzione della figura della madre è assai bene evidenziata da Tacito, ed è perfino anticipato il primo incontro di Nerone con Agrippina, preludio alla scoperta della propria identità, che determinerà l’intolleranza di una vita in comune, l’estrema necessità del secondo definitivo incontro, senza più esitazioni e ripensamenti.

Le adunanze dei senatori “venivano convocate in Palazzo, perché non veduta ma ascoltante, essa (Agrippina) potesse assistervi da una porta alle spalle di Nerone separata dalla sala da una cortina. Ed anzi accadde un giorno che (…) era sul punto di salire sul palco dell’imperatore e sederglisi accanto, quando, nel generale smarrimento, Seneca sollecitò Nerone a farsi esso stesso incontro alla madre” (Tac. XIII, 5).

Madre, dunque, simbiotica, invasiva, ombra colossale che gravava, padrona e minacciosa, dietro le spalle del padrone del mondo e del mondo stesso, e Seneca, che sembra voler portare tutto allo scoperto ed accentuare la grandiosità materna.

In Roma, smaniosa sempre di chiacchere, molti andavan mormorando:– Come mai avrebbe potuto un giovane poco più che diciassettenne prendere su di sé una situazione così grave – e superarla; quale appoggio da lui sperare, guidato com’era da una donna” (XIII, 6).

Per fronteggiare, a questo punto, l’immagine di una madre siffatta, Burro e Seneca non sono più sufficienti; entra in scena allora Atte, esasperato tentativo di Nerone di prendere su di sé una temuta responsabilità decisionale, inutile, ma non certo per l’antidoto cui Agrippina ha fatto ricorso, un mutato atteggiamento che non può ingannare nessuno.

Andava intanto via via declinando l’influenza della madre, da che Nerone era caduto in un intrigo amoroso con una liberta di nome Atte (…) Ignara la madre dapprima, indi invano contrastante, Atte s’era insinuata profondamente nell’animo di Nerone con la torbida seduzione di equivoche dissolutezze” (XIII, 12). Ma mentre declina l’influenza della madre, aumenta quella di Seneca.

Femminilmente fremeva Agrippina per aver rivale una liberta, nuora una domestica, ogni altra cosa analogamente; (…) quanto più aspramente lo tormentava tanto più accendeva la sua fiamma; sino a che, schiavo del suo violento amore, ogni deferenza verso la madre perdette, interamente abbandonandosi a Seneca: (…) Agrippina allora, cambiando tattica, si diè a circuire il giovane con le moine, sino ad offrirgli l’asilo della sua stessa camera per celarvi quei piaceri a cui lo traevano la giovane età e l’eccelsa posizione; riconobbe anzi la inopportunità del precedente rigore (…). Ma il mutato atteggiamento non ingannò Nerone che le regalò prima d’esserne richiesto splendidi ornamenti“. “Ma Agrippina proruppe in proteste, che non già con codesti presenti la si poteva arricchire, quando ben altro le si toglieva; d’altronde, diceva, il figlio non faceva parte a lei se non di ciò che da lei aveva per intero ricevuto” (XIII, 13).

Britannico, paradossalmente, la quattordicenne vittima di un sopruso, assume agli occhi di Nerone, divenuto per l’adozione Nerone Claudio Druso Germanico Cesare, la figura di usurpatore. Svetonio ricorda:

Nei confronti di suo fratello Britannico, poiché continuava a salutarlo, anche dopo l’adozione, col cognome di Enobarbo come aveva sempre fatto, tentò di dimostrare a Claudio che quello non era figlio suo” (Svet. Il, 7).

E Tacito prosegue:

Esplose Agrippina nelle più terribili minacce; né risparmiò alle orecchie del principe l’avvertimento, essere ormai adulto Britannico, vero e degno erede del padre e dell’impero che oggi, e proprio per colpa materna, era usurpato da un intruso adottivo (…). Una sola salvezza, essa diceva, gli dèi e l’opera sua le aveva serbato: che fosse vivo il figliastro” (Tac. XIII, 14).

Turbato Nerone da codeste minacce (…), poiché di nessun delitto poteva accusare il fratello, né ordinare apertamente l’assassinio egli ardiva, ricorse all’insidia, e ordinò fosse apprestato il veleno” (XIII, 15).

All’assassinio di Britannico “lo sgomento invade i commensali; gli ignari fuggono via; quelli che più a fondo penetran l’accaduto rimangono fermi al loro posto, fisso lo sguardo su Nerone (…). Ma il terrore, ma lo sbigottimento di Agrippina, apparvero così evidenti sul suo volto nonostante lo sforzo di dominarli, da dimostrare come ella fosse all’oscuro del delitto non meno della stessa sorella di Britannico, Ottavia: e in verità, quel delitto le toglieva la sua estrema risorsa, e quasi le appariva preannuncio del matricidio” (XIII, 16).

