Psicosi e dipendenze patologiche da sostanze: verso un approccio integrato multi-modale

Psychosis and Pathological drug dependence: towards an integrated, multi-modal approach

V. MANNA, M.T. DANIELE, M. PINTO

Dipartimento Salute Mentale, A.U.S.L. RM H, Albano Laziale, Roma

Key words: Psychotic Disorders • Psychiatric Comorbidity • Psycho-Pathological Continuum • Alcohol Addiction • Drug Dependence • Substances Abuse

Correspondence: Dr. Vincenzo Manna, Dipartimento Salute Mentale, C.S.M. H2, via Gallerie di Sotto 11, 00041 Albano Laziale, Roma, Italy.

Introduzione

Le dipendenze patologiche da sostanze e le psico-patologie ad esse correlate presentano, per loro natura, una connotazione d’intrinseca complessità. Esse derivano, infatti, dal convergere, nel singolo consumatore: degli specifici effetti farmaco-tossicologici delle sostanze d’abuso; della peculiare vulnerabilità psico-biologica del paziente; di numerosi e disparati fattori socio-ambientali, con effetti modulanti il comportamento d’abuso, ma anche l’insorgere e l’evolversi del quadro psico-patologico correlato.

Le dipendenze patologiche da sostanze sono state, storicamente, oggetto di studio di discipline scientifiche e culturali profondamente diverse, quali la neurobiologia, la farmacologia, la psichiatria, la psicologia, l’antropologia e la sociologia. Ciò ha posto le premesse per un conflitto di linguaggi, di rappresentazioni del fenomeno e di interpretazioni, che sicuramente non ha aiutato la comprensione delle problematiche cliniche, correlate all’uso di sostanze, né l’individuazione di efficaci approcci terapeutici. Va evidenziato, in proposito, come il sapere proprio della psichiatria, in particolare della psichiatria sociale, per sua natura, risulti l’unico in grado di contenere, nel proprio ambito, tanto gli aspetti neurobiologici che quelli psicologici e sociali, sottesi al problema alcol-tossicodipendenza ed alla correlata psico-patologia (1).

Attualmente, per “dipendenza patologica da sostanze” s’intende la condizione di subordinazione del benessere psicofisico, di un individuo, all’assunzione più o meno regolare di una sostanza esogena, con specifici effetti farmacologici, prevalentemente psicotropi, talora dannosi, per il sistema nervoso o l’organismo nel suo insieme. Tutte le problematiche cliniche, proprie delle dipendenze patologiche da sostanze, possono essere ricondotte a tre fattori principali: 1. la sostanza d’abuso; 2. l’individuo assuntore; 3. l’interazione complessa tra individuo e sostanza, in un determinato contesto socio-ambientale.

Abuso e dipendenza da alcol ed altre sostanze

Nella storia dell’umanità, l’alcol etilico rappresenta, probabilmente, la più antica e la più diffusa sostanza psicoattiva d’abuso. Nonostante la recente attenzione del Legislatore italiano sul tema (Legge …), i gravi problemi sanitari e psico-sociali connessi e conseguenti all’abuso alcolico non hanno avuto sufficiente attenzione, in ambito istituzionale, né adeguate risposte in ambito assistenziale, sino ad oggi, in Italia. Mentre, l’improvvisa diffusione, avvenuta negli anni Settanta ed Ottanta, dell’uso di sostanze stupefacenti e l’allarme sociale che n’è derivato ha portato alla strutturazione di servizi specifici, per il trattamento delle tossicodipendenze (Ser.T.) con il D.P.R. 309/90, scarso rilievo era dato, in normativa, all’alcoldipendenza. Negli ultimi anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) ha indicato nell’abuso di bevande alcoliche un problema prioritario di Sanità Pubblica, per i costi sociali che comporta, in quanto fattore di rischio: per gravi patologie organiche (epatopatie, cirrosi, etc.); per gravi psicopatologie della sfera affettiva e cognitiva (depressione, suicidio, delirium, demenza, etc.); per gravi disturbi del comportamento sociale e sessuale (aggressività e violenze, soprattutto nell’ambito della famiglia); per l’assenteismo sul lavoro ed i frequenti ricoveri ospedalieri, nonché per i numerosi e gravi incidenti stradali e sul lavoro, connessi all’abuso, anche solo occasionale, delle bevande alcoliche. Di recente, l’uso d’alcol si è diffuso tra gli adolescenti ed i giovani. L’O.M.S. ha segnalato l’abbassarsi dell’età dei primi abusi alcolici al di sotto dei 12-13 anni d’età, con una percentuale di bevitori all’età di circa 18 anni, quasi sovrapponibile a quella dell’età adulta, un’elevata incidenza di patologie traumatiche alcol-correlate, nella fascia d’età tra i 18 ed i 25 anni, talora associata ad infrazioni della legge, nonché l’aumento dell’incidenza dell’abuso contemporaneo o concomitante d’alcolici ed altre droghe, nella cosiddetta poli-tossicodipendenza.

La dipendenza patologica da alcol e sostanze, pur avendo basi neuro-biologiche ed aspetti di predisposizione geneticamente determinata, si correla, nel tempo, a disturbi della sfera psico-affettiva, mentale e sociale tali da richiedere interventi terapeutici specifici, mirati e coordinati.

Negli ultimi tempi, con frequenza crescente, si è evidenziato l’associarsi dell’abuso d’alcol ad altre sostanze, soprattutto nella popolazione giovanile. L’alcol si colloca, tra i tossicodipendenti afferenti ad un servizio pubblico ad alta utenza, tra le droghe d’abuso secondario, dopo i cannabinoidi, precedendo di poco l’uso di cocaina, ma, non infrequentemente, risulta essere o diventare nel tempo sostanza d’abuso primario (2). La condizione di poli-tossicodipendenza è diventata, nel corso degli ultimi anni, sempre più frequente. In tale contesto clinico, per molti operatori dei servizi pubblici è diventato evidente che l’approccio terapeutico non può essere mirato, semplicisticamente, all’astinenza dall’uso di una sostanza, ma va orientato, soprattutto, alla persona problematica. I “programmi terapeutici e socio-riabilitativi” demandati dalle vigenti Leggi (art. 120 D.P.R. 309/90) all’attività istituzionale dei servizi territoriali vanno, perciò, orientati più alla cura della persona e delle sue problematiche bio-psico-sociali, che al solo abuso di sostanze. Infatti, spesso, l’abuso di sostanze psicoattive e d’alcol è solo un aspetto esteriore e sintomatico di un più complesso e profondo disagio psico-sociale. A conferma di ciò, alta risulta la comorbilità psichiatrica tra gli utenti dei servizi per l’alcolismo e le tossicodipendenze. L’abuso di sostanze ed alcol, spesso, risulta essere l’epifenomeno di una complessa costellazione di fattori predisponenti e concausali che possono avere, di volta in volta, maggiore rilevanza sul piano socio-relazionale, psicopatologico e/o clinico-medico. Risulta, perciò, opportuno e necessario un approccio in cui tali fattori sociali, psichici e somatici vengano contestualmente e contemporaneamente valutati e trattati.

Negli ultimi e più recenti anni, l’attenzione di molti clinici e ricercatori è stata focalizzata sulla comorbilità psichiatrica presente tra i pazienti con dipendenza patologica da sostanze, nell’ipotesi che tali dipendenze potessero rappresentare una sorta di paradossale e problematica auto-medicazione, ma anche l’espressione di una specifica vulnerabilità psico-biologica.

Abuso di sostanze e psico-patologia concomitante

Tra disturbi mentali e uso di sostanze possono intercorrere, logicamente, tre diversi tipi di associazione:

1. i disturbi mentali possono causare l’assunzione di sostanze;

2. i disturbi mentali possono conseguire all’uso di sostanze;

3. tra disturbi mentali ed uso di sostanze può esistere solo una associazione casuale; così come è stato evidenziato da Edwards et al. (3) in un lavoro per l’O.M.S.

L’assunto che una sostanza induca, di per sé, un quadro psicopatologico va sempre criticamente verificato. Nell’associazione clinica ed epidemiologica tra uso di sostanze e quadro clinico psicopatologico possono sussistere, infatti, diversi rapporti eziopatogenetici:

– una sostanza può indurre una sindrome psicopatologica ex novo;

– una sostanza può evidenziare un disturbo psicopatologico latente;

– una sostanza può causare la ricaduta in un preesistente disturbo mentale;

– il quadro psicopatologico può indurre all’assunzione più o meno frequente della sostanza;

– la relazione tra quadro psicopatologico ed abuso di sostanze è spurio, cioè un quadro psicopatologico precede l’uso di sostanze, ma, talora, subisce per effetto delle sostanze un’evidente patomorfosi;

– non vi è relazione tra quadro psichiatrico ed assunzione di sostanze (4)-(6).

Per passare dal livello epidemiologico d’associazione al livello interpretativo o causale, inoltre, devono essere soddisfatti i seguenti requisiti logici:

– forza dell’associazione: il rischio relativo deve essere sufficientemente elevato;

– specificità dell’associazione: il rischio relativo deve riguardare quadri clinici ben definiti e non equivoci;

– temporalità dell’associazione: il fattore causa deve precedere il fattore effetto;

– stabilità dell’associazione: l’associazione deve essere verificata da osservatori diversi in ambienti, luoghi e tempi differenti;

– plausibilità e coerenza: l’insieme delle osservazioni non deve essere incoerente e contraddittorio;

– evidenza sperimentale: qualora un disegno sperimentale in quest’ambito sia eticamente accettabile;

– gradiente biologico dell’associazione: identificazione di una relazione dose-risposta, qualora esistente.

In accordo con le definizioni nosografiche più recenti (DSM-IV) si può parlare di comorbilità, in un soggetto, quando siano soddisfatti i criteri diagnostici per più di un disturbo psichiatrico, contemporaneamente. Lo studio Epidemiological Catchment Area (E.C.A.) condotto, nella prima metà degli anni ’80, su 20.291 soggetti, appartenenti alla popolazione generale, ha fornito importanti termini quantitativi di riferimento (7). In questo studio, tra tutti i soggetti che avevano avuto nella loro vita una diagnosi di disturbo mentale, ben il 14,7% aveva in anamnesi un disturbo da abuso-dipendenza da sostanze, mentre il 28,9% riferiva un disturbo da abuso-dipendenza da etanolo. In altri termini, per coloro che avevano una storia d’abuso di sostanze, il rischio di presentare disturbi mentali risultava essere di circa quattro volte superiore a quello della popolazione generale. All’interno dei sottogruppi diagnostici sono stati evidenziati tassi di comorbilità con disturbi da abuso di sostanze nel 27,5% per la schizofrenia, nel 19,4% per i disturbi affettivi, nonché in circa il 42% per i disturbi di personalità. Lo studio E.C.A. soffre, purtroppo, di alcuni limiti metodologici, in rapporto all’utilizzo d’interviste strutturate, che raccolgono informazioni retrospettive. Alcuni fattori confondenti, legati all’affidabilità mnesica, circa la diagnosi psichiatrica e circa l’uso dichiarato di sostanze, potrebbero aver agito sensibilmente sui dati complessivi raccolti. I dati, inoltre, non sono stati trattati per evidenziare se l’uso di sostanze precedeva o seguiva cronologicamente la diagnosi psichiatrica. Non sempre esistono, inoltre, dati disponibili circa il tipo specifico di sostanza d’abuso (8) (9). Purtroppo, gli studi in materia sono condotti, quasi tutti, in modo retrospettivo e con metodologie non scevre da effetti confondenti, legati a diversi “bias” di rilevazione dei dati, se non alla selezione stessa del campione esaminato.

Disturbi dello spettro schizofrenico

Numerosi studi clinici hanno evidenziato:

– la presenza di disturbi da uso di sostanze in pazienti psicotici;

– disturbi mentali gravi, dello spettro schizofrenico, in pazienti tossicodipendenti.

Secondo il DSM IV, la diagnosi differenziale tra disturbi psicotici primitivi e disturbi psicotici indotti da sostanze va posta sulla base dei seguenti dati clinici:

– comparsa di sintomi psicotici prima dell’inizio dell’uso di sostanze;

– persistenza dei sintomi psicotici dopo la cessazione dell’assunzione delle sostanze d’abuso;

– intensità dei sintomi o caratteristiche sintomatologiche incongrue, riguardo a quanto prevedibile, in rapporto all’uso di specifiche sostanze psicotrope;

– anamnesi positiva per episodi morbosi non correlati all’uso di sostanze.

