Key words: Cognitive schemes � Temperament � Psychotropic drugs
Correspondence: Dr. Andrea Castrogiovanni, Policlinico “Le Scotte”, viale Bracci 1, Siena – Tel. +39 0577 586275 – Fax +39 0577 233451
Il modo di provare i sentimenti, le emozioni, la modalità di esprimerli, la forma particolare di essere, di presentarsi, di agire, i significati che siamo portati ad attribuire a noi stessi, alle persone e agli eventi, l�importanza che diamo alle situazioni e la modalità con cui le affrontiamo, le scelte che elaboriamo nella vita di tutti i giorni sono tutte espressioni che ci caratterizzano e permettono di distinguerci. Sono pattern di funzionamento sostanzialmente stabili, modi individuali di “costruire” la realtà che fanno parte della persona, modi di conoscere e di “essere-nel-mondo” che costituiscono il motivo conduttore del comportamento e delle interazioni sociali del singolo. Il modo nel quale la persona interagisce e costruisce relazioni dipende, non solo dalle situazioni in cui si viene a trovare, ma soprattutto dalle caratteristiche cognitive che le appartengono; nella tradizione della psicologia cognitiva si sostiene che il soggetto non sia mai passivo nella ricezione delle afferenze ambientali, ma che sia dotato di strutture mentali che lo orientano attivamente nella selezione delle informazioni e nell’attribuzione ad esse di significato. A tali strutture è stato dato il nome di schemi cognitivi.
Gli “schemi cognitivi”
Definizione e caratteristiche
Gli schemi cognitivi rappresentano unità organizzate di conoscenza che possono svolgere contemporaneamente una duplice funzione: quella di “formato”, ovvero di sistema di accettazione dell’informazione, e quella di “programma” per la raccolta attiva dell’informazione dall’ambiente e per l’esecuzione di pattern di azioni. Neisser (1976) (1) � che ha sviluppato la ricerca intorno al processo costruttivo della conoscenza, riprendendo il concetto di schema assimilatorio di Piaget � definisce lo schema come “quella parte dell�intero ciclo percettivo che è interna al percettore, modificabile dall�esperienza e in qualche modo specifica rispetto a ciò che viene percepito”.
All�interno delle teorie sulla conoscenza, il concetto di schema si ritrova già nel secolo scorso: siamo negli anni �30 e Frederic C. Bartlett (2) pubblica i suoi saggi sulla memoria.
Gli schemi, attraverso l�interazione con la realtà esterna, subiscono una continua modificazione ed in tal modo adeguano ed ampliano le loro potenzialità di assimilazione: gli schemi si trasformano, si fanno progressivamente più complessi attraverso il loro uso con una riorganizzazione continua, nel senso di una progressiva differenziazione, integrazione e organizzazione gerarchica; tali particolari strutture e l�interazione che ha luogo fra gli schemi cognitivi e le informazioni raccolte nell�ambiente producono risposte specifiche ed irripetibili.
Gli schemi hanno un carattere soggettivo e peculiare per ogni individuo, riscontrabile nei suoi processi mentali: ciò determina l�originalità di ognuno nella costruzione della realtà e nell�attribuzione di significati oltre che una possibilità di agire e percepire del tutto unica, così che le esperienze, costruite mediante gli schemi cognitivi, andranno a costituire il patrimonio specifico ed originale della propria conoscenza. Ciò che può sembrare una scelta libera è in realtà una “scelta elaborativa”, basata e sostenuta da una struttura schematica anticipatoria. In questa visione la conoscenza non ha solo una funzione di memorizzazione di dati percettivi, ma diviene una elaborazione continua di ciò che viene percepito più o meno consapevolmente.
L�identificazione degli schemi cognitivi, delle loro caratteristiche e reciproche relazioni, ovvero delle strutture organizzate di conoscenza che ciascuno utilizza per costruire e per specificare il mondo, sono alla base di una comprensione professionale oltre che personale di ogni individuo.
L�organizzazione, sia iniziale che successiva, della conoscenza trova le sue fondamenta, secondo Bowlby (3)-(5), nel sistema di attaccamento. Anche Guidano e Liotti (6) ipotizzano che la conoscenza si organizzi, attraverso gli schemi cognitivi, a partire dalle esperienze di attaccamento che influenzano la strutturazione delle modalità conoscitive nella prima infanzia. Secondo gli Autori (6) il sistema di attaccamento e gli schemi che ne derivano si svilupperebbero venendo a configurare con il tempo determinate organizzazioni cognitive in età adulta.