Tacito ha capito che non si tratta dell’eliminazione del rivale maschio, del rivale al potere, ma solo di un atto spostato, simbolo e preludio del matricidio, cioè dell’uccisione di colei che era origine e depositaria di tutti i suoi poteri, della vita stessa, e che in un momento espulsivo avrebbe potuto toglierglieli.

Coll’incalzare degli avvenimenti, si delineano ancor più chiaramente i nodi conflittuali, ed incalza anche la pressante e magistrale narrazione di Tacito:

Di colpo, la casa di Agrippina è disertata: nessuno più che la conforti, nessuno che la frequenti, fuori di poche donne, non so se per affetto o per odio. Fra queste Giunia Silana (…) per imputarle di voler innalzare a capo di un nuovo ordine politico Rubellio Flauto, discendente per via materna dal divo Augusto in pari grado con Nerone, e sposandolo riaffermare, attraverso la di lui sovranità, le redini dello Stato.

Tutto ciò Glurio e Calvino ripetono ad Atimeto, liberto di Domizia zia di Nerone; e Atimeto, lietamente pronto a coglier l’occasione (ché una irriducibile rivalità covava tra Agrippina e Domizia), spinge il mimo Paride, liberto ancor lui di quest’ultima, a correr tosto a Palazzo per svelare, coi più foschi colori, il complotto” (XIII, 19).

Era notte inoltrata, e Nerone trascinava innanzi le ore nell’ubriachezza, quando entra Paride, uso a stimolare in quell’ora appunto coi suoi mimi la lussuria del principe; ma ogni paura suscita nell’uditore, che senz’altro questi decide, non solo di far uccidere la madre e Plauto, ma anche di cacciare dalla prefettura Burro, come quegli che giuntovi per favore di Agrippina or l’avrebbe ricambiato d’aiuto (…). Nerone, in preda allo spavento e anelante alla uccisione della madre, poté essere indotto a dilazionarla soltanto dalla promessa di Burro, che essa avrebbe avuto luogo senz’altro ove l’accusa risultasse fondata (…); si tenessero infine presenti le tenebre della notte, la veglia nell’orgia, tutte le altre circostanze troppo favorevoli alla precipitazione e all’errore” (XIII, 20).

Sopito così lo sgomento del principe, al nascere del giorno vanno da Agrippina per contestarle le accuse, onde essa si giustifichi o sconti la pena (…) essa invoca un colloquio col figlio; e quivi, senza dir parola della propria innocenza (quasi non potesse esser messa in dubbio), né delle proprie benemerenze per non sembrar di rinfacciargliele, ottenne vendetta contro i delatori, premio agli amici” (XIII, 21).

Si giunge così al momento del vero incontro con la madre, preparato da lungo tempo, la chiarificazione definitiva dell’intollerabilità, una rivelazione di posizioni che neppure Agrippina ignora, perché non inganna quel suo silenzio sulla propria innocenza, né il contegno di Nerone, subito smentito da indicative annotazioni sul suo comportamento unite perfino a prodigi e presagi.

Sempre in quell’anno, il fico Ruminale sito nella piazza dei comizi, che ottocentotrent’anni innanzi aveva protetto l’infanzia di Remo e Romolo, perdette i suoi rami morti e si assottigliò per l’essiccarsi del tronco. Tristo presagio apparve codesto, sinché l’albero non rinverdì di novelle fronde” (XIII, 58).

La disperata ricerca di Nerone di una madre propizia, in alternativa alla negazione della nascita, dall’amore per la liberta Atte fino alla negazione omosessuale della donna, nei rapporti con i favoriti e quelli con gladiatori e schiavi, trova infine una svolta decisiva con Poppea. Svetonio annota diligentemente:

Oltre la corruzione di fanciulli di buona famiglia e gli adultéri con donne sposate, violò anche la vergine vestale Rubria (…). Dopo aver fatti tagliare via i testicoli a Sporo, un fanciullo, tentò anche di trasformarlo in donna e, con la dote e il color di fiamma, secondo il rito ordinario dei matrimoni, se lo fece condurre al palazzo con un seguito imponentissmo e se lo tenne come moglie. Si ricorda ancora l’indovinata freddura di un tale che disse che le cose del mondo sarebbero andate molto meglio, se fosse stato suo padre Domizio a prendersi una simile moglie. Questo Sporo, con gli ornamenti propri delle imperatrici che avevano ricevuto il titolo di Augusta e trasportato in lettiga, egli accompagnò nei centri di mercato e di raduno degli abitanti dei singoli distretti della Grecia, poi, di Roma, ai Sigillari, continuando a baciarlo senza posa (…) accolse nel numero delle sue concubine una cortigiana che, si diceva, era somigliantissima ad Agrippina (…) escogitò una specie di gioco nuovo: si mascherava con una pelle di bestia feroce, e fattosi aprire la porta della gabbia, si buttava avidamente sugli inguini di uomini e di donne legati ai pali e, dopo essersi sfogato quanto voleva, si sottoponeva al proprio liberto Doriforo, di cui egli stesso essendo diventato la moglie, allo stesso modo che per Sporo era diventato il marito, imitava addirittura le voci e i gesti delle vergini quando sono deflorate” (Svet., pp. 385-387).

E Tacito scrive:

Erano consoli Gaio Vistano e C. Fonteio, quando Nerone ruppe ogni indugio a compiere il delitto lungamente meditato (…); e di giorno in giorno più lo infiammava la passione per Poppea, che disperando, viva Agrippina, di strappare per sé il matrimonio e contro Ottavia il divorzio, lo assillava d’insistenti recriminazioni, e lo motteggiava talvolta col nomignolo di pupillo, come colui che, prono all’altrui volere, s’era spogliato del comando non solo ma della stessa libertà (…). A cotali discorsi, che con le lacrime e la blandizia dell’amante penetravano a fondo nell’animo di Nerone, non v’era chi contrastasse; ché tutti agognavano il crollo della potenza materna, nessuno immaginando così tenace l’odio del figlio da giungere sino al matricidio” (Tac. XIV, 1).

La “potenza materna” (si noti la moderna, quasi psico-analitica, esattezza terminologica di Tacito), non può piegarsi, senza il matricidio.

Ad Agrippina non rimane che l’ultima offerta del rapporto incestuoso, l’offerta a Oreste di Clitennestra del seno che lo nutrì, l’estremo tentativo di trasformarsi in madre recettiva e propizia e quindi di mutare Oreste in Edipo.

Narra Cluvio che Agrippina, nella disperata difesa della propria potenza a tanto sia giunta da offrirsi più volte, ornata d’ogni seduzione e pronta allo incesto, a Nerone ebbro (…) allorché Seneca, ad altra femmina ricorrendo contro le femminili lusinghe, mandò a Nerone la liberta Atte (…). Fabio Rustico attribuisce la sconcia voglia, non ad Agrippina ma a Nerone stesso, che solo dalla accortezza di quella liberta ne sarebbe stato sviato” (XIV, 2).

Dopo d’allora, sfugge Nerone ogni solitario incontro con la madre; e quando ella si reca nei suoi giardini, o nelle campagne di Tuscolo e d’Anzio, la loda di ricercarvi un tranquillo riposo. Ma infine, divenutagli, ovunque si fosse, intollerabilmente molesta, decide di sopprimerla; incerto soltanto se col veleno o col ferro, o con quale altro violento mezzo. Gli sorrideva in un primo tempo il veleno: ma se dato alla mensa imperiale, come incolpare il caso di un ripetersi identico della fine di Britannico? Né agevole sembrava il tentar la corruzione dei servi contro una donna che la consuetudine del delitto faceva sospettosa d’ogni insidia; per di più, la preventiva immunizzazione ne difendeva l’organismo dagli effetti del tossico” (XIV, 3).

Questa mitridatizzazione di Agrippina è la chiave per la giusta comprensione del matricidio; più che la premeditazione di Nerone, è la coscienza della sua ineluttabilità, da parte non solo di Agrippina, ma di tutti i protagonisti del dramma, non escluso Seneca che, forse proprio per questo, non riuscirà a liberarsi più dell’atmosfera di mesto e ambiguo squallore morale, nel succedersi dei millenni.

D’altra parte, nessuno sapeva suggerire (incerto se Seneca fosse a parte della cosa) come mascherar la uccisione a mano armata; e v’era poi a temere che il sicario scelto a un così terribile compito tradisse il mandato. La soluzione fu escogitata dal liberto Aniceto, prefetto della flotta di Miseno, già istruttore di Nerone fanciullo, odiato odiatore di Agrippina.

Insinua costui potersi costruire una imbarcazione in siffatto modo, che staccandosene una parte, la precipiti di sorpresa nel mare, che in sommo grado si presta agli accidenti fortuiti; e quand’essa sia inghiottita dal naufragio, chi sarà tanto malevolo da imputare a delitto l’opera dei venti e dei flutti?” (XIV, 3). Ecco che Seneca fa sinistramente capolino. Forse c’era lui, dietro il matricidio anche se Tacito qui crea una suspence.