Possono costituire ulteriori dati clinici dirimenti: l’età di insorgenza; le modalità di decorso dei sintomi; le caratteristiche sindromiche specifiche.

La confrontabilità dei dati riportati dagli studi sull’argomento risulta, inoltre, condizionata da diversi fattori metodologici:

– il disegno strutturale dello studio (prospettico, retrospettivo o trasversale);

– la selezione del campione esaminato per parametri demografici o clinici;

– le diverse definizioni di abuso e dipendenza adottate;

– gli strumenti di diagnosi psico-patologica adottati, nonché il sistema nosografico generale di riferimento;

– la condizione clinica al momento dello studio (astinenza protratta, astinenza recente, intossicazione in atto, etc.).

Uso di sostanze in pazienti psicotici

Alcuni Autori hanno sostenuto che il pattern di abuso negli schizofrenici differisce sia in senso qualitativo sia in senso quantitativo, da quello degli altri tossicodipendenti. Infatti, un incremento di prevalenza dell’abuso di sostanze è stato evidenziato, negli ultimi anni, tra i pazienti psicotici. Tale rilievo potrebbe essere solo apparente, in rapporto alla maggiore attenzione riservata al problema. Un ruolo reale, in tale direzione, potrebbe essere stato svolto anche dalla de-istituzionalizzazione psichiatrica, con facilitato accesso alle sostanze, dei soggetti psicotici non più assistiti in ambito residenziale protetto, per un fenomeno di deriva sociale passiva, verso ambienti ad elevata diffusione di droga (10). L’abuso di sostanze psicotrope, da parte di soggetti schizofrenici, è stato interpretato da alcuni Autori come una sorta di automedicazione dei sintomi positivi (con sostanze ad effetto sedativo) o dei sintomi negativi (con sostanze ad effetto stimolante), nonché della condizione di anedonia secondaria all’uso cronico di neurolettici. La familiarità per disturbi dell’umore e/o da uso di sostanze potrebbe svolgere un ruolo nel rendere più vulnerabili alcuni schizofrenici a forme concomitanti di tossicodipendenza (11). Nell’esame dei campioni clinici, il dato che gli schizofrenici abusino prevalentemente di cannabis, stimolanti ed allucinogeni, nonché di caffeina e nicotina, rispetto ad altre sostanze ad effetto più sedativo, come gli oppiacei, è un dato relativamente consolidato (12) (13). L’esistenza di scelte privilegiate e specifiche, per determinate sostanze, riferita da alcuni studiosi, nell’ottica interpretativa dell’uso di sostanze come “autoterapia” non sempre è confermata da osservazioni epidemiologiche più rappresentative, che, al contrario, sembrerebbero supportare una ipotesi interpretativa di “esposizione passiva” e casuale alle sostanze, più diffusamente reperibili sul mercato, con effetti tutt’altro che auto-curativi (11). Lo sviluppo di un disturbo da abuso di sostanze, in un soggetto psicotico, comporta una serie di conseguenze negative, quali: peggioramento della sintomatologia; aumento delle ricadute; effetti negativi da interazione farmacologica; perdita degli effetti terapeutici dei neurolettici; aumento della probabilità di sviluppare discinesie tardive; peggioramento delle capacità di interazione sociale, lavorativa ed affettiva; aumento dei comportamenti violenti auto ed eterodiretti; decadimento delle funzioni cognitive; grave degrado sociale (10). Secondo altri Autori, i disturbi da uso di sostanze possono mascherare i sintomi psicotici, interferendo in fase diagnostica e terapeutica sui risultati dei trattamenti, senza influire sostanzialmente sulla evoluzione clinica della psico-patologia. Ciononostante, l’esacerbazione dei sintomi può peggiorare la prognosi, incrementando anche il rischio di mortalità per l’incremento del tasso di suicidi o di condotte a rischio (14). Risulta difficile stabilire se l’uso di sostanze e la schizofrenia vadano considerati fattori di rischio suicidario indipendenti oppure, se l’uso di sostanze possa favorire l’ideazione o l’attuazione di un gesto autolesivo, in schizofrenici tossicodipendenti vulnerabili (11). L’abuso di psico-stimolanti si associa ad un aumento delle recidive, anche in seguito ad assunzioni quantitativamente limitate di sostanze, nonché ad un aumento dei ricoveri, ad una riduzione degli effetti terapeutici dei neurolettici, ad un peggioramento complessivo della “compliance” terapeutica e della prognosi. Invece, l’assunzione di oppiacei non solo non induce un peggioramento sintomatologico del quadro psicotico, ma sembra avere effetti terapeutici nel controllo della sintomatologia positiva della schizofrenia. La percentuale di pazienti affetti da schizofrenia che presentano dipendenza da nicotina varia tra il 50% ed il 90% con frequenza di gran lunga superiore a quella osservata nella popolazione generale ed in pazienti affetti da altri quadri psico-patologici. Da un punto di vista neuro-biologico, la nicotina risulta aumentare i livelli di tirosina-idrossilasi, influenzando direttamente la liberazione di dopamina e stimolando i recettori nicotinici posti sulle terminazioni pre-sinaptiche dei neuroni dopaminergici, a livello dell’area ventrale del tegmento e del nucleo accumbens. Tali effetti stimolerebbero le aree coinvolte direttamente nei circuiti neuronali di modulazione della gratificazione e del piacere. La nicotina risulta essere, inoltre, efficace nell’attivazione del tono colinergico centrale, nonché nella stimolazione della corteccia prefrontale, ipoattiva nei soggetti schizofrenici (15) (16).

Disturbi psicotici indotti in tossicodipendenti

Tutte le principali sostanze d’abuso sono state chiamate in causa nello sviluppo di un disturbo psicotico indotto. Un disturbo psicotico indotto, secondo il DSM-IV, è caratterizzato da:

– rilevanti allucinazioni o deliri;

– sintomi sviluppati durante o entro un mese dall’intossicazione o dall’astinenza da sostanze;

– uso del farmaco eziologicamente correlato al disturbo psico-patologico indotto;

– disturbo non meglio giustificato da un disturbo psicotico primitivo;

– disturbo non esclusivamente presente nel corso di un delirium.

Dal punto di vista strettamente sintomatologico le psicosi tossiche possono non distinguersi dai quadri psicotici primitivi. Inoltre, alcune osservazioni cliniche tendono a ridimensionare la specificità sindromica dei quadri psicotici indotti da determinate sostanze.

Gli allucinogeni, includono farmaci eterogenei per origine e struttura chimica, che, però, condividono effetti clinici e meccanismo d’azione. Tali sostanze inducono effetti psicotici acuti, psicosi protratte e disturbi percettivi post-allucinogeni (17). Circa il 50% dei soggetti presenta manifestazioni psicotiche alla prima assunzione. Manifestazioni psicotiche protratte sono state descritte in circa lo 0,1% dei soggetti trattati sperimentalmente con dietilamide dell’acido lisergico (LSD). Il disturbo percettivo post-allucinatorio si manifesta con ricorrenti distorsioni della percezione sensoriale con “flash back” avulsi dal campo percettivo, che insorgono in oltre la metà dei soggetti esposti e che possono persistere, a distanza di anni, dall’ultima esposizione alla sostanza. L’insorgere di disturbi psichici a distanza di anni dall’esposizione alle sostanze deriverebbe, secondo alcuni studi, da effetti neuro-biologici persistenti della dietilamide dell’acido lisergico, che causa spopolamento dei piccoli interneuroni inibitori corticali GABAergici, che ricevono afferenze serotoninergiche (17)-(19).

I consumatori di derivati della cannabis presentano, di frequente, disturbi transitori dell’ideazione a sfondo paranoide. Thornicroft (4) distingue:

– sintomi psicotici isolati e brevi come idee prevalenti di riferimento, derealizzazione, depersonalizzazione, allucinazioni, etc.;

– sindromi mentali organiche, con alterazioni cognitive e disturbi di coscienza, includenti delirium e demenza, con aspetti amotivazionali ed anaffettivi;

– psicosi funzionali indotte senza alterazioni di coscienza, sovrapponibili ad episodi sintomatici di schizofrenia paranoide acuta.

Uno studio di coorte su militari di leva ha dimostrato che, rimosse le variabili confondenti, i forti consumatori di cannabis presentano un rischio tre volte superiore, rispetto ai controlli, per lo sviluppo di disturbi dello spettro schizofrenico (4). Lo sviluppo di un disturbo schizofrenico, in seguito all’assunzione di derivati della cannabis, sembra correlato alla familiarità per i disturbi psicotici e, quindi, ad una predisposizione genetica (20).

La fenciclidina (PCP) e le altre sostanze aril-ciclo-esilaminiche risultano agire su recettori specifici inducendo sintomi neurologici (nistagmo) in quasi tutti gli assuntori e sintomi psicotici, in meno del 10% degli abusatori, con sintomatologia clinica, che può perdurare per settimane dopo la cessazione dell’uso di tali sostanze.

Gli psico-stimolanti, come amfetamine e cocaina, possono indurre disturbi d’ansia con attacchi di panico e disturbi psicotici, a forte impronta paranoide. L’effetto psicotogeno non risulta essere dose-relato, anzi, sembra esistere un fenomeno di sensibilizzazione, per cui, dopo assunzioni reiterate i disturbi deliranti o dispercettivi si presentano prima nel tempo, anche dopo dosi più basse di sostanza. Alcuni studiosi hanno postulato un effetto di slatentizzazione dei quadri psicotici, in soggetti predisposti, dopo l’uso di psico-stimolanti. Gli studi sulla suscettibilità allo sviluppo di psicosi, in seguito all’uso di allucinogeni o stimolanti, hanno evidenziato una sensibile variabilità di risposta tra individui differenti, ma anche a carico dello stesso individuo in tempi ed in condizioni differenti (13)-(17). L’assunzione cronica di amfetaminici è in grado di indurre una psicosi paranoide, che può perdurare ben oltre l’assunzione della sostanza oppure recidivare senza assunzione della sostanza, in rapporto a fattori di scatenamento aspecifici, come lo stress (21) (22). L’uso di stimolanti risulta, inoltre, in grado di precipitare la comparsa di una schizofrenia, in soggetti predisposti e vulnerabili, abbassandone l’età di esordio (11). Evidenze neuro-biologiche suggeriscono l’esistenza di una base organica delle manifestazioni psicotiche protratte o recidivanti, in assenza di una nuova esposizione alle sostanze, che si manifestano nei soggetti, che hanno assunto allucinogeni o psico-stimolanti. La metamfetamina induce, per esempio, alterazioni permanenti a carico dei sistemi di trasporto intraneuronali delle catecolamine (18) (19) (21)-(23).

Psicosi e dipendenze tra vulnerabilità ed autoterapia

Nello studio epidemiologico, condotto negli USA dal National Institute of Mental Health (7) è stato evidenziato che i soggetti con diagnosi “lifetime” di schizofrenia o di disturbo schizofreniforme presentavano, in comorbilità, una diagnosi di dipendenza da sostanze in circa il 47% dei casi, con una percentuale maggiore a carico dell’alcol (33,7%) e minore per tutte le altre sostanze d’abuso (13,3%). Il rischio di incorrere in un disturbo da abuso di sostanze risulta nettamente più alto per i soggetti con disturbo psicotico rispetto alla popolazione generale (24) (25). La prevalenza per abuso/dipendenza da sostanze nella popolazione generale, infatti, è compresa tra il 15 e 18%, mentre nella popolazione con disturbi psichiatrici risulta stimabile tra il 19 ed il 30% (26) (27). Alcune osservazioni hanno evidenziato, tra i soggetti psichiatrici ricoverati, una percentuale del 12% di pazienti con contemporanea presenza di disturbi mentali e abuso/dipendenza da sostanze (10) (28) (29). All’interno di questo gruppo di pazienti con “doppia diagnosi”, circa il 55% presenta l’abuso/dipendenza da sostanze come diagnosi primaria, mentre il restante 45% sarebbe affetto da una condizione psico-patologica, che precedeva l’uso di sostanze. I pazienti psichiatrici con abuso/dipendenza da sostanze, presentano, inoltre:

– degenze più frequenti e più lunghe presso reparti ospedalieri non specifici;

– interruzioni della condizione di ricovero, contro il parere dei sanitari, più frequenti;

– tendenza significativamente minore ad essere indirizzati e trasferiti verso le strutture di cura più idonee, per la loro condizione psico-patologica (10) (28) (29).