A partire, quindi, dalle teorie di Bowlby, anche Guidano e Liotti (6) considerano le prime fasi dello sviluppo la base di partenza per la progressiva formazione e costruzione del sistema individuale di organizzazione della conoscenza; saranno le modalità strutturali del primo sviluppo che determineranno l�interpretazione e il significato che sarà progressivamente attribuito a sé e al mondo. In tale ottica le particolari modalità di attaccamento di ogni individuo condizionano le caratteristiche della futura organizzazione del suo sistema di conoscenza. Da questa discendono sia le modalità di costruire gli eventi, di attribuire significato alle proprie esperienze di vita, sia il particolare ed eventuale percorso di scompenso che può verificarsi nel momento in cui il sistema non sia più in grado di conservare il proprio equilibrio (7). In questo senso, gli Autori (6) individuano una corrispondenza tra specifici sistemi di attaccamento e modalità di dotare di significati sé e il mondo in età adulta.
Cionini (8) (9) non ritiene che il legame che si verrebbe a costituire fra schemi di attaccamento nell�infanzia e l�organizzazione cognitiva personale sia così deterministico, ma sottolinea l�importanza che rivestirebbero anche altre esperienze di attaccamento, comunque significative, nelle successive fasi di vita. Ciononostante, anche Cionini ritiene che il primo sistema ad essere attivato in termini ontogenetici sia quello dell�attaccamento. Comprendere le caratteristiche delle prime relazioni di attaccamento è comunque fondamentale per la comprensione dell’individuo, in quanto esse rappresentano una delle componenti essenziali del successivo sviluppo del sistema e della strutturazione sia degli schemi di attaccamento in età adulta, sia di quelli che vengono definiti gli “schemi cognitivi prevalenti” del sistema individuale. La strutturazione degli schemi di attaccamento infantili e adulti influenzano anche l�utilizzazione privilegiata di alcuni fra i diversi domini di conoscenza (procedurale, dichiarativa, affettivo-immaginativa ed episodica) nei processi di costruzione dell’esperienza. Secondo questa ottica è importante considerare che i pattern di attaccamento che si strutturano nell�infanzia non sono necessariamente costanti e immutabili nel corso della vita e non sono forzatamente invariabili, in quanto cambiamenti importanti e profonde ristrutturazioni del sistema possono avvenire per esperienze significative, anche in periodi successivi di vita.
Anche Crittenden (10) sostiene che “accanto ad una continuità longitudinale nello sviluppo del percorso dell�attaccamento possono ritrovarsi modalità di attaccamento caratterizzate da modificazioni evolutive articolate e complesse”. “Ogni individuo ha un proprio percorso di sviluppo che porta alla costruzione di strutture di conoscenza strettamente soggettive” (9).
Gli schemi cognitivi sono strutturati gerarchicamente: ai livelli sovraordinati si trovano gli schemi relativi al Sé, ai livelli sotto ordinati gli schemi che regolano le relazioni con il mondo. I primi condizionano e limitano le funzioni degli schemi sotto-ordinati (8). Gli schemi relativi al Sé, quelli che Guidano e Liotti (6) definiscono “assiomi di base”, sono schemi primari, che si formano durante le prime esperienze di vita, durante la fase di attaccamento e rivestono una notevole importanza riguardo alla costruzione che l�individuo farà delle proprie esperienze: sono le strutture che determinano le modalità di attribuzione di significato dell�individuo ad ogni sua interazione con il mondo esterno. “Gli schemi rappresentano dei modelli di realtà che definiscono ciò che è possibile attendersi in ciascuna situazione e che quindi, oltre al processo percettivo, guidano anche la previsione degli eventi successivi e di conseguenza le decisioni relative alle nostre azioni” (11).
Quindi l�organizzazione della conoscenza è strettamente soggettiva e il senso e l�ordine che viene attribuito alle cose ha carattere di unicità; in tale ottica viene esclusa la possibilità di entrare in diretto contatto conoscitivo con il mondo ontologico e le costruzioni della “realtà” dipendono strettamente dalle caratteristiche soggettive del sistema di conoscenza di ogni individuo.
In base all�organizzazione gerarchica degli schemi di attaccamento e degli schemi relativi al Sé, si viene configurando l�identità personale e le caratteristiche di ogni altro schema di conoscenza. “L�identità emerge durante lo sviluppo a partire dalle caratteristiche delle prime relazioni di attaccamento e si costruisce gradualmente dando luogo a quell�insieme organizzato di schemi cognitivi, emotivi e motori che definiscono il sistema personale di conoscenza” (11). Ogni fase del processo di conoscenza si struttura sulla precedente e permette e caratterizza a sua volta la fase di sviluppo successiva.
Gli “schemi cognitivi prevalenti”
Nel 1983 Guidano e Liotti (6) (e successivamente altri AA. come Reda (12); Guidano (7); Bara (13)) hanno descritto quattro modelli organizzativi della conoscenza che hanno chiamato organizzazioni cognitive: le organizzazioni di tipo fobico, di tipo ossessivo-compulsivo, di tipo depressivo e quella relativa ai disturbi alimentari psicogeni. Ognuna di queste organizzazioni è caratterizzata da modalità specifiche di conoscenza in funzione di un mantenimento dinamico dell�equilibrio del sistema. Al momento in cui venisse meno l�equilibrio e la coerenza interna del sistema, lo scompenso che ne deriverebbe condurrebbe a quadri clinici in relazione alle modalità organizzative stesse.