L’ineluttabilità è qui chiamata direttamente in causa e apertamente sottolineata. Il racconto di Tacito procede spedito e spietato verso i momenti culminanti.

Piacque la trovata: a favorir la quale concorsero le circostanze del momento, celebrandosi in quei giorni a Baia le feste quinquatrie di Minerva. Nerone riesce ad attirarvi la madre (…) le si fa incontro sulla spiaggia, la prende per mano, l’abbraccia, la conduce a Bauli (…). Ne l’attesa che scendesse la notte ad avvolger di mistero il misfatto, Agrippina fu invitata a cena dal figlio. Ma par certo che vi fu chi tradisse il segreto. Alla rivelazione della insidia, Agrippina, dubbiosa a prestarvi fede, si fece trasportare in portantina a Baia. Qui le affettuose premure di Nerone dissiparono in lei ogni sospetto; affabilmente ricevuta fu posta a sedere in più elevato seggio (…). Nerone protrasse a lungo il banchetto; quando essa partì, l’accompagnò un tratto, con intenso fervore baciandole gli occhi e stringendola al seno, o per raffinatezza di simulazione, o perché l’animo suo, per quanto indurito, fosse tocco dall’estrema visione della madre moritura” (XIV, 4).

Si era la nave allontanata di poco dal lido (…). D’improvviso, al prefisso segnale, il tetto sovrastante crolla, oppresso dalla massa di piombo. Crepereio, schiacciato, muore all’istante; Agrippina e Acerronia son protette dagli alti fianchi del letto, (…) fu attutita alle due donne la caduta in acqua (…) Agrippina silenziosamente nuotando, e perciò men facilmente riconosciuta, con solo una ferita alla spalla, viene trasportata da sopraggiunti barcaioli al lago Lucrino, e di là nella sua villa” (XIV, 5); “(…) comprese come la sola difesa per lei contro la trama fosse il celarne financo il sospetto. Inviò pertanto al figlio il liberto Agerno, che (…) lo pregasse di voler differire, pur nella angoscia del pericolo materno, la premura di una sua visita, non altro abbisognando pel momento se non di riposo” (XIV, 6).

A Nerone, che attendeva impaziente l’annuncio del compiuto delitto, vien riferito che la madre n’era uscita con una lieve ferita; ma nessun dubbio poteva rimanere in lei sull’autore del corso pericolo. Il respiro gli si mozza in gola pel terrore (…). D’onde avrà egli soccorso se non da Burro e Seneca?

Il fallimento del matricidio richiama in Nerone il terrore antico. Nella realtà, cosa può egli temere, padrone del mondo? Ma un matricidio fallito lo pone solo di fronte al terribile mostro della madre espulsiva. Ecco, nel momento del terrore, il Cesare ricorse ai precettori, uno dei quali è Seneca: il suo silenzio impietrito suona senza ombra di dubbio come istigazione al matricidio.

In fretta li fa chiamare a sé (è dubbio se prima non sapessero ogni cosa). Rimangono entrambi a lungo in silenzio (…) pensi Aniceto a compier la promessa. Costui senza esitare, chiede di poter condurre a termine l’opera. A queste parole, Nerone esclama che finalmente in quel giorno egli è imperatore, e che di tanto dono gli è autore il liberto: s’affretti dunque” (XIV, 7).

Aniceto circonda di guardie la villa e, sfondata la porta; spazza via i servi che gli si fanno incontro e giunge alla soglia della camera da letto. Poche persone sostavano d’accanto, tutte l’altre fugate dal terrore dell’irruzione. Nella camera, una fioca lampada e una sola ancella presso Agrippina (…).

Anche l’ancella si allontana. – Tu pure mi abbandoni –, esclama Agrippina; e di colpo si vede innanzi Aniceto, con a fianco il capitano di trireme Erculeio e il centurione della flotta Obarito. – Se tu vieni (essa dice) per visitarmi, annunzia che mi sono rimessa; se vieni per un delitto, non crederò giammai che sia per ordine di mio figlio; non egli può aver comandato il matricidio –. I sicari circondano il letto. Prima il trierarca le cala un colpo di bastone sul capo; e mentre il centurione leva quindi il ferro su di lei per ucciderla, essa, sporgendo innanzi il ventre, esclama:– Colpisci qui –; e muore, crivellata di ferite” (XIV, 8).

Il “colpisci qui”, nel ventre, è l’estremo atto di consapevolezza della madre, che sa cosa il figlio vuole, distruggendolo, negare.