I pazienti, in cui l’abuso di sostanze precede l’insorgere della psico-patologia, hanno mediamente un’età più bassa, rispetto ai pazienti in cui la psico-patologia precede l’abuso di sostanze, mentre omogenea sembra risultare, in entrambi, l’aggregazione per sesso (65% maschi). Questi dati, derivati da studi eseguiti con metodologie diverse e strumenti di rilevazione non omogenei, dovrebbero essere considerati solo indicativi di una condizione probabilmente sottostimata, per la riluttanza, che molti intervistati oppongono, quando si investiga l’argomento abuso di sostanze. L’utilizzo di più sofisticate metodologie di indagine risulta non sempre possibile ed agevole (30)-(33). La ricerca di dati epidemiologici attendibili, in questo ambito, nasce dalla necessità non solo di definire la reale entità del fenomeno, ma, soprattutto, dal bisogno di orientare adeguatamente, a fini diagnostici e terapeutici, gli interventi, a breve e lungo termine (34)-(37). Tutti gli Autori che hanno affrontato questa problematica concordano, infatti, sulla necessità di utilizzare interventi terapeutici, specificamente strutturati, per questo tipo di pazienti.

Alcune ricerche hanno ipotizzato l’esistenza di uno specifico tropismo tra determinati disturbi psichiatrici ed assunzione di particolari sostanze d’abuso. In tale prospettiva, i pazienti affetti da specifici quadri patologici assumerebbero più frequentemente e per maggior tempo specifiche sostanze. Dati recenti hanno evidenziato, però, che le sostanze più ricercate da soggetti con diagnosi di schizofrenia sarebbero amfetamine, cocaina, cannabinoidi, allucinogeni ed inalanti, paradossalmente, cioè, sostanze in grado di indurre una sintomatologia clinica di tipo psicotico. Altre osservazioni non hanno rilevato, invece, differenze in termini di selezione delle sostanze e/o durata della loro assunzione, tra soggetti con disturbi psico-patologici diversi (31) (38)-(41).

La condizione psico-patologica di base, precedente l’uso di sostanze, risulta essere un fattore prognostico negativo, tanto nel trattamento della dipendenza, quanto nel trattamento della sintomatologia psicotica. Nello studio della N.I.H.M., già citato, l’assunzione di sostanze, prevalentemente alcol e cannabinoidi, da parte di soggetti affetti da una patologia psichiatrica, viene segnalata come un indicatore negativo sul piano prognostico, per il decorso e per l’insorgere di recidive, una volta raggiunto un buon compenso psico-patologico, rispetto alla popolazione generale (40)-(51).

I dati presenti in letteratura non sono del tutto concordi, pur tuttavia, gli aspetti clinici più ampiamente segnalati nei soggetti con problematiche psichiatriche e contemporaneo abuso/dipendenza da sostanze sono i seguenti:

– maggiore rischio suicidario (10) (30) (52) (53);

– maggiore ricorso ai ricoveri (54) (55);

– riduzione della compliance terapeutica, in particolare, di quella farmacologica (43) (56)-(60);

– difficoltà di integrazione degli interventi clinici, per il sovrapporsi di una “presa in carico” da parte di servizi diversi (36) (37) (41) (61)-(63);

– incremento del “carico stressante” per la famiglia, con aumento delle risposte inadeguate, nel paradigma interpretativo della Emotività Espressa (64) (65);

– rischio potenziale di contagio HIV sino a 4 volte superiore ai gruppi di controllo, in rapporto a comportamenti sessuali disordinati, promiscui, talora omosessuali, quasi sempre effettuati in assenza di qualsiasi precauzione, spesso in contesti ambientali incongrui ed a rischio (luoghi pubblici, partners occasionali, etc.) (66)-(70);

– peggioramento dello stigma sociale negativo, legato tanto alla condizione di malato di mente quanto alla condizione di tossicodipendente, con le inevitabili ulteriori difficoltà incontrate nel reinserimento sociale e lavorativo (71)-(74);

– tendenziale cronicizzazione del quadro clinico con fenomeni di “deriva sociale”, frequentazione di gruppi sociali degradati e para-delinquenziali, con stili comportamentali, più o meno condivisi nel gruppo, spesso antisociali ed ulteriormente a rischio (75) (76).

Le interpretazioni etio-patogenetiche avanzate negli ultimi anni sulla comorbilità psichiatrica delle dipendenze patologiche, soprattutto per quanto attiene alle psicosi, tendono a utilizzare prevalentemente due modelli:

1. il modello della “vulnerabilità” che ipotizza come l’impiego di sostanze possa slatentizzare la patologia psichiatrica o faciliti la sua espressione sintomatologica in soggetti predisposti;

2. il modello della “autoterapia” che ipotizza l’uso di sostanze come una forma di paradossale ed incongrua auto-medicazione di disturbi psichici pre-esistenti, talora non diagnosticati e non trattati.

Il modello della “vulnerabilità” viene invocato, soprattutto, nei pazienti più giovani, con esordio più precoce del disturbo psicotico, nonché nei soggetti con un migliore adattamento pre-morboso (14) (77)-(81). In realtà, il dato del miglior adattamento pre-morboso, che si riscontrerebbe nei soggetti con “doppia diagnosi”, non sempre si associa alla rilevazione di un più precoce esordio dei sintomi. Inoltre, tale migliore adattamento pre-morboso, in soggetti che secondariamente sviluppano un disturbo psicotico, sembra correlato prevalentemente all’abuso di alcolici e/o marijuana, sostanze il cui uso viene sottostimato sia nella popolazione generale sia nella sottopopolazione di soggetti schizofrenici (10). Risulta evidente, perciò, l’opportunità di prevedere l’esecuzione routinaria di adeguati esami tossicologici, in fase diagnostica, per tutti i soggetti con sintomatologia psicotica. È stato, infatti, ipotizzato che gli assuntori di sostanze, nell’ambito della popolazione con disturbo schizofrenico, risultino presentare caratteristiche cliniche specifiche, una migliore risposta al trattamento, ma anche un peggior esito a distanza, per la tendenza alle recidive, facilitate o indotte dall’uso di sostanze. In uno studio longitudinale della durata di 18 anni, condotto in Svezia, su militari di leva, in media ventenni, è stato ricercato il rapporto di associazione tra uso di marijuana e successivo sviluppo di schizofrenia. Tale correlazione, secondo gli Autori, è risultata significativa, con un rischio di insorgenza del disturbo psicotico proporzionale al consumo di droga (82). L’esordio della patologia tra i consumatori risultava spesso improvviso, al contrario di quanto era verificabile tra i soggetti non consumatori di cannabis. Altri Autori hanno però negato un rapporto causa-effetto tra uso di cannabinoidi ed insorgenza di una sintomatologia psicotica, interpretando l’uso di cannabinoidi come effetto e non causa di una pre-esistente vulnerabilità, sul piano psico-sociale (83)-(86).

Un secondo modello interpretativo enfatizza l’effetto curativo, su specifici sintomi psico-patologici, dell’uso di sostanze, interpretato alla stregua di problematica e paradossale “automedicazione” (26) (39) (87) (88). Alcuni studi hanno focalizzato, in questa prospettiva, anche la ricerca di specificità tra profili psico-patologici ed impiego di specifiche sostanze. È stato rilevato che l’uso di cocaina ed alcol ricorre con una certa frequenza tra i soggetti con sintomatologia depressiva, mentre gli psicostimolanti vengono utilizzati, soprattutto, da soggetti con sintomi negativi, che cercano, con l’uso di sostanze di alleviarli (26) (38) (39) (88)-(92). Alcune osservazioni non confermano che la ricerca e l’assunzione di specifiche sostanze avvenga in relazione alla presenza di specifiche condizioni psicopatologiche. Al contrario, è stato ipotizzato che l’uso di una determinata sostanza venga perseguito per esperire il piacere e l’euforia connessa al suo uso, a prescindere dalla psicopatologia di base (93) (94). Altre osservazioni cliniche hanno evidenziato che solo i pazienti con migliori abilità complessive e miglior funzionamento psico-sociale, quindi, con minore gravità del quadro psicopatologico, sono in grado di esibire comportamenti congrui e motivazione sufficiente per procurarsi la droga e, magari, per selezionarla tra le altre (14) (51) (75). In questa prospettiva, i soggetti con sintomatologia psicotica, prevalentemente negativa, risulterebbero meno capaci di esibire questi comportamenti, per la mancanza di una sufficiente motivazione e per la significativa presenza di anedonia, abulia, astenia ed altri aspetti comportamentali di sostanziale anergia. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che, l’uso di sostanze potrebbe rispondere, nei soggetti psicotici, in trattamento con neurolettici, al bisogno di “automedicare” gli effetti collaterali propri di questi farmaci, soprattutto, in caso di trattamenti farmacologici a dosaggi elevati e per lungo tempo (94) (95). È stato, inoltre, segnalato come fattore predisponente all’insorgere di una psicopatologia correlata all’uso di sostanze, il “carico” familiare, inteso come insieme dei fattori patoplastici genetici e/o ambientali. Una più alta incidenza di patologie psichiatriche è evidenziabile nelle famiglie dei pazienti con comorbilità ed abuso di sostanze, soprattutto alcol. I fattori ambientali, nell’ambito familiare, che faciliterebbero l’insorgere di una patologia psichiatrica, correlata all’abuso di sostanze, sarebbero, inoltre, correlati all’apprendimento di risposte-tipo disfunzionali ad eventi stressanti o a situazioni ansiogene. Tali modelli di comportamento disfunzionale, in genere esibiti da genitori o figure di riferimento, in ambito familiare, sarebbero spesso caratterizzati dall’assunzione di sostanze e/o alcolici, in condizioni di stress soggettivo (14) (56) (96)-(99).

Correlati neurobiologici delle dipendenze patologiche

Il “craving” (appetizione compulsiva) sembra essere il comune denominatore, l’essenza stessa, delle dipendenze patologiche da sostanze. Il “craving” viene associato ad un ampio spettro di condizioni psicopatologiche, che includono i disturbi mentali organici, i disturbi dell’umore (depressione stagionale), i disturbi dell’alimentazione (bulimia), i disturbi del controllo degli impulsi (gambling patologico, etc.). L’ambito di ricerca, in cui è maggiormente studiato è, tuttavia, rappresentato dalla clinica delle dipendenze patologiche da sostanze. Il “craving” da sostanze rappresenta il desiderio intenso ed irrefrenabile di assumere una sostanza psicotropa, i cui effetti sono stati già sperimentati, in precedenza. Questo desiderio può assumere le caratteristiche dell’impellenza e della compulsività, soprattutto in presenza di specifici e particolari stimoli e rinforzi, interni o esterni.

L’O.M.S., nel 1955, propose di non usare il termine “craving”, in ambito scientifico, in quanto fonte di confusione, perché comprensivo di stati fisici, emotivi, cognitivi e comportamentali. Probabilmente, la caratteristica principale del “craving” è rappresentata proprio dal sommarsi di sintomi somatici, psichici e comportamentali (100).

Il “craving” da sostanze si caratterizza per la presenza di alcuni aspetti fondamentali:

– forte attrazione compulsiva verso situazioni, che permettono l’assunzione di sostanze;

– presenza di una complessa e variabile costellazione di sintomi somatici e neuro-vegetativi;

– presenza di una complessa e variabile costellazione di sintomi emotivi (ansietà, etc.);

– presenza di una complessa e variabile costellazione di sintomi cognitivi (ideazione compulsiva, etc.);

– attivazione comportamentale per la ricerca delle sostanze e per la loro assunzione;

– incapacità ad interrompere quest’attivazione comportamentale, anche in presenza di forti ostacoli sociali o legali (comportamenti criminali) e/o di pericoli per la propria salute e per la propria integrità fisica;

– comportamenti d’evitamento fobico delle condizioni d’astinenza.