Pur riconoscendone il valore euristico, tali modelli rappresentano astrazioni incapaci di descrivere effettivamente il funzionamento cognitivo di qualsiasi individuo; ogni soggetto possiede una propria organizzazione della conoscenza peculiare, specifica e originale che non può essere incasellata all’interno di singole categorie. Piuttosto che utilizzare modelli di funzionamento mentale all’interno del quale “forzare” singole individualità, può risultare maggiormente utile identificare una serie di elementi analitici che permettano di costruire un modello peculiare dell’organizzazione cognitiva di ogni singolo per spiegare gli aspetti idiosincrasici del suo funzionamento psichico. A tal scopo possono essere utilizzate quelli che Cionini ha definito “schemi cognitivi prevalenti”. Con questo termine ci si riferisce a schemi che svolgono una funzione prioritaria nell�organizzazione cognitiva personale in quanto attivati, più frequentemente di altri, per connotare di significati la realtà.
In particolare gli “schemi cognitivi prevalenti” sono strutture basilari di conoscenza “che il paziente utilizza nella costruzione di sé e del mondo” in maniera privilegiata; non è la presenza o assenza di determinati schemi cognitivi che identifica l�organizzazione del soggetto, poiché queste strutture sono presenti in ciascun individuo. Ciò che permette di definire uno schema come prevalente è il fatto che esso venga attivato con una frequenza particolarmente elevata anche in situazioni di contesto molto diverse fra loro e nelle quali la maggior parte delle altre persone attiverebbe schemi di diverso tipo. La individuazione di schemi che il soggetto utilizza in maniera massiva è quindi utile per “comprendere i modi peculiari e originali in cui quello specifico individuo � nel porsi in rapporto a sé e al mondo � ne attivi alcuni in maniera obbligata” (9).
Gli schemi cognitivi (prevalenti) ai quali è stata attribuita una funzione rilevante nella genesi e nel mantenimento delle diverse situazioni di disagio psicopatologico sono numerosi; la loro valutazione richiede una procedura piuttosto complessa (la conduzione di 3/4 colloqui clinici, audio registrati, trascritti e successivamente codificati) che, proprio a causa di tale complessità, viene utilizzata prevalentemente in funzione di un progetto psicoterapeutico (8) (9). Cionini e Provvedi (14) hanno messo a punto uno strumento carta e matita composto da 60 item somministrabile in forma collettiva e in grado di fornire una valutazione di alcuni fra i principali “schemi prevalenti”, che può essere utile, come procedura abbreviata, in contesti di ricerca. Le dimensioni misurate da tale questionario sono: delusione, controllo situazioni, accudimento compulsivo, sistema agonistico, impotenza, dipendenza affettiva, controllo emozioni, locus of control, autonomia personale, senso del dovere, amabilità personale, sensibilità al giudizio.
I modelli cognitivi fra biologico e psicologico
Le strutture cognitive sopra descritte definiscono le caratteristiche psicologiche di ciascun individuo e concorrono a definirne l�assetto di personalità, essendone un appannaggio strutturante, ancorché dinamicamente modificabile nell’interazione con le esperienze. Nonostante la loro natura essenzialmente psicologica, non mancano autori che prospettano nel loro sviluppo una matrice biologica, specialmente di tipo genetico.
In Piaget (15) lo schema assume la connotazione di essere essenzialmente “assimilatorio”, nel senso che permette il processo di assimilazione, oltre che un sempre maggiore e più funzionale adattamento all�ambiente. È in questa ottica che lo schema comincia ad assumere una connotazione biologica. Presupporre l�esistenza di schemi assimilatori innati permetterebbe, secondo Piaget, di ipotizzare l�esistenza di una interazione funzionale con l�ambiente fin dal primo istante di vita. Tali schemi assimilatori primari non sono da interpretare come strutture di conoscenza a priori, ma “canali preferenziali”, potenzialità innate che permetterebbero all�individuo di entrare in relazione con il mondo in un determinato modo che si trasforma rapidamente in un modo personale. Questa modalità specifica di interazione con l�ambiente è il patrimonio del singolo, ciò che caratterizzerà e permetterà la diversità e la peculiarità delle reazioni fin dalle prime esperienze.
Anche secondo la teoria dell�attaccamento, tali schemi comportamentali esistono in un numero limitato (16) e sono geneticamente determinati. Si attivano nel neonato sin dai primi momenti in cui si viene a stabilire la relazione madre-bambino ed hanno la funzione di regolare l�interazione che si crea con la figura di attaccamento: il fine è sia un avvicinamento progressivo alla persona che rappresenta la figura di attaccamento, sia il soddisfacimento dei bisogni primari inizialmente legati alla sopravvivenza.