Il commento e la chiusa di Tacito sintetizzano la sua linea episodica neroniana, così simile, nella problematica, a quella orestea. In Nerone, il suo adattamento alle situazioni di spazio e tempo, la disperata ricerca della propria identità, sempre allontanata da motivazioni consce ed inconsce che richiamano la paura dell’immagine materna distruttiva e ripulsiva, non hanno altro sbocco che il matricidio. Agrippina sa bene tutto ciò: “Si salvi, a costo di uccidermi!”.

Che Nerone abbia poi contemplato l’esanime corpo della madre, e ne abbia lodato la bellezza, v’è chi afferma e chi nega (…) Da molti anni Agrippina aveva provveduto per sé una tal fine; ma non se ne dava cura. E infatti, un giorno in cui i negromanti di Caldea ch’essa aveva interrogato sulla sorte di Nerone le risposero ch’egli sarebbe imperatore e matricida, disse:– Mi uccida, purché regni –” (XIV, 9).

Sembra che la madre sappia che non v’è alternativa: il figlio sarà o distrutto dalla madre espulsiva, o tiranno matricida, distruttore della madre e della sua stessa città. C’è parso che questo imperatore matricida, questo potentissimo in preda al demone dell’impotenza, rispecchi bene quello che già altrove abbiamo considerato il senso profondo del dramma di Oreste. A legger Tacito e Svetonio, non si comprendono bene i motivi politici di questo delitto: Agrippina è, sì, traditrice al fondo, come Clitennestra, e come Clitennestra può aver tramato per sostituire a Nerone sul trono colui che le è al momento più caro; ma non v’è dubbio che Nerone si staglia come un forsennato in preda ad una irriducibile, rodente frenesia matricida. Sembra che non abbia pace prima che la madre sia trucidata. L’uomo, per cui l’onnipotenza era il contravveleno della solitudine, il re che di tutti doveva sospettare e da tutti poteva essere abbandonato, è appunto dall’abbandono mortale, che vuole fuggire, negando la nascita, l’atto espulsivo, con l’uccisione della madre.

Come Oreste, Nerone incontra la madre soltanto per ucciderla: ed è un matricidio che non vendica neppure in apparenza l’assassinio del padre, come in Oreste, ma che vuole annullare la nascita, negando con il matricidio la figura che ha espulso ed abbandonato all’angoscia, dopo la tranquillità uterina, il bambino, la madre terrifica, minacciosa e divoratrice. L’aspirazione è il ritorno alla pace immobile, imperturbabile, dove non ci sono abbandoni e pericoli. L’uomo follemente inquieto, aspira genuinamente alla pace universale, ed è questo contrasto che rende perplessi di fronte alla sua figura, fa sì che oggi gli storici tendano a rivedere l’immagine tradizionale così negativa, e faceva sì che allora, alla comparsa di un qualsiasi pseudo Nerone, interi popoli si sollevassero dietro la sua memoria. “Pace populi romani ubique parta, Ianum clusit” sta scritto nelle sue monete. Il matricida, il distruttore di Roma, aspira a chiudere il tempio di Giano, simbolo di guerra, se aperto.

Ecco il discepolo che ha creato Seneca, il grande maestro di clemenza e di serenità d’animo. Un re, padrone del mondo, che non accetta la possibilità di essere abbandonato ed espulso. Ha creato e messo all’esterno un sé, che con la sua onnipotenza distruttiva, nega la fonte del suo terrore. Il teorico del controllo mentale e della moderazione ha come allievo il campione dei vissuti incontrollabili ed onnipotenti.

Ora apprendiamo meglio perché di tutti gli scrittori antichi, Seneca appare il più ricercato e il più letto. È il più moderno, nel senso che è, come tutti gli uomini d’oggi, un tecnico della negazione. La realtà psichica è un complesso convergere di elementi fuori del nostro controllo (e questo egli sembra in realtà aver compreso) tanto che la malattia psichica sfugge sempre alle diagnosi perché dentro ogni diagnosi ce n’è sempre racchiusa un’altra, e Seneca sarebbe stato, se fosse vissuto dopo, un sostenitore del concetto di Einheitpsychose della psicopatologia tedesca. Di tutti questi elementi convergenti in una unità psichica e psicopatologica, Seneca nega tutti gli altri, e lascia soltanto la ratio, la ragione, o se volete la volontà cosciente, perché è l’unica che ritiene si possa controllare mentre, abbiamo capito noi dopo secoli di frustrazioni, è incontrollabile come tutte le altre. Liberarsi delle passioni equivale a liberarsi della colpa, combattimento storico ossessivo che utilizza la dimensione maniacale contro la melancolia, modo che prima o poi collassa e lascia irrompere il suicidio. Seneca non vuole vedere, al di là del liberarsi delle passioni, che la norma è in realtà una micromaniacalità, e che chi non si difende con un minimo di mania è inevitabilmente depresso. Noi psichiatri ci stupiamo sempre non perché tanti si suicidano, ma perché tanti non si suicidano affatto. Ed egli, il filosofo, ne aveva ben donde: per tutta la vita era stato protagonista e testimone di ogni sorta di disastri: i terremoti di Pompei, i devastanti incendi di Roma e Lugdunum, l’odierna Lione; la sottomissione del popolo di Roma e del suo impero a Nerone, e prima di lui a Caligola, o, come lo aveva accuratamente soprannominato Svetonio, “il mostro”; che “in un momento d’ira … esclamò: Magari lo stato avesse un collo solo!”