È possibile, perciò, distinguere tra gli effetti motivazionali delle dipendenze patologiche, una componente tesa a facilitare l’approccio ed il contatto con lo stimolo ambientale gratificante (sostanza) ed una componente tesa ad allontanare condizioni spiacevoli o dolorose (astinenza come stimolo avversivo).

L’assunzione di cibo, i comportamenti sessuali e materno-infantili sono diretti verso obiettivi essenziali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie. La selezione naturale ha assicurato la sopravvivenza degli organismi che esibivano questi comportamenti associati a potenti proprietà di ricompensa. Gli stimoli ed i comportamenti, naturalmente gratificanti, presentano due componenti distinguibili: una componente preparatoria incentivante ed una componente consumatoria, propriamente compensante. L’aspetto incentivante degli stimoli naturalmente gratificanti è dato dalle loro proprietà sensoriali specifiche (odore, colore, forma e temperatura) che li identificano (seno materno). La componente consumatoria comprende, invece, gli effetti fisiologici e metabolici del contatto e dell’interazione con lo stimolo compensante. Ognuna di queste componenti è piacevole ed elicita uno stato affettivo positivo (gratificazione), ma entrambe risultano necessarie, agli stimoli naturali, per essere del tutto rinforzanti. La fase incentivante e preparatoria di tali stimoli si associa a cambiamenti ergotropi, con aumento del livello di vigilanza, attivazione motoria, aumento del tono simpatico, catabolismo. La fase consumatoria si associa a cambiamenti trofotropi con sedazione, anabolismo ed aumento del tono parasimpatico (18) (19) (101).

Il tono dopaminergico mesolimbico sembra svolgere un importante ruolo in questo processo. Infatti, risulta direttamente coinvolto nell’aumento del livello di vigilanza e d’attivazione motoria necessari al riconoscimento sensoriale ed all’approccio locomotorio allo stimolo naturalmente gratificante. Il tono dopaminergico risulta correlato, inoltre, anche alle capacità d’apprendimento operante, cioè, al riconoscimento ed all’approccio agli stimoli neutri associati (incentivi secondari) a quelli naturalmente gratificanti (incentivi primari). Il tono dopaminergico risulta meno direttamente coinvolto alla componente consumatoria di tali comportamenti, che, invece, sembra avere correlati neurobiologici, prevalentemente serotoninergici ed endorfinergici. In questa prospettiva, le droghe d’abuso possono essere considerate come surrogati degli stimoli gratificanti naturali e la dipendenza patologica da esse, può essere interpretata, come una sorta di impropria auto-medicazione. Gli psicostimolanti agiscono prevalentemente sul tono dopaminergico, mimando la componente incentivante ed attivante sul piano comportamentale, della gratificazione indotta dagli stimoli naturali. I sedativi narcotici agiscono prevalentemente mimando la componente consumatoria e trofotropa della gratificazione (18) (19) (101).

Una condizione soggettiva particolare, in cui componenti ambientali e costituzionali, in cui aspetti di “tratto psicopatologico” ed aspetti di “stato psicopatologico” si sommano e s’intersecano, in modo complesso, potrebbe indurre il paziente, prima all’uso di sostanze, quindi, al loro abuso, e, successivamente, ad una condizione di dipendenza propriamente detta.

Alcuni studi hanno dimostrato l’utilità clinica dei dopamino-agonisti nel trattamento farmacologico del “craving” da cocaina e psicostimolanti, così come d’alcuni farmaci serotoninergici, nel trattamento del “craving” da alcol (100).

In questo campo di studio, poco ancora è stato sufficientemente approfondito, a livello di ricerca scientifica, nei rapporti tra tono dopaminergico, dipendenze e psicosi. Particolarmente complesso risulta, infatti, in ambito clinico, lo studio dei correlati neuro-biologici, soprattutto del tono dopaminergico centrale, che sembra rivestire una specifica importanza nella patogenesi tanto delle psicosi quanto delle dipendenze patologiche.

Approccio diagnostico dimensionalistico

L’avvento della moderna psicofarmacologia è sembrato giustificare lo sforzo di sistematica classificazione diagnostico-nosografica delle malattie mentali prodotto da Kraepelin (102). Per alcuni decenni, la clinica ha evidenziato l’efficacia di specifiche classi di farmaci (ansiolitici, antipsicotici, antidepressivi, etc.) su specifiche categorie diagnostiche (ansia, psicosi, depressione), confermando, apparentemente, che tali categorie diagnostiche avevano una loro validità reale e non erano semplici astrazioni razionali o ipersemplificazioni del reale. Il formidabile incremento delle conoscenze scientifiche in campo neurobiologico, degli ultimi decenni, ha messo profondamente in crisi, forse in modo irreversibile, certi concetti nosografici e, contemporaneamente, quello di specificità, di varie classi di psicofarmaci, nel trattamento di determinate classiche “categorie psicopatologiche”. Numerosi studi neuromorfologici, neurofisiologici, neuro-endocrinologici e d’andamento intergenerazionale delle malattie mentali sembrano deporre per una continuità patologica tra i diversi disturbi dello spettro schizofrenico (103). Altrettanto si potrebbe dire per i disturbi d’ansia ed i disturbi dell’umore, che potrebbero essere interpretati come entità nosografiche distinte o come un fenomeno dimensionale unico (104). Attualmente, perciò, la diagnosi in campo psichiatrico ha un valore di convenzione condivisa, più che d’identificazione di una specifica eziopatogenesi della malattia e di una corrispondente specifica risposta terapeutica. Queste considerazioni hanno ridimensionato il ruolo svolto dai più recenti sforzi di sistematizzazione categoriale dei disturbi mentali, come DSM-III R (105), DSM-IV e I.C.D. 10. Da un lato è possibile evidenziare l’esistenza di dimensioni patologiche trans-sindromiche, dall’altro l’approccio categoriale non permette di cogliere le similarità sintomatologiche parcellari, tra sindromi diverse, che potrebbero sottendere comuni meccanismi patogenetici. La sistematica descrizione di segni e sintomi raccolti, a fini diagnostici, in disordini e disturbi psicopatologici, può essere alla base di una fittizia sovrastima della comorbilità psichiatrica che, in realtà, lo stesso sistema diagnostico e nosografico (DSM-IV) di riferimento crea. Ciò nonostante, lo sviluppo della ricerca in campo psicobiologico e psicofarmacologico è, paradossalmente, il principale fattore di crisi del sistema nosografico categoriale. La somministrazione di un farmaco presuppone, in medicina, una ben definita condizione patologica, su cui quella sostanza agisce su uno specifico substrato fisiopatologico. I più recenti studi di psicobiologia e di psicofarmacologia hanno dimostrato alterazioni di determinati parametri neurochimici, neuromorfologici e neurofisiologici, largamente sovrapponibili, in disturbi mentali, nosograficamente diversi. In psicopatologia le barriere categoriali, che mantengono una loro valenza didattica e comunicativa, si scontrano con la realtà terapeutica, che evidenzia l’efficacia di composti psicotropi efficaci, in situazioni cliniche nosograficamente distanti. Il concetto di specificità farmacologica appare intrinsecamente legato all’approccio categoriale alla psicopatologia. Negli ultimi anni, si sono raccolte numerose evidenze scientifiche che hanno messo in crisi la teoretica categoriale. Si sta passando, così, da un approccio nosografico rigidamente categoriale ad un approccio dimensionalistico. Si tende, sempre più frequentemente, a non considerare come entità reali le categorie diagnostiche, che in psichiatria raramente si presentano nella loro ideale descrizione, orientandosi verso un approccio classificativo, che considera i diversi sintomi autonomamente, in un “continuum” tendenzialmente trans-nosografico. Van Praag (106) ha affermato che: “Le categorie diagnostiche, in psichiatria, erano null’altro che ampi cesti che contenevano una varietà di sindromi più o meno collegate tra loro, non certo entità patologiche genuine. Tale tassonomia non è stata una buona compagna per la ricerca in psichiatria biologica ed è stata, in larga parte, responsabile del fatto che gran parte della “biologia” che era evidenziata nella patologia mentale sembrava essere priva di specificità diagnostica …”. Si è andati, perciò, verso una visione psicopatologica disfunzionale, cambiando l’approccio diagnostico, a favore di una visione dimensionalistica dei disturbi mentali, anziché rigidamente categoriale (107). L’utilizzo nella pratica clinica degli SSRI, farmaci che inibiscono selettivamente il reuptake di serotonina, ha dimostrato, per esempio, una loro attività terapeutica in quadri nosografici disomogenei (depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, aggressività, bulimia, etc.). È stato, quindi, ipotizzato, che tali disturbi clinici potrebbero essere patogeneticamente secondari, in una certa misura, a complesse disfunzioni del tono serotoninergico cerebrale, che risulta essere il denominatore comune, ai diversi disordini psicopatologici, su cui sono attivi. Questi disturbi appartengono ad uno spettro patologico che include il disturbo depressivo, i disturbi alimentari, i disturbi ossessivo-compulsivi, l’alcolismo, le tossicodipendenze, alcuni disturbi di personalità, alcuni disturbi somatoformi, nonché i disturbi da perdita del controllo sugli impulsi, l’aggressività, gli attacchi di panico ed, in parte, l’ansia. Evidenze analoghe sono state raccolte circa il ruolo patogenetico svolto dalla noradrenalina nella regolazione della spinta psicomotoria, nell’arousal, nell’anedonia. Numerosissimi studi hanno sottolineato il coinvolgimento funzionale del tono dopaminergico cerebrale sia negli aspetti ideativi e di strutturazione percettiva e cognitiva del vissuto (processamento delle informazioni), sia negli aspetti più direttamente motori e motivazionali un cui ruolo è razionalmente ipotizzabile tanto nella patogenesi delle dipendenze patologiche da sostanze quanto in quella delle psicosi (108)-(110). Stiamo assistendo, in questi ultimi anni, ad una rivoluzione, che vede la ricerca impegnata a trovare non più un legame patogenetico, tra un neuro-mediatore ed una “categoria” nosografica, ma tra esso ed alcuni componenti sintomatologici fondamentali del disturbo mentale (ansia, aggressività, cognitività, etc.) (111) (112).

Si impone, in questa prospettiva, una nuova questione. Le dipendenze patologiche da sostanze presentano una loro intrinseca comorbilità psichiatrica, la cosiddetta doppia diagnosi, oppure rappresentano solo un’espressione clinica di una più complessa dimensione psicopatologica? In altre parole, siamo certi che le stesse dipendenze patologiche da sostanze non debbano rientrare, a pieno titolo, tra i disturbi psicopatologici, come la loro inclusione, nel contesto del -DSM-IV, implicitamente suggerisce? La questione del continuum psicopatologico, tra dipendenze patologiche ed altri disturbi psichiatrici, è gravida di conseguenze, non solo sul piano clinico-diagnostico, ma anche su quello terapeutico-riabilitativo (1) (113) (114).

Verso un trattamento integrato multi-modale

La variabilità del quadro clinico, nei diversi soggetti e nelle varie fasi dell’evoluzione clinica della dipendenza patologica da sostanze, comporta la necessità di personalizzare gli interventi, rendendoli funzionali al perseguimento di obiettivi razionalmente raggiungibili, per quel paziente, in quella fase della sua storia clinica. La condizione complessiva di ogni paziente va, dunque, valutata con attenzione, evidenziando aree del funzionamento socio-relazionale maggiormente deteriorate ed aree la cui conservata funzionalità può essere utile supporto agli interventi terapeutici (115). L’intervento terapeutico deve coinvolgere operativamente ed in modo integrato l’attività di diverse figure professionali, tra cui l’assistente sociale, il medico e lo psicologo. Un approccio di questo tipo, “combinato” o “integrato”, è comunemente applicato in numerose malattie croniche, psichiatriche o non psichiatriche (116)-(118). Insieme alle risorse dell’individuo vanno tenute in opportuna considerazione quelle ambientali, intese come risorse della famiglia, del contesto micro-sociale, nonché di quello macro-sociale, del territorio in cui vive il paziente, oltre che del servizio che prende in carico assistenziale l’utente, in senso stretto.

Il trattamento di pazienti psicotici con abuso di sostanze richiede specifiche competenze, orientate a garantire nel tempo, livelli di integrazione tra operatori e, talora, servizi diversi, sufficientemente alti. Le differenti fasi del trattamento possono richiedere, infatti, valutazioni ed interventi terapeutici, progressivamente più articolati e complessi (26) (119)-(121).