Secondo Trevarthen (17), invece, le organizzazioni cognitive non sono geneticamente determinate, ma risultano “dall�incontro di un sistema nervoso centrale che si sviluppa secondo regole ereditate filogeneticamente con altre menti già culturalmente formate”.
Più recentemente altri Autori (18)-(20) hanno ipotizzato che tali caratteristiche personali si formerebbero precocemente nello sviluppo e dipenderebbero sia da fattori genetici che da influenze ambientali.
Il carattere innato di alcuni schemi, che caratterizzano le reazioni tipiche della specie e che permettono le prime interazioni con il mondo fin dai primi attimi di vita, è un dato comunemente accettato da tutti gli addetti ai lavori. Il dibattito attiene eventualmente alle successive fasi di sviluppo; nella strutturazione personale degli schemi cognitivi, o più generalmente del sistema di conoscenza, quale peso ha la predisposizione biologica individuale rispetto al gioco delle reciproche relazioni fra l’individuo e l’ambiente? In che misura si può pensare che i modelli di conoscenza siano biologicamente determinati o psicologicamente acquisiti?
Psicofarmaci e schemi cognitivi
La disponibilità ad accettare il determinismo biologico è più agevole per quanto riguarda i modelli di funzionamento mentale corrispondenti alla patologia, mentre per ciò che attiene alla “normalità” si è più propensi, forse pregiudizialmente, a privilegiare la natura psicologica dei meccanismi di funzionamento rispetto ad un loro substrato biologico.
Coerentemente, la legittimità dell�uso di sostanze psicoattive, così come il riconoscimento della loro efficacia, è pressoché universalmente accettata per i disturbi mentali, anche perché confortata da una massa imponente di dati sperimentali, oltre che da una vastissima esperienza clinica. I “tratti personologici”, così anche gli schemi cognitivi, sono invece considerati tradizionale appannaggio degli approcci psicologici che ne provvedono, ognuno nella loro ottica, la definizione, le modalità di assessment e specialmente le tecniche di intervento psicoterapico.
Può uno psicofarmaco indurre cambiamenti psicologici?
Istintivamente si tenderebbe quindi ad escludere che i trattamenti psicofarmacologici possano comportare una modificazione degli schemi cognitivi, correlativamente o meno a quella operata sui sintomi psicopatologici, tradendo in ciò la tendenza a escludere un ruolo determinante dei fattori biologici come substrato delle caratteristiche “personologiche”.
Il fatto che tali caratteristiche, anche se considerate di natura psicologica, si correlino con l�insorgenza di un disturbo, in cui la componente biologica è più facilmente ipotizzabile, non è di per sé contraddittorio. Infatti, i tratti psicologici, modulando il rapporto con la realtà, possono condizionare la valenza stressante di eventi di vita e, attraverso essa, contribuire a modificare in chiave di patologia le strutture biologiche che sottendono il funzionamento mentale.
Quindi, le modalità organizzative di conoscenza possono costituire il substrato dal quale potrà poi originarsi un disturbo psichiatrico, una sorta di “terreno fertile” sul quale, in coincidenza con altre variabili, si potrà sviluppare un quadro clinico biologicamente fondato. È ormai comunemente accettato, partendo da un modello bio-psico-sociale, come numerosi siano i fattori che contribuiscono a predisporre e a scatenare un qualsiasi disturbo psichiatrico. Per esempio, l�insorgere di un episodio depressivo è sì determinato da una predisposizione genetica, attivata da agenti fisici, chimici o da cambiamenti stagionali, ma in ciò non si può trascurare il ruolo, spesso determinante, giocato dalla significazione dei life events: è questa che rappresenta spesso il fattore in grado di tradurre in espressione fenotipica la predisposizione genetica, fino ad allora latente. In tale ottica, a parità di carico genetico, è evidente che esistono caratteristiche discriminanti capaci di rendere i diversi individui diversamente vulnerabili ad eventi di vita.
È proprio in questo ambito che particolari “schemi” cognitivi, o un loro particolare utilizzo, e certi assetti di personalità, assumono un ruolo patogenetico, determinante non solo per lo sviluppo del disturbo, ma anche per il suo eventuale cronicizzarsi e recidivare. Infatti, dopo la risoluzione della fase acuta, la struttura di fondo del soggetto, la sua modalità di organizzare la conoscenza, tende a rimanere sostanzialmente invariata; anzi l�episodio di malattia potrebbe contribuire ad accentuare i tratti personologici “patogeni” in modo che, in seguito, altri eventi, anche di minore intensità, possano fungere da fattore precipitante. In questo modo l�individuo sarà sempre meno in grado di costruire e di dare significati, funzionalmente ai propri obiettivi esistenziali, agli eventi che gli occorrono e alle relazioni che lo coinvolgono.