Ma aveva sofferto anche lutti personali. Dopo gli studi di preparazione alla carriera politica, a vent’anni gli era stato diagnosticata una tubercolosi, malattia che per altri sei anni non lo avrebbe più abbandonato, procurandogli una grave forma di depressione. Il suo ritardato ingresso nella vita politica era quindi coinciso con l’ascesa al potere di Caligola e, anche dopo l’assassinio del mostro, nel 41, la sua posizione era rimasta precaria. Una congiura ordita da Messalina aveva avuto come esito collaterale la sua successiva caduta in disgrazia e otto anni di esilio in Corsica. Quando finalmente era stato richiamato a Roma, aveva dovuto suo malgrado accettare l’incarico più pericoloso di tutta l’amministrazione imperiale: quello di precettore del figlio dodicenne di Agrippina, Lucio Domizio Enobarbo, che quindici anni dopo gli avrebbe ordinato di uccidersi al cospetto della moglie e dei suoi cari.

Seneca sapeva o credeva di sapere perché in tutti quegli anni era riuscito a resistere all’angoscia:

Attribuisco alla filosofia il merito di avermi rimesso in piedi …

Le devo la vita, nulla di meno.

È il progetto euforico a difesa della depressione la vera norma dell’uomo. Il proprio perenne episodio depressivo, incomprensibile, strano, alieno che Seneca cerca di respingere con la sua filosofia.

Nel suo personale manuale diagnostico la depressione è chiaramente definita: “Il male che ci tormenta non è nel luogo in cui ci troviamo ma è in noi stessi. Noi siamo senza forze per sopportare qualsiasi contrarietà, incapaci di tollerare il dolore, impotenti a gioire delle cose piacevoli, sempre scontenti di noi stessi”. A Marcia, in occasione della morte del figlio Metilio, dice tout court: che motivo c’è di piangere le singole parti? È nel suo complesso che la vita è degna di pianto.

In questa mescolanza tra ottimismo stoico sulle possibilità di controllo della mente e pessimismo tetro sulla vulnerabilità umana, il manuale, il best-seller prende corpo: vediamo cosa dice dell’ira, che è considerata una forma di pazzia: molte persone in preda all’ira augurano

La morte per i figli, la miseria di sé, il crollo per la casa, imprecano, eppure affermano di non essere adirati, così come i pazzi di non essere pazzi. Dei più grandi amici diventati nemici … delle leggi dimentichi … con violenza ogni cosa conducono … Il più grande male li ha presi e che tutti i difetti supera.

L’uomo iracondo può scusarsi e spiegare di essere sopraffatto da una forza superiore, vale a dire superiore alla sua ragione. “Ha perso il controllo, cadendo vittima di forze oscure che gli si agitavano dentro”. In questo modo egli fa propria una visione predominante della mente in cui la facoltà raziocinante, sede del vero sé, subisce l’aggressione di passioni transitorie che non è in grado né di identificare, né di dominare in modo responsabile. A farci arrabbiare sono le aspettative pericolosamente ottimistiche nei confronti del mondo e delle persone. Quindi smettendo di aspettarci troppo, non saremo più così facilmente soggetti all’ira. Poiché a ferirci sono soprattutto le cose che non ci aspettiamo e poiché dobbiamo aspettarci qualunque cosa “Nulla è inosabile per la fortuna“. Dobbiamo sempre tenere a mente, così consigliava Seneca, l’eventualità di un disastro. Nessuno dovrebbe mettersi in macchina per esemplificare ad oggi, scendere le scale o salutare un amico senza la consapevolezza delle possibilità fatali insite in tali azioni.

A riprova della nostra estrema vulnerabilità:

Che cos’è l’uomo? Un vaso qualunque, rotto, e frangibile per qualunque agitazione … un corpo debole e fragile, nudo, di sua natura senza difese, bisognoso dell’aiuto altrui, gettato in balia di tutte le offese della fortuna.

Non vi si promette nulla a riguardo di questa notte: ho dato una dilazione troppo lunga: anzi, a riguardo di quest’ora.