Nella prima fase dell’intervento risulta fondamentale evidenziare nel paziente psicotico l’esistenza di un abuso di sostanze, valutandone criticamente l’impatto sulla psico-patologia esibita, così come nel paziente tossicodipendente, è fondamentale obiettivare l’insorgere o il manifestarsi, in modo più o meno conclamato, di uno specifico quadro psicotico.

Uno strano scotoma sembra largamente condiviso tra gli operatori del settore. L’ambiente psichiatrico, talora, delega i servizi pubblici per le tossicodipendenze al trattamento anche di quadri clinici acuti francamente psicotici. D’altronde, le strutture pubbliche e private, deputate istituzionalmente al recupero dei tossicodipendenti, sottovalutano, inopportunamente, l’entità del fenomeno psico-patologico, in senso sia clinico che epidemiologico. Il risultato di questo atteggiamento, purtroppo ancora diffuso tra gli operatori, è il tendenziale abbandono di questa problematica popolazione.

In questo senso, sarebbe auspicabile che l’uso di esami tossicologici su campioni biologici, nei soggetti in trattamento per psicosi divenisse maggiormente diffuso, ma altrettanto importante sarebbe un adeguato approccio psico-diagnostico ai tossicodipendenti in trattamento. L’integrazione degli interventi tra i servizi psichiatrici territoriali ed i servizi per le tossicodipendenze andrebbe almeno perseguita e formalizzata con specifici protocolli d’intesa, nonché con una adeguata attività di formazione ed aggiornamento dei rispettivi operatori.

Un livello diagnostico più accurato risulta essere necessario ed opportuno per valutare i fattori che possono sostenere il presentarsi, il persistere e/o il cronicizzarsi di un quadro clinico di “doppia diagnosi”. La comorbilità psichiatrica delle dipendenze patologiche va intesa, infatti, non come semplice co-presenza di due quadri patologici, tra loro estranei e non interagenti, ma come un quadro clinico specifico, inscritto in un “continuum psicopatologico”, che pone il paziente in una condizione di alto rischio per la recidiva su entrambi i versanti (1). I disturbi da uso di sostanze, possono, infatti presentarsi con un quadro sintomatologico che può facilmente indurre in errore diagnostico, inficiando tanto il trattamento farmacologico a breve termine, quanto il trattamento terapeutico-riabilitativo a lungo termine (1) (122) (123). Inoltre, poiché molte sostanze d’abuso possono avere interazioni negative con i farmaci utilizzati nel trattamento del disturbo psichiatrico, sia contrastandone gli effetti terapeutici, sia peggiorandone gli effetti collaterali, i programmi terapeutico-riabilitativi, in assenza di una sufficiente motivazione del paziente, risultano poco efficaci e producono effetti non duraturi.

La condizione di abuso di sostanze, in soggetto con sintomi psicotici, acuisce gli effetti di queste condizioni cliniche nel contesto sociale del paziente. Tale condizione si associa, infatti a: scarsa compliance terapeutica; difficoltà nel rapporto medico-paziente; difficoltà nell’ambito familiare con, talora, atteggiamenti di conflitto e rifiuto espliciti; difficoltà economiche, relate anche all’uso incongruo delle risorse; richiesta inopportuna e ripetuta di interventi a numerosi e diversi servizi sanitari, socio-assistenziali e/o repressivi (Pronto Soccorso, Ospedalizzazione, inserimento lavorativo, carcerazione, etc.). La condizione di dipendenza da sostanze acuisce, inoltre, i conflitti in ambito micro-sociale e familiare, generando, frequentemente, rilevanti disturbi relazionali ed esplosioni di Emotività Espressa da parte dei congiunti del paziente (124). Alcuni studiosi hanno evidenziato, infatti, che le famiglie di pazienti in “doppia diagnosi” presentano disturbi delle relazioni affettive, che si esprimono con ostilità, distacco, cinismo e mancanza di speranze per il futuro dei pazienti (59). Tali famiglie non supportano il paziente sul piano terapeutico, talora negando ogni risposta anche ai più semplici bisogni quotidiani, delegando alle strutture assistenziali, soprattutto ospedaliere, ogni forma di intervento (59).

Alcuni autori hanno proposto per il trattamento di questi pazienti interventi di auto-aiuto strutturati sulla falsa riga delle strategie utilizzate dagli Alcolisti Anonimi (125). Il trattamento dei pazienti in “doppia diagnosi”, ancor oggi, risulta largamente empirico non fondandosi su un sufficiente “background” culturale, sperimentale e clinico. I modelli e le strategie terapeutiche proposte risultano, infatti, largamente non validate sul piano scientifico (30) (95) (126). Gli studi intrapresi, in questo ambito, risultano ancora preliminari. Risulta evidente, comunque, che per questi pazienti sia opportuno e necessario prevedere programmi di trattamento e prevenzione delle ricadute specifici, che utilizzino strumenti terapeutici medici, psicologici e socio-assistenziali, centrati sulla persona.

Il trattamento integrato multi-modale delle alcol-tossicodipendenze e della comorbilità psichiatrica associata, prevede quattro fasi fondamentali:

1. l’accoglienza e la valutazione clinica della richiesta d’aiuto;

2. l’individuazione degli obiettivi da perseguire a breve, medio e lungo termine;

3. l’individuazione e l’applicazione degli strumenti terapeutici più opportuni;

4. la valutazione dell’intervento e l’analisi dei risultati.

Particolare attenzione va riservata alla valutazione della “appetizione compulsiva patologica” o “craving” per etanolo ed altre sostanze, anche in vista d’interventi terapeutici specifici. Il “craving” si manifesta come impulso irrefrenabile ad assumere alcolici, accompagnato da intensa ansia, disforia, irritabilità, agitazione, talora, da comportamenti impulsivi e/o esplosivi, nonché da sintomi somatici, quali cefalea ed astenia. Il “craving” può essere scatenato da stimoli ambientali che richiamano l’abuso (p.e. pubblicità per gli alcolici) e può essere correlato, a volte, ad eventi stressanti o a particolari situazioni psico-emotive. Così, circostanze associate all’atto di bere alcolici, quali il ritorno sui luoghi delle bevute o il vedere qualcuno che beve, possono facilitare la comparsa del “craving”, soprattutto nel soggetto in fase di relativa vulnerabilità psico-affettiva (127).

Nell’attuale inquadramento nosografico delle Dipendenze da Sostanze (DSM-IV) ma anche secondo gli approcci interpretativi pato-fisiologici più recenti, l’appetizione compulsiva riveste un ruolo relativamente importante. Tale fenomeno sembra determinato dalla disregolazione del sistema di ricompensa dopaminergico, afferente alla corteccia prefrontale, attraverso vie mesolimbiche (19) (101) (128) (129). I correlati psicologici del “craving” sono stati variamente interpretati (130). Secondo l’interpretazione della scuola comportamentista, il “craving” sarebbe espressione di una risposta condizionata positiva, legata al rinforzo connesso all’uso d’etanolo o altre sostanze (131). Sarebbe, dunque, soggetto ai fenomeni propri della risposta condizionata, quali l’estinzione e il rinforzo (132). Alcuni autori di scuola psicoanalitica hanno, invece, sottolineato come, in questi pazienti, la sostanza svolgerebbe un ruolo centrale nel mantenere una sorta d’integrità mentale, supportando o del tutto sostituendosi a funzioni psichiche assenti o gravemente carenti, secondo un assioma interpretativo che vede l’uso di sostanze quale forma di problematica autoterapia (133) (134). Qualunque sia l’interpretazione ed il significato dell’appetizione compulsiva patologica, il “craving”, di fatto, rappresenta una grave sofferenza per l’individuo, che teme di non riuscire o non riesce a controllarsi. Esso, infatti, porta frequentemente alla ricaduta ed alla perdita di controllo nelle modalità d’assunzione, per quantità e durata delle sostanze d’abuso. Il “craving” è stato variamente ponderato da diversi Autori, sulla base dell’autovalutazione del paziente e della presenza di sintomi psicopatologici obiettivamente valutabili e d’eventuali fattori clinici e comportamentali associati (135) (136).

Obiettivi del trattamento a breve, medio e lungo termine

Di solito, alla riduzione dell’abuso di bevande alcoliche e sostanze d’abuso, corrisponde un miglioramento clinico complessivo del funzionamento dell’individuo sul piano sociale, familiare e lavorativo, con maggiore benessere fisico e psicologico. Tuttavia, sono stati frequentemente evidenziati peggioramenti paradossi. In alcuni casi, infatti, al miglioramento clinico, inteso come riduzione dell’abuso, non corrisponde un miglioramento del funzionamento psicofisico e socio-relazionale. In questi casi è necessario approfondire la diagnosi, soprattutto in ambito psicopatologico, potendo l’abuso essere l’espressione sintomatica e l’epifenomeno di una più profonda problematica, da definire in tutti i suoi aspetti clinici, prima di poter effettuare un intervento veramente terapeutico. Non è infrequente, in questo ambito, che la sospensione dell’uso di oppiacei renda clinicamente evidente un quadro clinico psicotico, sino ad allora parzialmente e problematicamente compensato dall’uso di narcotici. Risulta, perciò, indicato un approccio ampio e mirato su tutte le problematiche della persona, ma più attento e specifico per quelle aree che permangono maggiormente disturbate. In altri casi può accadere che risultino carenti o manchino le premesse minime necessarie per un intervento diretto sull’assunzione di alcol e sostanze, per cui è opportuno limitarsi, in un primo tempo, ad intervenire su altre aree, allo scopo di migliorare, comunque, le condizioni cliniche e socio-relazionali del paziente e dare una risposta, sebbene parziale, al disagio dell’individuo e della famiglia.

Nella nostra esperienza, perciò, gli obiettivi del trattamento non vanno, dunque, fissati rigidamente, ma possono e devono modificarsi in base alle caratteristiche ed alle problematiche dell’individuo, al momento storico dell’evoluzione clinica del suo disturbo, nonché, sulla base delle effettive risorse dell’ambiente, utilizzabili a fini terapeutici. Gli obiettivi perseguibili, a fini terapeutici, possono perciò variare dalla riduzione quali-quantitativa dell’assunzione d’alcolici e sostanze, all’astinenza predefinita e controllata, all’astinenza periodica concordata, sino all’astinenza continuativa e senza ricadute e, quindi, senza più assunzione d’alcolici e sostanze. Non è, perciò, necessario puntare immediatamente all’astinenza completa e totale dall’uso d’alcolici e sostanze, cioè alla “sobrietà”, termine di frequente uso nella letteratura degli Alcolisti Anonimi (AA), che indica la condizione in cui la prescrizione “non devo bere” è ormai del tutto interiorizzata e, quasi, non richiede più uno sforzo volontario d’autocontrollo.

In questa prospettiva d’interventi progressivi e multi-modali, gli obiettivi a breve termine possono essere più limitati e riguardare, per esempio, la ricerca della consapevolezza (insight) degli effetti negativi dell’abuso d’alcolici e sostanze, l’accettazione di un eventuale controllo esterno (familiari e/o farmaci avversivi), una riduzione del “potus” in tempi, spazi e contesti sociali concordati. Gli obiettivi a medio termine, prevedono la ricerca dell’astinenza controllata, con l’accettazione di strumenti di controllo esterni (familiari, farmaci, etc.) oppure l’astinenza concordata con l’utilizzo di strumenti di controllo intermedi (interno-esterni) di tipo prevalentemente cognitivo-comportamentale. L’obiettivo a lungo termine è rappresentato, naturalmente, dall’astinenza completa e senza ricadute, senza strumenti esterni o intermedi di controllo, ma con controllo completamente interiorizzato dal paziente. Il tentativo di far raggiungere al paziente prima un “insight” di malattia, quindi, l’accettazione di una sistema di controllo prima esterno e poi, progressivamente, più interiorizzato rispecchia, in fondo, quanto viene pragmaticamente realizzato dagli operatori dei servizi pubblici, nel trattamento delle diverse forme di dipendenza. In questo senso, si potrebbe sostenere che le fasi del divezzamento alcolico e della disassuefazione da altre sostanze percorra fasi e tappe analoghe, anche se non sovrapponibili. In realtà, spesso, nel trattamento dei soggetti con alcoldipendenza ed altre dipendenze concomitanti, risulta evidente la necessità non di puntare all’astinenza da UNA sostanza, ma all’obiettivo di un progressivo allontanamento da ogni sostanza d’abuso. In tal senso l’astinenza dall’alcol contemporanea all’abuso compensativo di altre sostanze non può, ovviamente, essere considerato un risultato terapeutico positivo. Le fasi di distacco dall’abuso alcolico e gli altri obiettivi terapeutici vanno, perciò, perseguiti contemporaneamente, utilizzando tutti gli strumenti medici e psico-sociali opportuni.