È in base a queste considerazioni che si giustifica l�importanza di un intervento psicoterapico, mirato a cambiamenti di “tipo psicologico”, per una prevenzione delle ricadute: un migliore assetto di personalità e un più adeguato funzionamento degli schemi cognitivi potranno consentire di affrontare meglio gli avvenimenti così da ridurre le ricadute (21). In effetti, è documentato che una psicoterapia cognitiva ottiene questo risultato nella depressione ricorrente (22) e gli psicoterapeuti cognitivisti ritengono che questa “capacità” sia sovrapponibile, o quantomeno comparabile, a quella della farmacoterapia (23).
Ma se la psicoterapia è quantomeno uguale alla farmacoterapia nel prevenire le ricadute, perché invece non ipotizzare che sia la farmacoterapia ad essere uguale alla psicoterapia? In ipotesi gli assetti cognitivi, appannaggio costitutivo della personalità, in quanto costrutti tipicamente psicologici, dovrebbero essere poco o per niente influenzati dai trattamenti farmacologici. In altre parole lo psicofarmaco dovrebbe agire sul disturbo, determinando la scomparsa dei sintomi ad esso correlati e verosimilmente sostenuti da una disfunzione neurochimica, restituendo peraltro il soggetto alla sua personalità di base, quella preesistente al disturbo, con le sue peculiarità “psicologiche”, spesso disfunzionali.
Ma non è invece possibile ipotizzare che la farmacoterapia agisca nella prevenzione delle ricadute favorendo modificazioni “personologiche” analoghe a quelle indotte dalla psicoterapia, rivelando quindi capacità, per così dire, psicoterapiche, simili a quelle delle tecniche di intervento cognitivo? Haykal e Akiskal (24), ad esempio, riconoscono alla Fluoxetina la capacità di modificare quelle “dimensioni” che controllano le modalità con cui un soggetto è abituato a vivere le esperienze, le sue abilità nel far fronte agli eventi e le capacità di adattamento, fino ad oggi di esclusiva pertinenza della psicoterapia. Il trattamento psico-farmacologico, quindi, potrebbe avere non solo la capacità di modificare gli aspetti meramente sintomatologici della malattia, ma le sue potenzialità potrebbero andare ben oltre, intaccando anche “sfaccettature” della personalità preesistenti al disturbo. In questa prospettiva un trattamento farmacologico efficace non dovrebbe accontentarsi di ripristinare la condizione premorbosa, bensì mirare a modificare anche alcuni degli schemi cognitivi connessi con lo scompenso psicopatologico.
Sfortunatamente non esistono dati sperimentali a sostegno di tale ipotesi, anche perché la maggior parte degli strumenti di valutazione utilizzati nei trial clinici non consente di sviscerare, così in profondità, le organizzazioni cognitive ed ha, comunque, il grosso limite di essere generalmente impiegata solo durante la fase clinica conclamata, non consentendo di discernere fra che cosa è parte integrante della malattia e che cosa della personalità, ossia fra elementi di tratto e di stato.
L�esperienza clinica
L�esperienza clinica, in realtà, fornisce esempi quotidiani di quanto uno psicofarmaco possa condurre a modificazioni che non si limitano ad eliminare la sintomatologia o a ridurre i punteggi alle scale di valutazione, ma contribuiscano ad indirizzare il paziente, positivamente cambiato in alcuni dei suoi tratti personologici preesistenti, verso una nuova fase della sua vita.
È specialmente oggi, con i farmaci di nuova generazione, che lo psichiatra viene posto di fronte alla evidenza di cambiamenti che vanno spesso al di là della scomparsa dei sintomi.
Innanzitutto i mutamenti “temperamentali”. È tutt�altro che raro che il paziente, dopo qualche mese di terapia antidepressiva, riferisca non soltanto di essere “guarito” dalla depressione, ma avverta, con meraviglia, di essere cambiato, in meglio rispetto al suo abituale temperamento. È con sorpresa che il paziente si accorge che esiste un modello di comportamento diverso rispetto a quello che fino ad allora considerava essere la sua “normalità”: persone con temperamento ciclotimico scoprono come sia più agevole vivere senza quelle oscillazioni dell�umore che le avevano caratterizzate da sempre e che tanti problemi avevano loro creato, così come pazienti con temperamento depressivo si accorgono come sia diversa la qualità della vita nel momento in cui quello che sembrava essere un loro appannaggio strutturale si attenua o scompare. Siffatti mutamenti temperamentali sorprendono meno lo psichiatra il quale, riconoscendo una matrice biologica alla base del temperamento, può accettare che essa sia influenzata dal trattamento farmacologico, ancor più se egli appartiene alla categoria di coloro che ritengono il temperamento una forma attenuata e cronica di disturbo dell�umore.