Ogni mattina dovremmo quindi praticare ciò che Seneca chiamava un praemeditatio, una meditazione preliminare su tutte le sofferenze mentali e fisiche che la dea può infliggerci sempre e in qualunque momento:

Pertanto il saggio con questo animo esce ogni giorno …

La fortuna non concede nulla in proprietà assoluta.

Non esiste nulla di stabile né nella vita privata né in quella della collettività: i destini dei singoli come le sorti delle città sono in perenne movimento.

Tutto ciò che una serie di anni ha costruito con grandi fatiche, valendosi della benevolenza degli dei, viene disperso e disgregato in un solo giorno. All’incalzare delle sventure attribuì una lunga dilazione chi parlò di un giorno: bastano un’ora, un brevissimo lasso di tempo per sradicare gli imperi.

Quante volte alcune città dell’Asia, quante volte alcune città dell’Acaia sono rovinate al suolo per una scossa di terremoto! Quante cittadine in Siria, quante in Macedonia sono state inghiottite!

Quante volte questo flagello ha devastato Cipro!

Viviamo tra soggetti destinati a perire. Mortale sei nata, mortali hai generato.

Ogni cosa credi, aspettala.

E se passiamo all’ansia, il suo intervento cognitivo, la sua massima fondamentale, è lapidaria: se vuoi toglierti di dosso ogni angoscia, dà per scontato che tutto ciò che temi avverrà comunque, e distaccati.

Guarderò dall’alto tutto il regno della fortuna, ma da quello, se mi sarà data la scelta, prenderò ciò che è migliore.

Ma soprattutto, tollerare le frustrazioni, anche perché Seneca, ma neppure gli scrittori dei best-sellers odierni, conosceva il concetto di narcisismo.

L’inverno porta il freddo: bisogna intirizzire; l’estate riporta la calura: bisogna avere i bollori; l’inclemenza del clima intacca la salute: bisogna ammalarsi: e in qualche luogo si parerà davanti a noi una belva e magari un uomo più pericoloso di tutte le belve … Non possiamo modificare questa realtà … È indispensabile che il nostro animo si adegui a questa legge, che la segua, che la obbedisca … Ottima cosa è tollerare quanto non potresti correggere …

Dicevamo che ne aveva ben donde, il povero filosofo: abbandonato, tradito, condannato all’esilio, perseguitato da una figura materna (Messalina), arrivò alla conclusione che “siamo soggetti a malattie dell’anima … perché non facciamo uso del nostro acume“. Ecco dunque che la ricerca dell’arte della felicità dei nostri best-sellers, e la ricerca della tranquillitas animi di Seneca, è pur sempre un tentativo di risolvere, per la via più semplice, col controllo mentale, il problema della inquietudine umana, per il convergere e il travolgere degli elementi incontrollabili. Per uno psichiatra esistono diversi tipi di felicità, ed esiste una psicopatologia della felicità: la felicità può essere considerata una malattia psichica, diciamo una endaimonopatia, distinguibile in varie categorie nosologiche, come la felicità maniacale, la felicità paranoide, la felicità isterica ed una serie di altri sottotipi. Che l’armonia di Seneca, che la sua arte di vivere fosse l’arte della negazione, è evidente dalla sua frase nell’esilio: anche di qui posso guardare il cielo. Mi pare che al centro di questa concezione ci fosse l’idea, antica questa, dell’uomo insaturo, dell’uomo incompleto: la personalità è inquieta perché non satura, ed è necessario un elemento complementare, saturante, che per Seneca è la ragione. In realtà, abbiamo visto, la ragione serve a negare, e l’aspetto negatorio sta nel considerarla una sorta di scalpello saturante che completa la struttura (proprio il contrario dello scalpello di Edelmann, che somiglia più a quello di Michelangelo, uno scalpello che toglie il superfluo).

Qualcosa che manca l’uomo lo ha certo, che sia la serotonina, che sia l’oggetto un tempo perduto come in Inibizione Sintomo e Angoscia, poco cambia: sembra che il destino dell’uomo, dei mammiferi forse, sia la depressione.

Forse in qual forma, in quale stato

che sia, dentro covile o cune,

è funesto a chi nasce il dì natale.