Molte delle resistenze dei professionisti allo sviluppo di un modello integrato di trattamento sorgono dal modo tradizionale di vedere l’approccio farmacologico e quello psico-socio-terapeutico, come antitetici piuttosto che come sinergici. Karasu (137) ha evidenziato come la psicoterapia e la farmacoterapia presentino un’intrinseca complementarità. Nella sua prospettiva, i farmaci hanno maggiore influenza sull’espressione dei sintomi e sul disagio affettivo, agendo in tempi relativamente rapidi e con durata d’effetto prevedibile, con azioni più evidenti sui disturbi di “stato”, limitati ed autonomi, come l’ansia o la depressione. Al contrario, l’approccio psicoterapeutico avrebbe maggiori effetti sulle relazioni interpersonali e sull’adattamento sociale, con risultati più tardivi, ma più persistenti, soprattutto, sui disturbi di “tratto”. A prescindere da altre considerazioni, è comunque, vero che gli effetti di una terapia farmacologica risultano più immediatamente evidenti, mentre i risultati di una psicoterapia possono richiedere tempi più lunghi per manifestarsi. Quest’osservazione ha portato alcuni a proporre una “strategia terapeutica a due fasi” (137) (138). In quest’approccio l’agente psico-farmacologico è utilizzato per alleviare i sintomi e per preparare e permettere il successivo processo psicoterapeutico. La psicoterapia sarà, perciò, orientata verso le relazioni interpersonali, l’adattamento sociale ed un miglioramento nell’ambito lavorativo. Quello che risulta necessario, tuttavia, da parte dei clinici, che combinano i due approcci, è la consapevolezza della peculiarità del rapporto inerente al doppio ruolo che si assumono. In ambito psicoterapeutico il paziente necessita, infatti, di un approccio empatico-soggettivo, mentre, da un punto di vista psicofarmacologico, è necessario utilizzare un modello d’approccio medico oggettivo (139). In Letteratura esistono numerosi studi che convalidano persuasivamente l’efficacia del trattamento combinato (140) (141).

Individuazione ed applicazione degli strumenti terapeutici

Il “trattamento integrato multi-modale” si basa sull’individuazione di strumenti utili al raggiungimento degli obiettivi terapeutici prefissati e, ragionevolmente, raggiungibili (118). Una certa difficoltà nel coordinare gli interventi diagnostici, terapeutici e di riabilitazione, da parte di diverse figure professionali, quali medici, psicologi, educatori ed assistenti sociali, può essere presente, per cui il lavoro in équipe sembra essere una premessa necessaria per rendere tali interventi realmente efficaci. L’opportunità d’interventi terapeutici integrati tra diverse figure professionali, nonché la necessità di variare concordemente nel tempo gli obiettivi da perseguire e gli strumenti da utilizzare, trova parziale spiegazione nelle caratteristiche psicopatologiche di questi pazienti, che spesso presentano quadri psicopatologici importanti, talora accentuati o slatentizzati dall’astinenza. Di qui l’importanza della coesione del gruppo di lavoro, l’importanza dell’attenzione alle modalità relazionali all’interno dell’équipe e l’opportunità di una supervisione esterna (142). Per semplicità espositiva si è convenuto di definire “metodologia terapeutica” l’insieme delle modalità omogenee ed omologhe di trattamento che attengono agli aspetti biologici (farmaci, etc.) agli aspetti psicologici (psicoterapie, etc.) agli aspetti socio-riabilitativi del disturbo (Comunità terapeutiche, lavoro, etc). Ogni “metodologia terapeutica” può avvalersi, nel proprio ambito specifico, di diversi “strumenti o tecniche”, come diversi farmaci o diverse modalità d’intervento psicoterapeutico e/o socio-riabilitativo. Le “strategie terapeutiche” rappresentano l’integrazione funzionale di diversi “strumenti o tecniche”, mutuati dalle diverse metodologie terapeutiche, finalizzati al perseguimento di obiettivi specifici. Con l’approccio integrato, cioè l’applicazione contemporanea e/o sequenziale di diverse “metodologie terapeutiche” (farmaci, psicoterapia, interventi sociali), e multi-modale, cioè l’utilizzo di diversi “strumenti o tecniche” nell’ambito di ogni specifica metodologia terapeutica, nella nostra esperienza, si riesce a personalizzare sufficientemente l’intervento, sino a raggiungere i migliori risultati terapeutici (117).

Le “strategie terapeutiche” utili per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici possono raggrupparsi in tre grandi gruppi, definiti sulla base delle modalità di controllo del comportamento disadattivo.

1. Strategie terapeutiche di controllo esterno

L’obiettivo di queste strategie d’intervento è fornire al paziente segnali di pericolo e di stop, al contatto con le bevande alcoliche e le altre sostanze d’abuso. I più diffusi strumenti di controllo esterno sono rappresentati dalle terapie avversive come il disulfiram per l’alcoldipendenza e dal controllo esterno, richiesto ed accettato dal paziente, esercitato da familiari e/o conviventi.

2. Strategie terapeutiche di controllo intermedio (cognitivo-comportamentale)

L’obiettivo di tali strategie è insegnare al paziente a modificare i comportamenti “a rischio”, mediante tecniche d’evitamento, tecniche di “problem solving” e/o di “social skills”, nonché con l’applicazione di tecniche di rilassamento, per il controllo dell’ansia correlata all’insorgere del “craving”. Naturalmente, la maggior parte degli interventi psicoterapeutici rientra in questo gruppo.

3. Strategie terapeutiche di controllo interno

Queste strategie tendono a rendere la proibizione all’assunzione di bevande alcoliche e di sostanze parte del patrimonio comportamentale interiorizzato dall’individuo. Questa condizione che, secondo alcuni, rappresenta il massimo livello di “guarigione” dell’alcol-tossicodipendenza, è perseguibile come obiettivo finale della terapia integrata multi-modale. Tale obiettivo risulta raggiungibile dagli alcolisti che frequentano i gruppi d’auto-aiuto, come gli Alcolisti Anonimi, i Club degli Alcolisti in Trattamento, etc., ma anche dagli utenti alcol-tossicodipendenti, che hanno tratto completo beneficio terapeutico dall’approccio integrato tra farmacoterapia e psicoterapia, come riequilibrio delle basi neurobiologiche del comportamento d’abuso e del “craving” e completa interiorizzazione super-egoica della proscrizione delle bevande alcoliche e delle sostanze d’abuso, nonché dei profondi cambiamenti psicologici, a ciò correlati.

L’approccio terapeutico al trattamento dell’alcol-tossicodipendenza può avvalersi di mezzi farmacologici, d’interventi psicoterapeutici e di programmi socio-riabilitativi. Essi vanno utilizzati sempre in maniera integrata. Nella nostra esperienza, nel trattamento delle dipendenze patologiche da sostanze, associate a comorbilità psichiatrica, sono pochi i soggetti che hanno tratto giovamento dall’utilizzo di una sola modalità d’intervento terapeutico.

A. Strumenti terapeutici farmacologici

Negli ultimi anni, l’approccio farmacologico al trattamento delle dipendenze patologiche da sostanze psicoattive ha acquistato un particolare rilievo sia per le nuove conoscenze in campo neurobiologico, sia per i recenti tentativi d’integrazione della farmacoterapia, con altri strumenti terapeutici, quale quello psicoterapico e socio-riabilitativo (117). Di recente, grande interesse pratico e speculativo ha destato il controllo farmacologico del “craving” nella prevenzione delle ricadute, nel trattamento dell’alcolismo, ma anche delle altre dipendenze patologiche (143) (144). L’Ademetionina (SAMe), il GHB e la fluoxetina sembrano avere effetti anticraving clinicamente evidenti (143) (145)-(147). Esiste, cioè, una vera farmacoterapia dell’alcolismo e delle tossicodipendenze, anche se ancora limitata, che sfrutta in termini terapeutici le recenti acquisizioni sulle basi neuro-biologiche dei comportamenti d’abuso (136) (148)-(150).

B. Strumenti terapeutici psicologici

L’approccio psicoterapeutico fa parte integrante del trattamento del paziente con Disturbo da Uso di Sostanze. Il paziente che può avvantaggiarsi maggiormente di un trattamento psicoterapico, classicamente, si riteneva dover essere disintossicato ed in condizioni di avere un buon “insight” di malattia, nonché una sufficiente “compliance” terapeutica. Approcci psicoterapeutici e psico-educazionali rivolti al paziente in trattamento farmacologico e/o disintossicante, ma anche alla famiglia, possono, in realtà, risultare estremamente utili (117). La loro indicazione principale, nel trattamento della quadro psicopatologico, consiste nell’effetto anticraving, in soggetti disintossicati, ma anche nel controllo di tutte le manifestazioni ansiose dei pazienti e/o dei familiari.

Nella psicoterapia della famiglia è data la massima centralità alla famiglia, vista come sistema di relazioni significative interpersonali. Gli interventi di questo tipo hanno la finalità di migliorare il funzionamento del “sistema famiglia”, mediante la reintegrazione strutturale della famiglia stessa, del ruolo di ogni singolo membro, delle relazioni interpersonali in essere, delle capacità del “sistema famiglia” di far fronte a difficoltà esterne ed interne. Quest’approccio psicoterapeutico specifico è altra cosa dal coinvolgimento della famiglia nel programma di trattamento integrato multi-modale, coinvolgimento che, quando opportuno e possibile, avviene quasi sempre. La psicoterapia familiare rappresenta un trattamento condotto da personale con specifica formazione e training. Gli interventi psicoterapeutici focali sono rivolti alla soluzione di problemi, relativamente circoscritti nel tempo e nell’espressione comportamentale, comparsi nei pazienti o nei loro familiari. Possono essere trattati, ad esempio, i problemi sessuali presenti nel paziente alcoldipendente astinente, ma anche, le reazioni abnormi allo stress, l’ansia reattiva, gli atteggiamenti “di controllo” inopportuno dei familiari, etc.

Gli interventi di sostegno psicoterapeutico mirano a rafforzare l’organizzazione delle difese psichiche del paziente, impedendo l’emergere di modelli primitivi di difesa dall’angoscia e permettendo di stabilire una relazione “transferale” che aiuti il paziente a raggiungere modelli di vita più maturi, adulti ed adattivi. La componente direttiva, in questo tipo d’interventi, va limitata alla possibilità di confrontarsi con lo stile comportamentale esibito dal paziente, negli aspetti pratici della vita, in particolare, in quelli correlati all’uso di sostanze, utilizzando al meglio tutti i fattori che possono motivare il paziente al proseguimento del trattamento. Tutto ciò può essere premessa ad un ulteriore lavoro di trasformazione interiore e relazionale verso equilibri emotivamente più evoluti.

Nella pratica clinica, sono utilizzati con maggiore frequenza ed efficacia gli interventi di psicoterapia di sostegno, gli interventi psicoterapeutici focali, nonché la psicoterapia familiare e quella di gruppo.