Ma che cosa dire di cambiamenti concernenti modelli di comportamento abituali, che da sempre hanno caratterizzato le modalità con cui la persona si è rapportata agli altri e alla realtà? Che dire di quel giovane, abitualmente chiuso e scontroso, schivo dalle manifestazioni esteriorizzate degli affetti, il quale, dopo trattamento con antidepressivi per un disturbo di panico, non solo non ha più i fenomeni ascrivibili al disturbo, ma diventa più espansivo e affettuoso con i familiari, che segnalano il cambiamento con meraviglia? O ancora della ragazza, in cura per un episodio depressivo, che da timida e inibita, come è stata fin dalle scuole elementari, riferisce di essere ora più disinvolta, di frequentare volentieri amici e conoscenti? Oppure della signora di mezza età che ha improntato tutta la sua vita ad un esagerato senso del dovere, sempre dedita agli altri con comportamenti oblativi, per la quale il fare per gli altri era il pilastro della vita, la quale, dopo il trattamento “serotoninergico” per un disturbo d�ansia, scopre un “sano” egoismo che le consente di concedersi, senza colpa, oltre che al dovere talvolta anche al proprio piacere. Oppure persone analoghe che, dopo la terapia, senza registrare un viraggio dell�umore, assaporano il piacere di qualche lecita trasgressione, quasi che la rigida struttura superegoica abbia subito un ridimensionamento?
I sentimenti di colpa appaiono spesso nucleari, a fondamento dei comportamenti abituali e delle scelte, e di essi non è difficile trovare la matrice in trascorse esperienze, anche infantili, che hanno plasmato la personalità del soggetto. Non è raro, tuttavia, verificare, dopo trattamento, un allentamento dei morsi della colpa con un conseguente aumento dell�autostima e le relative conseguenze sia sul piano soggettivo sia su quello delle relazioni interpersonali.
Anche i modelli di attaccamento, e più in generale di dipendenza, sono costrutti stabili in base ai quali la persona stabilisce le sue relazioni sociali, opera le sue scelte affettive, mantiene i legami con le figure rappresentative. Non sta scritto nella scheda tecnica dei farmaci, ma uno degli “effetti collaterali” più frequenti sotto trattamento con antidepressivi serotoninergici è rappresentato da cambiamenti così profondi nella modalità di rapportarsi agli altri, con così elevato rinforzo dell�autonomia, da comportare spesso il sovvertimento dei legami affettivi, l�interruzione di apparentemente solidi rapporti sentimentali di lunga durata, la serena accettazione di relazioni alternative prima impensabili.
“Sono fatta così” è un�affermazione frequente che non ammette repliche da parte di persone che comprensibilmente ritengono certi modelli comportamentali appartenenti al proprio carattere e, come tali, scarsamente modificabili se non a prezzo di notevoli sforzi o di lunghi iter psicoterapici.
Così si esprime, ad esempio, chi è dotato di una sensibilità esagerata agli atteggiamenti degli altri, chi manifesta una esagerata ipervalorizzazione dei comportamenti altrui, per il quale la permalosità è la reazione abituale di fronte a piccoli affronti o presunti tali. Sono spesso i familiari che sottolineano, con meraviglia e compiacimento, quanto la persona sia cambiata con la cura, oltre che nella patologia, anche in questa ipersensibilità che spesso rendeva difficile la convivenza, ostacolata com�era dalla continua attenzione ai propri comportamenti nel timore di offendere e di scatenare reazioni sproporzionate e durature.
Potremmo continuare l�elenco con altri esempi. Ma, in sintesi, ciò che sorprende è quanto i cambiamenti “chimicamente” indotti a livello temperamentale, o caratteriale, o personologico siano simili a quelli che si registrano dopo intensi e prolungati trattamenti psicoterapeutici: aumento dell�autostima, maggiore fluidità nei rapporti interpersonali, diminuzione dell�aggressività difensiva in favore di un incremento dell�assertività, allentamento del controllo superegoico, globale rinforzo dell�Io e del principio di realtà, riduzione dell�interpretatività, maggiore capacità di gestire stress e frustrazioni, migliore aderenza alla realtà con comportamenti adattativi più maturi. Così radicali sono questi cambiamenti e spesso così bruschi nel loro verificarsi che talvolta pongono non pochi problemi a chi non “riconosce” la persona così come è diventata rispetto a come era e al soggetto stesso che può gradire la “nuova versione” ma non sa gestirla. È proprio questa potenzialità di cambiamenti “personologici” che rende, oggi più di ieri, opportuno integrare il trattamento farmacologico con quello psicoterapico nell�intento di aiutare il soggetto a gestire il cambiamento e a farlo suo, così che si mantenga anche quando il farmaco verrà sospeso.
Il permanere dell�effetto dopo la sospensione della terapia è in realtà uno dei punti da verificare, in quanto non ci sostiene in questo senso l�esperienza clinica abituale, visto che, nella maggioranza dei casi, chi cura prevalentemente con farmaci ha poche occasioni di rivedere i pazienti dopo la “guarigione” a terapia ultimata.