Il concetto di moderazione, che pare il modo privilegiato senechiano di controllo, ha l’aria di essere l’estremo tentativo di imporsi una terapia cognitivistica, diremmo oggi, laddove gli elementi profondi, biologici o conflittuali non devono assolutamente essere né accettati né conosciuti, pena la catastrofe. Questo Seneca-Nerone-Oreste non sembra possa accettarsi com’è, e non vuole che esista la propria sofferenza: oggi, è la tipica persona che rifiuterebbe sia farmaci che il lettino psicoanalitico, in nome di una forza della ragione e del “datti da fare“, ma rischierebbe il suicidio. Suicidio apparentemente esterno, ordinato da Nerone, non fosse che Nerone altro non è che la parte matricida di Seneca. Ancor oggi, di fronte al suicidio, uno dei modi più comuni è giustificarlo attribuendogli un Nerone, una causa esterna, dai problemi di una società ingrata, di lavoro, dallo sfratto, fino al kamikaze-terrorista.

L’atarassia, questa condizione beata, ha come strumento il logos, l’ordine mentale, la conseguenza delle idee, la ratio. Invece il cervello non è ordinato, ma disordinato, e quello che sembra ordine è in realtà una complessa risultante statistica: decisioni, successi, amori, odi, malattie, diagnosi, sono la via finale apparente e abbastanza casuale di un disordine di fondo (inibitori che inibiscono l’inibizione degli eccitatori, eccitatori che stimolano gli inibitori, ecc.).

Che la salute mentale sia armonia è l’illusione di Seneca, ma quest’illusione non può essere condivisa dal neurobiologo e neppure dallo psichiatra: l’illusione può essere coltivata forse da una psicopedagogia cognitivista. Noi condividiamo con Shakespeare, molto lontano da Seneca, che la vita mentale è in realtà squilibrio, e che nessuno, in realtà, riesce mai a convincere un altro con la forza della ragione. La vita è, seguendo Shakespeare, una recita.

Life is a walking shadow,

a poor player

that struts ard frets his hour upon the stage …

L’illusione della conoscenza coinvolge anche la diagnosi: una consolazione per tutti è quella, in fondo senechiana, “la mia malattia ha un nome“, l’idea che la ragione, la tassinomia, la classificazione, inquadri, regoli, spieghi, crei armonia.

La realtà, la colpa è omericamente lesta di piedi, e segue gli uomini dovunque vadano, senza regole: e checché ne dica Seneca, gli psichiatri sanno che le esperienze negative non temprano il carattere, ma lo fiaccano.

Il tentativo di Seneca, che apparentemente si richiama alla forza della mente, di negare la mente è commovente nella sua confusività e contraddittorietà: il rimorso ritorna, e la virtù, il coraggio, la prudenza, che devono controllare il corpo, sono essi stessi corpo.

Non penso che dubiterai che i sentimenti come l’ira, l’amore, la tristezza sono corpi …, se non dubiti che ci fanno cambiare espressione del volto, corrugare la fronte, arrossire, impallidire. E allora? Non credi che segni così manifesti possano essere provocati su un corpo solo da un corpo?

Se i sentimenti sono corpi, lo saranno anche i mali dell’anima, come l’avidità, la crudeltà, i vizi incalliti e incorreggibili; dunque, anche la malvagità, l’invidia, la superbia; dunque anche le virtù, prima di tutto perché sono contrarie a questi vizi, poi perché ti presenteranno gli stessi segni. O forse non vedi che vigore allo sguardo dia il coraggio? Che intensità la prudenza? Che durezza la serietà? Che remissività la dolcezza? Dunque sono corpi quei fattori che cambiano il colore e l’aspetto dei corpi e che esercitano su di essi il loro dominio. Ora, tutte le virtù che ho menzionato sono beni, e anche tutto quello che deriva da esse“.

Qui sì che Seneca è proprio un uomo moderno, con le sue cognizioni, le sue negazioni, e la sua contraddittorietà: così come è moderno quando tenta di dare a Dio un significato antropologico e culturale.

Argomentiamo che gli dei esistono anche perché in tutti è innata l’idea della divinità, e in nessun punto del mondo c’è un popolo così al di fuori delle leggi e dei costumi civili da non credere in qualche Dio“.

L’illusione stoica è bene espressa, con tutto lo stridore della negazione, nei Ricordi di Marco Aurelio:

se le acque ti sommergono, lascia che sommergano carne, fiato e tutto il resto, ma non potranno mai condurre al naufragio la mente.

Dunque la mente è immune dai naufragi: qualsiasi cosa accada, la mente può essere sempre tenuta in pugno. A dispetto immenso di ogni manuale di controllo mentale, anche se scritto da un imperatore che controlla tutto il mondo, non è così, purtroppo: la mente non si controlla con la mente.

Bibliografia

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Tacito. Annali. Bologna: Zanichelli 1968.

Nota alla bibliografia

Dato che l’esattezza filologica non era qui un problema, sono stati usati dei classici, in genere, non edizioni critiche, ma edizioni correnti possibilmente tradotte con testo a fronte.