C. Attività socio-assistenziali e programmi socio-riabilitativi

Il ruolo del servizio sociale nell’ambito del trattamento integrato multi-modale è particolarmente importante. Contrariamente a quanto assunto in maniera implicita, dagli approcci classici all’alcoldipendenza ed alle altre tossicodipendenze, infatti, non sempre l’approccio terapeutico farmacologico e quello psicoterapeutico devono necessariamente precedere, nel tempo, gli interventi di reinserimento socio-riabilitativo, in programmi specifici. Nella nostra esperienza, infatti, l’accogliere il soggetto ancora in fase di disassuefazione e/o di trattamento farmacologico, in strutture socio-riabilitative, secondo programmi di trattamento appositamente strutturati, facilita l’evoluzione in senso terapeutico, di numerosi casi clinici, refrattari ad ogni altro precedente intervento. Le attività socio-assistenziali possono essere distinte in attività di valutazione (input) ed attività d’intervento (output). La valutazione della condizione socio-relazionale e lavorativa del paziente va condotta tenendo in considerazione risorse e carenze, ai fini della definizione del programma terapeutico e riabilitativo. Va, cioè, valutata la “rete sociale”, cioè l’insieme dei rapporti interpersonali, che mantengono l’identità sociale e che permettono di ricevere informazioni, servizi, scambi relazionali, accettazione, sostegno, supporto emotivo (151). Gli interventi socio-assistenziali possono essere rivolti all’individuo oppure a parte della rete di relazioni sociali, utilizzabili nel trattamento integrato multi-modale, ma pure a problematiche di tipo socio-lavorativo, anche se non direttamente collegate con l’alcol-tossicodipendenza. Queste ulteriori attività possono richiedere una funzione di filtro e d’invio a servizi ed enti deputati alla gestione di specifiche problematiche (152).

Una particolare attenzione agli aspetti di carattere sociale sembra essere indicata nel trattamento di pazienti adolescenti e giovani. Frequentemente in questa fascia d’età il potus eccessivo è legato a situazioni di disagio psicologico. La condizione del paziente migliora in seguito ad interventi mirati, di tipo preventivo, volti alla socializzazione (1) (153).

Nei paesi anglosassoni esiste un’importante rete di strutture residenziali (comunità, “case a mezza strada”) e semi-residenziali per il recupero degli alcol-dipendenti, in situazioni di grave deterioramento sociale. Nel nostro paese risorse di questo tipo sono quasi inesistenti, mentre, molto più ricca è l’offerta d’assistenza residenziale o semi-residenziale per i pazienti tossicodipendenti. Considerato che è molto frequente il sovrapporsi, nelle fasce d’utenza giovanile, della dipendenza da sostanze e dell’abuso d’alcol è auspicabile che le strutture comunitarie terapeutico-riabilitative, per tossicodipendenti, accolgano e trattino utenti con problematiche anche d’abuso alcolico. Sarebbe, altresì, auspicabile che anche nel nostro Paese, come avviene già nei paesi di cultura anglosassone, si predisponesse una rete di strutture intermedie d’accoglienza (Comunità Residenziali, Comunità Semi-residenziali, Case Alloggio, Centri Diurni, etc.) specificamente destinate ai pazienti alcol-dipendenti.

D. Considerazioni sugli approcci d’auto-aiuto

Antesignana di questa modalità d’aiuto agli alcolisti è l’associazione degli Alcolisti Anonimi (AA). Tale associazione è stata fondata nel 1935 da due alcolisti negli Stati Uniti d’America. Si calcola che abbia aiutato milioni d’alcolisti attraverso migliaia di gruppi diffusi in tutto il mondo. Negli anni, questi gruppi hanno avuto un certa diffusione anche nel nostro paese (154). Essi costituiscono una fondamentale ed originale risorsa terapeutica e socio-riabilitativa nel trattamento dell’alcol-dipendenza. Le caratteristiche peculiari degli interventi d’auto-aiuto, “anonimi” o “dei dodici passi”, perché seguono un programma di revisione di vita, articolato in dodici fasi, possono essere così descritte:

– consapevolezza di avere un problema comune tra tutti i partecipanti al gruppo;

– gruppo come insieme di pari, membri tutti uguali, in assenza di un conduttore professionista;

– partecipazione attiva del gruppo, nell’affrontare i problemi del singolo componente, in un’atmosfera empatica e supportiva.

I fondatori di A.A. hanno tratteggiato una “caratterologia” dell’alcolista. Secondo loro, “l’alcolista” non è semplicemente una persona che ha perso il controllo nell’assunzione d’alcol, ma ha dei “difetti di carattere” che sono indipendenti e, spesso, precedono nel tempo il “bere”. L’alcolista tipo è descritto come insicuro, egoista, impulsivo, testardo, bugiardo. La presa di coscienza della presenza di tali “difetti di carattere” ed il continuo sforzo per gestirli, in modo accettabile per sé, per la famiglia, il gruppo e la società, è la premessa per compiere un percorso di sviluppo psico-emotivo personale, che supera il semplice cambiamento delle abitudini alcoliche (155).

In questi aspetti, l’esperienza degli A.A. ha persino preceduto la ricerca scientifica che, solo di recente, ha evidenziato, nella maggior parte dei pazienti con abuso di sostanze, la presenza di una rilevante psicopatologia, con disturbi del tono dell’umore, della personalità ed altri disturbi psichiatrici (5).

È possibile distinguere nelle attività degli Alcolisti Anonimi due componenti principali. La componente “educativa” orientata al controllo del bere ed ai problemi connessi e la componente “supportiva” sul piano psicologico e comportamentale, se non francamente “elaborativa” (154). Quest’ultima componente distingue i gruppi “anonimi” dagli altri gruppi d’auto-aiuto. La metodica gruppale risulta, infatti, abbastanza diffusa come tecnica di sostegno psicologico e di reinserimento sociale, non solo degli utenti con abuso di sostanze, ma anche con problematiche secondarie a situazioni stressanti o luttuose (p. es. donne mastectomizzate, etc.).

In molti gruppi d’auto-aiuto le dinamiche gruppali esauriscono il loro compito nel sostegno psicologico, senza inoltrarsi sul terreno interpretativo del disturbo comportamentale e della personalità premorbosa, di chi lo esibisce. Secondo alcuni studiosi dell’argomento, i partecipanti ai gruppi “anonimi” si auto-selezionerebbero, invece, proprio per il fatto di presentare un disturbo di personalità che precede l’uso di sostanze. Tali disturbi di personalità sono classificabili nella maggior parte dei casi come “borderline”, “narcisistico”, “dipendente” e “passivo-aggressivo”, secondo il DSM-III R ed il DSM-IV. Kohut (133) (134) ha elaborato i riferimenti concettuali fondamentali per la comprensione degli aspetti più deboli dell’organizzazione del Sé. Secondo quest’ottica interpretativa, per esempio, i disturbi nella relazione madre-bambino possono portare al persistere di strutturazioni della vita psichica infantili, fortemente narcisistiche. Tali strutturazioni psico-emotive impedirebbero nell’adulto lo sviluppo di equilibri psichici più maturi. Gli atteggiamenti narcisistici, di grandiosità, di bassa autostima e/o di tipo megalomanico con sovrastima di se stesso e degli altri, la necessità di continue gratificazioni esterne e di rassicurazioni continue da parte degli altri, nei Disturbi da Uso di Sostanze, possono essere nell’adulto l’espressione clinica della persistenza di una strutturazione mentale infantile. Alcolisti Anonimi costituisce un ambiente supportivo, che accetta il bisogno dell’alcolista di “mettere a riposo” quelle parti del Sé che risultano particolarmente fragili in questi soggetti (156) (157).

L’efficacia terapeutica dei gruppi di auto-aiuto “anonimi” nell’intervenire su una gran varietà di comportamenti disadattivi è, forse, spiegabile ipotizzando che i soggetti che aderiscono a tali gruppi siano attratti da essi e ritenuti in essi, proprio sulla base di un comune “humus” rappresentato dai disturbi di personalità suddescritti.

Un’evoluzione dei gruppi A.A. è stata l’istituzione dei gruppi di familiari (AlAnon). Si tratta di gruppi di auto-aiuto che seguono un programma dei “dodici passi” analogo a quello di A.A. Il gruppo di familiari si riunisce in spazi separati, ma usualmente negli stessi tempi degli A.A. In “AlAnon” è possibile distinguere due fondamentali contenuti strutturali del lavoro di gruppo. La componente funzionale “psico-educativa” orienta verso il comportamento preferibile, per meglio aiutare un familiare a prendere coscienza del problema, che nasce dall’abuso alcolico. La componente funzionale “elaborativa” invita il familiare ad evidenziare e risolvere i rapporti patologici, che spesso lo portano a colludere con le parti malate del comportamento dell’alcolista. Tale distacco ha lo scopo di aiutare più efficacemente il familiare alcolista, ma anche ad effettuare una personale revisione di vita ed una crescita psico-emotiva propria. In altri termini il gruppo di familiari opera in maniera analoga a quello degli alcolisti in trattamento. In tale contesto, il gruppo fornisce la possibilità di sostituire l’oggetto Sé del familiare con il gruppo stesso.

Monitoraggio clinico ed analisi dei risultati

Con intervalli predeterminati tutti gli operatori coinvolti a vario titolo nella gestione del singolo caso clinico s’incontrano periodicamente (sessioni di monitoraggio clinico) per fare il punto sui risultati ottenuti e, se necessario, riformulare o riadattare il “programma terapeutico e socio-riabilitativo”. In tali incontri di monitoraggio clinico, tutti gli operatori (medici, psicologi, assistenti sociali, educatori, infermieri, etc.) valutano i livelli d’efficacia ed efficienza delle diverse strategie adottate nella gestione dei singoli aspetti clinici, sanitari, psico-relazionali e socio-riabilitativi, cercando di integrare le strategie terapeutiche e d’ulteriore intervento.

Approcci psicoterapeutici alla comorbilità psichiatrica in alcol-tossicodipendenti

Nella nostra esperienza, gli approcci psicoterapeutici all’alcol-tossicodipendenza, sono utili ed efficaci strumenti clinici. Un considerevole numero di studi sostiene l’associazione tra disturbi di personalità, disturbi dell’umore e sviluppo di un disturbo da dipendenza da sostanze (158). Secondo alcuni studiosi l’abuso di alcol e sostanze stupefacenti può considerarsi in alcuni casi come una sorta di impropria auto-medicazione per il controllo di sintomi psichiatrici disturbanti (159).

L’elevata incidenza e l’evidente eterogeneità dei disturbi psicopatologici evidenziati tra i soggetti alcol-tossicodipendenti ha indotto numerosi studiosi a proporre approcci terapeutici diversificati, centrati sulle problematiche psichiatriche dell’individuo, piuttosto che sul solo abuso di sostanze (117). Tali evidenze cliniche hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo di più sofisticate interpretazioni psico-dinamiche delle problematiche connesse all’abuso di alcol e sostanze. L’originaria interpretazione psicoanalitica vedeva in ogni abuso d’alcol e sostanze una regressione allo stadio orale dello sviluppo psicosessuale. Attualmente si propende a considerare la maggior parte degli abusi di sostanze stupefacenti come meccanismi difensivi e adattivi, piuttosto che regressivi (160)-(162). Se i primi psicoanalisti dipingevano i tossicodipendenti come degli edonisti alla ricerca del piacere ed inclini all’auto-distruzione, gli psicoanalisti contemporanei interpretano il comportamento tossicomanico, come l’espressione dell’incapacità di prendersi cura di se stessi, piuttosto che come un impulso autodistruttivo. Quest’incapacità a prendersi cura di sé potrebbe conseguire a precoci disturbi nello sviluppo, che portano ad un’inadeguata interiorizzazione delle figure genitoriali. Ciò lascia l’alcol-tossicodipendente incapace d’autoproteggersi e di sviluppare un maturo senso della realtà. La maggior parte di essi, infatti, mostra un sostanziale difetto di giudizio, riguardo ai danni derivati dall’uso di sostanze. Di non minore importanza nella psicopatogenesi dell’alcol-tossicodipendenza è la deficiente funzione regolatoria degli affetti, del controllo degli impulsi e del mantenimento dell’autostima. Tali disturbi creano problemi corrispondenti nelle relazioni d’oggetto. L’uso delle droghe pesanti è stato messo in rapporto diretto, da alcuni, con l’incapacità dell’alcol-tossicodipendente di tollerare e regolare il rapporto interpersonale (163) (164). A questi problemi relazionali contribuisce un’evidente fragilità narcisistica e l’incapacità di modulare gli affetti. Talvolta, il comportamento di dipendenza da sostanze evita la sensazione di disperata impotenza e ne surroga, per via esogena, il controllo e la regolazione psico-affettiva. La rabbia narcisistica e l’umiliazione impongono all’alcol-tossicodipendente l’uso di droghe, come strumento in grado di ristabilire una sensazione d’autocontrollo e di potere. Khantzian e Treece (165), in particolare, ritengono che il fattore critico sia rappresentato dalla percezione esperienziale, che una data sostanza rappresenta un modo per far fronte ad un perentorio bisogno adattivo, offrendo pertanto non solo sollievo, ma anche la sensazione, seppure temporanea, di un’accresciuta capacità di superare gli ostacoli della vita. L’uso di droga, in quest’ottica, potrebbe rappresentare una forma di auto-medicazione dello stress. In tale prospettiva, perciò, si assume droghe per ottenere sollievo da dolorosi stati affettivi (166). A volte, per tentativi ed errori, specifiche sostanze sono scelte per specifici effetti psicologici e farmacologici, in rapporto ai bisogni di ciascun soggetto dipendente.