Per lo meno in ipotesi, potrebbe esistere la possibilità che i cambiamenti indotti “chimicamente” dal farmaco possano essere appresi dall�individuo. Il farmaco, attraverso la sua azione sui substrati biologici, indurrebbe una modificazione delle modalità di rapportarsi con la realtà che condizionerebbe esperienze nuove per il soggetto e conseguentemente un diverso percorso esistenziale. Il bagaglio di nuove esperienze accumulato sotto l�effetto del farmaco potrebbe essere, qualitativamente e quantitativamente, tale da tradursi in una stabile e duratura ristrutturazione degli schemi cognitivi. L�apprendimento di queste diverse modalità conoscitive potrebbe essere tale da garantire il mantenimento delle nuove abilità acquisite anche dopo l�interruzione della terapia.
Gli studi clinici
Dal punto di vista sperimentale non ci sono molti dati in letteratura a conferma di queste osservazioni cliniche (25). Per quanto riguarda il mondo animale è stato osservato che nei topi trattamenti farmacologici con antidepressivi diversi sono in grado di modificare le loro interazioni sociali andando ad agire soprattutto sul comportamento aggressivo (26)-(28).
Studi su pazienti psichiatrici
La maggior parte delle osservazioni nell�uomo sono derivate da studi su soggetti patologici, in genere pazienti depressi, in cui si è indagato se, e in quale modo, si modifichino alcune dimensioni della personalità al di là del miglioramento clinico. Allgulander et al. (29), ad esempio, hanno somministrato il Temperament and Character Inventory (TCI) di Cloninger (30), strumento costruito per la valutazione di dimensioni personologiche, a soggetti con disturbo d�ansia generalizzata prima e dopo trattamento con paroxetina, riscontrando un marcato cambiamento di aspetti “personologici”, quali la riduzione dei tratti relativi all�”harm avoidance” e un aumento di quelli riguardanti la “self-directedness”, la “cooperativeness” e il “novelty seeking”. Dopo sei mesi di trattamento i pazienti si mostravano, infatti, più esplorativi, propositivi, empatici, con maggiori risorse personali, meno pessimisti e paurosi, con un�immagine di loro stessi decisamente migliore. Risultati simili sono stati raggiunti da altri Autori in pazienti affetti da depressione unipolare trattati con antidepressivi serotoninergici (paroxetina, fluvoxamina, fluoxetina e amesergide) (31).
In entrambi gli studi è stata, comunque, evidenziata una generale riduzione dei tratti di personalità maladattativi. Il TCI è stato utilizzato anche in uno studio in doppio cieco, che confronta l�azione della imipramina, della sertralina e del placebo, nel quale si evidenzia come i farmaci modifichino significativamente solo alcune delle dimensioni del TCI, ed in particolare l�”harm avoidance” e la “reward dependance” (25). Inoltre, il fatto che la sertralina induca un maggiore cambiamento nella dimensione “harm avoidance”, mentre l�imipramina abbia un maggiore effetto sulla “reward dependance”, avvalora il costrutto psico-biologico del modello proposto da Cloninger (32), secondo il quale la personalità deriverebbe da una combinazione di tratti ereditabili, neurobiologicamente determinati, correlabili all�attività di specifici sistemi neurotrasmettitoriali (dimensione temperamentale) e tratti socio-culturalmente derivabili (dimensione caratteriale). Tuttavia, la dimensione della “harm avoidance” è particolarmente correlata anche alla sintomatologia clinica nel momento in cui viene analizzata. Infatti, Brody et al. (33), utilizzando la Cattell 16 Personality Factor Inventory (16-PF) Form A, hanno riscontrato una correlazione significativa tra il decremento dell�”harm avoidance” e la normalizzazione dei punteggi delle scale di Hamilton ad indicare che la “harm avoidance” potrebbe essere “trascinata” dalla depressione più che essere esclusivamente un tratto di personalità. Altre dimensioni, tra cui ostilità, assertività, sospettosità e schiettezza mostrano un cambiamento favorevole dopo trattamento farmacologico (in questo caso paroxetina), che prescinde dalla risposta clinica. La relativa indipendenza di alcuni tratti personologici dal quadro clinico è stata proposta anche in uno studio di Ampollini et al. (34) nel quale si rileva l�autonomia dei punteggi al Tridimensional Personality Questionnaire (TPQ) rispetto alla gravità e alla durata del Disturbo di Panico. Eskelius e Von Knorring (35) hanno valutato gli effetti del trattamento con SSRI (sertralina o citalopram) tramite il Karolinska Scales of Personality (KSP), costituito da 135 item, raggruppati in 15 scale di cui quattro esplorano la “anxiety proneness” (ansia somatica, psichica, tensione muscolare e psicoastenia), tre la vulnerabilità verso la disinibizione psicopatologica (impulsività, evitamento della monotonia e della socializzazione), sei aggressività ed ostilità (aggressività verbale ed indiretta, irritabilità, sospettosità, colpevolezza ed inibizione dell�aggressività) ed infine l�isolamento e la desiderabilità sociale. Anche i risultati di questo studio confermano la possibilità di indurre modificazioni personologiche tramite SSRI, evidenziando modificazioni verso la normalità in tutte le scale del KSP, tranne quella riguardante l�impulsività (per esempio tendono a mettersi in luce tratti di desiderabilità sociale e socializzazione a scapito dell�ansia e dell�aggressività).