Nella nostra esperienza l’approccio terapeutico più efficace all’utente alcol-tossicodipendente si deve avvalere di strumenti terapeutici multipli, sia in ambito farmacologico, sia in ambito psicoterapeutico e socio-riabilitativo, secondo un paradigma multi-modale ed integrato, tra le diverse modalità d’intervento.

Le comunicazioni interpersonali possono essere lette ed interpretate con diverse modalità, in accordo con le differenti impostazioni teoriche e metodologiche, proposte dalle diverse scuole di pensiero psicoterapeutico (167)-(171). Nell’ottica psico-dinamica, in particolare, l’uso di farmaci è considerato non sempre opportuno, nel corso della psicoterapia. Secondo Freud la formazione del sintomo è il risultato di un conflitto tra Es, Super-Ego ed Ego che produce ansia, successivamente canalizzata in un sintomo (172)-(174). In realtà, anche quando la terapia farmacologica allevia il sintomo, il conflitto persiste e può essere analizzato. Il farmaco non causa una sostituzione del sintomo e le terapie ad orientamento introspettivo continuano a rendere accessibili alla realtà conscia il conflitto inconscio. In tre diversi casi analitici di depressione grave, Anna Freud si rivolse ad un collega affinché prescrivesse dei farmaci, con risultati significativamente benefici. Era, infatti, convinta che l’aggiunta di agenti farmacologici fosse cruciale per consentire all’analisi di proseguire (175) (176).

In una ottica moderna, di intervento bio-psico-sociale, si deve inscrivere la nostra proposta operativa di trattamento integrato multi-modale, con l’utilizzo di strumenti farmacologici, psicoterapeutici e socio-riabilitativi, nel trattamento dei disturbi da abuso di sostanze. In particolare, non va considerato sempre indispensabile somministrare, nella nostra esperienza, tali strumenti terapeutici in rigida sequenza. Al contrario, il loro utilizzo razionale e personalizzato, talora contemporaneo, è spesso clinicamente più efficace.

Alcuni studi hanno confermato le nostre esperienze, portando alle seguenti conclusioni:

– il sostegno psicoterapeutico aiuta gli alcol-tossicodipendenti che frequentano e intraprendono regolarmente il processo terapeutico;

– i pazienti con disturbi psichiatrici sono coloro che traggono usualmente maggior vantaggio dalla psicoterapia;

– i migliori risultati si ottengono dall’integrazione dello psicoterapeuta nello staff di operatori, che attuano il trattamento;

– si registrano evidenti benefici nell’abbinamento della psicoterapia ai programmi di trattamento farmacologico (163) (177)-(179).

Questi risultati contraddicono i clinici che ritengono l’astinenza una premessa necessaria ed indispensabile, per un adeguato trattamento psicoterapeutico dei disturbi sottostanti: ansia, depressione, disturbi di personalità, problemi di autostima ed altro. La psicoterapia psicoanalitica, infatti, può, nelle sue fasi iniziali, incrementare i sintomi psicopatologici, soprattutto l’ansia, che hanno trovato nell’uso di alcol e droghe un temporaneo e problematico sollievo, incrementandone paradossalmente l’assunzione. In fase d’astinenza, inoltre, il soggetto spesso è disperato per aver rinunciato a qualcosa che è più della droga, cioè ad un meccanismo adattivo e di controllo dell’angoscia, nonché ad una parte importante di Sé. Ciò può costituire la premessa ad un peggioramento complessivo del funzionamento psico-sociale e non sempre corrisponde ad un vero cambiamento evolutivo e maturativo, nelle diverse aree della vita affettiva, sociale e lavorativa. Quando gli alcol-tossicodipendenti si sentono combattuti tra il loro desiderio compulsivo d’alcol e droga ed il dolore per averla persa, il terapeuta deve esaminare l’idea, tenacemente difesa, che l’uso d’alcol e/o sostanze sia una soluzione adattiva ai problemi della vita, aiutando il soggetto con alcol-tossicodipendenza a scoprire risposte alternative a quei problemi. Krystal (180) ritiene che gli alcol-tossicodipendenti siano affetti frequentemente da alessitimia, non siano, cioè, in grado di riconoscere e identificare i loro stati effettivi interni. Conseguentemente, nella prima fase della terapia può essere importante dare spazio all’educazione, con il terapeuta che spiega come l’esperienza di sentimenti spiacevoli porti inizialmente all’abuso d’alcol e droghe. Nell’ambito della teorizzazione del Super-Io incombente, come nucleo centrale della patogenesi dell’uso compulsivo di sostanze, Wurmser (178) ha messo in guardia i terapeuti dall’essere punitivi o critici. Egli ha suggerito che i terapeuti non devono punire o criticare i loro pazienti ed evitare di fare “prediche” sull’uso di droghe. Risulta, invece, importante capire le pressioni del Super-Io sul paziente, in analogia con quanto avviene con un paziente gravemente nevrotico. Egli ritiene, inoltre, che i terapeuti dovrebbero analizzare le tematiche sottostanti, piuttosto che focalizzarsi solamente sull’abuso di alcol e droghe, cosa che può essere fatta da altri membri dell’équipe terapeutica.

La psicoterapia di gruppo è stata adottata in molti contesti clinici, perché risulta accettata e utile a molti pazienti e risponde alle esigenze degli operatori di poter trattare più pazienti, in tempi più brevi, sebbene nessuno dei più importanti studi di controllo sulla validazione della psicoterapia psico-dinamica di gruppo, nel trattamento delle dipendenze da alcol e droghe, condivida il rigore metodologico d’alcuni studi sulla psicoterapia individuale. Poiché la psicoterapia di gruppo raramente è l’unica modalità d’approccio al paziente con problemi di dipendenza risulta difficile determinarne l’efficacia, in termini assoluti. Tuttavia, parlandone a livello pratico, molti alcol-tossicodipendenti si sentono sostenuti dal confrontare con altri, che hanno avuto le stesse esperienze, le loro problematiche. La negazione, come si sa, rappresenta una difesa preminente in tutti coloro che fanno abuso di sostanze. Un “setting” di gruppo, di pazienti alla pari, facilita la messa a confronto di tale negazione e porta, spesso, gli alcol-tossicodipendenti ad accettare la gravità del loro abuso di sostanze. Il gruppo diventa, di per sé, mezzo di sostegno e di confronto. I programmi con pazienti in comunità residenziali, spesso, fanno maggiore affidamento sui gruppi, per la ragione pratica che è più facile obbligare alla frequenza i soggetti residenti, rispetto a quelli ambulatoriali (177). Una forte resistenza alla psicoterapia di gruppo, di comune riscontro, è rappresentata dal fatto che molti membri possono aver commesso dei reati ed essere, perciò, riluttanti ad aprirsi tra estranei, per timore che tali comportamenti criminali vengano conosciuti.

In conclusione, le indicazioni per la psicoterapia espressivo-supportiva possono essere sintetizzate come segue:

– grave psicopatologia associata all’uso di sostanze;

– partecipazione ad un programma di trattamento integrato, che includa un supporto di gruppo, l’astinenza e, se opportuna, una appropriata terapia psico-farmacologica;

– assenza di un disturbo antisociale di personalità, a meno che non sia presente anche una depressione;

– motivazione sufficiente per seguire gli appuntamenti ed impegnarsi nel processo terapeutico.

Conclusioni

Nell’ottica operativa propria del trattamento integrato multi-modale, brevemente esposta, sono opportuni ed auspicabili interventi specificamente orientati all’accoglienza del paziente psichiatrico con “doppia diagnosi”, in un setting terapeutico specifico, che si avvalga dell’attiva partecipazione ai lavori di una équipe di operatori, con lunga esperienza maturata sul campo. L’obiettivo da perseguire è quello di garantire una sufficiente integrazione degli interventi, che eviti la delega e l’abbandono dell’utente, ma anche che massimizzi i risultati terapeutici, riducendo, per esempio, i costi derivanti dalla duplicazione degli interventi, dalla loro incongruità e dalla loro frammentarietà. Tali obiettivi possono essere perseguiti, in un ambito ambulatoriale, con interventi centrati sulla persona, ma anche in contesti residenziali, orientati clinicamente (Comunità per “doppia diagnosi”) che permettano, per quanto possibile, di raggiungere il massimo livello di “indipendenza” del paziente.

La gestione e la prevenzione delle ricadute può essere svolta, con le modalità multidisciplinari già descritte, in sede ambulatoriale, in integrazione funzionale con i diversi servizi territoriali. L’obiettivo ambizioso è quello di applicare un approccio terapeutico integrato multi-modale (medico, psicologico e socio-riabilitativo), personalizzando gli interventi, in un’ottica bio-psico-sociale, che includa, ove possibile, la famiglia. L’integrazione funzionale degli interventi ha fornito, nella nostra esperienza, infatti, significativi risultati (2).

La storia scientifica dello scorso secolo è stata segnata dalla scoperta dell’equivalenza sostanziale tra materia ed energia. Il sorgere del nuovo millennio si caratterizza per il dilagare di fenomeni di globalizzazione dell’informazione, come la rete Internet. La nostra epoca sembra volgere verso sintesi ermeneutiche sempre più vaste ed inclusive. In tale contesto, gli approcci teoretici limitati e dogmatici al trattamento delle dipendenze patologiche e delle psicopatologie ad esse correlate, che contrappongono una chiave interpretativa e curativa esclusivamente neuro-farmacologica ad una esclusivamente psico-socio-terapeutica, sono sostanzialmente inadeguati. Sempre più numerosi operatori dei servizi privati e pubblici per il trattamento di queste patologie, competenti sul piano psicoterapeutico, vanno considerando i disturbi mentali presenti negli pazienti con alcol-tossicodipendenza, come eventi bio-psico-sociali, non separando la mente dal corpo (180)-(184). Un modello unitario, in cui il disturbo psicopatologico è interpretato come un’interazione tra processi biologici e psico-sociali, permette al terapeuta di usare con maggiore efficacia terapie combinate.

In sintesi, nella nostra esperienza, l’approccio terapeutico più efficace alla comorbilità psichiatrica in soggetti con alcol-tossicodipendenza risulta essere quello integrato e multi-modale, nell’accezione suddescritta. In tale approccio terapeutico vengono utilizzate “metodologie”, “tecniche” e “strategie” variabili, in rapporto agli obiettivi da raggiungere, per ogni singolo paziente, in quella specifica fase evolutiva del suo disturbo clinico. Ciò permette una forte personalizzazione degli interventi. Contrariamente a quanto implicitamente assunto nella prassi terapeutica comune, nel trattamento di questi problematici pazienti, non necessariamente gli interventi farmacologici, quelli psicoterapeutici e quelli socio-riabilitativi devono essere applicati in contesti diversi e/o in tempi successivi. L’utilizzo integrato e contemporaneo di diversi strumenti d’intervento, secondo una progettualità centrata sulla persona e le sue problematiche, nell’approccio terapeutico a questi pazienti, può dare, infatti, i migliori risultati (185)-(188). Le dipendenze patologiche ed i disturbi psicotici, per loro intrinseca natura, trovano in ambito bio-psico-sociale la loro genesi e la loro espressione sintomatologica. È evidente che solo un trattamento altrettanto eclettico, integrato e multi-modale può fornire risultati apprezzabili, nella personalizzazione degli interventi terapeutici. Come in ogni prassi medica, il principio guida deve essere quello di aiutare il paziente, piuttosto che quello di restare fedeli a proprie impostazioni teoretiche o, più banalmente, didattico-formative. In una prospettiva scientifica più ampia, infatti, le polarizzazioni teoriche, tra approccio psico-sociale e farmacoterapia delle dipendenze patologiche e delle psicopatologie ad esse correlate, non fanno che sottintendere la sostanziale unicità ed unitarietà della vita psichica dell’uomo sofferente.

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