Tali modificazioni appaiono tendenzialmente indipendenti dal tipo di trattamento farmacologico utilizzato, come è stato osservato da Chien e Dunner (36), che hanno confrontato paroxetina, fluoxetina e amesergide, e da Bagby et al. (37) che non hanno riscontrato particolari differenze tra un triciclico come la desipramina e SSRI quali la paroxetina e la sertralina. Se questo confronto, invece, viene fatto tra gli SSRI e un noradrenergico puro, come la reboxetina, si intravedono azioni selettive su differenti aspetti concernenti la personalità. Infatti, la reboxetina, al contrario della fluoxetina, sembra migliorare, preferenzialmente, dimensioni come la vigilanza, la motivazione e la percezione di sé (38)-(40).
Con la paroxetina Akkerman (41) osserva che meccanismi di difesa definiti come “immaturi” si modificherebbero maggiormente rispetto ad altri “più maturi”, quali quelli nevrotici, che resterebbero, invece, immodificati.
Studi su volontari sani
I dati sono ancora più scarsi per quello che riguarda le modificazioni personologiche indotte dalle terapie farmacologiche nell�uomo sano. Vi sono alcuni report “aneddotici” che segnalano come i farmaci antidepressivi potrebbero possedere, oltre alla loro efficacia sul piano clinico, anche la capacità di modificare quei tratti personologici che predisporrebbero alla depressione e al suo mantenimento (42).
In realtà, per verificare se le terapie farmacologiche abbiano effetti su schemi cognitivi “preesistenti” ad un disturbo conclamato, occorrerebbe utilizzare, come campione, soggetti sani. In letteratura, fino ad oggi, probabilmente a causa di un�oggettiva difficoltà nel reclutare un campione di volontari sani per le implicazioni di carattere etico che un siffatto campione comporta, non si ritrovano molti studi che abbiano condotto un�indagine simile.
Gelfin (43) ha somministrato la fluoxetina ad un campione di volontari sani, riscontrando l�induzione di “modificazioni personologiche” soltanto quando coesisteva anche il pattern sintomatico, ancorché sottosoglia, del disturbo, in questo caso depressivo. Tuttavia, al contrario degli studi su pazienti psichiatrici descritti sopra, nei quali sono stati utilizzati, oltre che strumenti clinici, anche strumenti specifici per la valutazione di tratti “personologici”, in questo lavoro, nonostante che l�indagine fosse condotta su soggetti sani, gli Autori si sono avvalsi di scale di tipo clinico come ad esempio quelle di Hamilton per la depressione e l�ansia e la State-Trait Anxiety Inventory; i risultati, quindi, non stupiscono.
Lo studio che ha aperto la strada in questa direzione è quello di Knutson et al. (44), i quali hanno confrontato, su volontari sani, l�effetto della paroxetina con quello del placebo. Tale studio, focalizzato su dimensioni più strettamente psicologiche, ha messo in evidenza che sotto terapia si verificano modificazioni di alcuni aspetti personologici: dopo 4 settimane di trattamento si riducevano significativamente i punteggi nelle sotto-scale aggressività e irritabilità del Buss-Durkee Hostility Inventory, e cioè i comportamenti tesi a far del male, gli atteggiamenti di aggressività indiretta (ad esempio “mettere il muso” o denigrare) e verbale e comportamenti determinati dalla mancanza di tolleranza nei confronti degli altri, accompagnati dalla sensazione di essere sull�orlo di “esplodere”. Si modificano, altresì, le dimensioni “negative”, rappresentate da ansia e ostilità, e non quelle positive, rappresentate da aspetti come affabilità e prontezza, vivacità, della Positive and Negative Affect Scale. Inoltre la somministrazione del SSRI determina un aumento dell�indice di “affiliazione sociale” valutato tramite compiti tipo puzzle task. Da sottolineare che le variazioni in corso di trattamento di tutte le variabili analizzate correlano in maniera statisticamente significativa con i livelli ematici del farmaco, ad indicare che l�effetto della paroxetina su parametri “psicologici” è dose dipendente. Più recentemente altri Autori, somministrando il TCI a volontari sani prima e dopo due settimane di trattamento con citalopram o placebo, sono giunti a risultati simili; in particolare hanno riscontrato un significativo incremento nella “Self-directedness”, che così come è descritta da Cloninger, comprende alcuni aspetti dicotomici come: responsabilità/colpevolizzazione, intenzionalità/mancanza di scopo, ricchezza di risorse/apatia e autoaccettazione/autorifiuto, ma non nella “Cooperativeness” e nella “Harm-Avoidance” (45).
Conclusioni
Le osservazioni cliniche e gli studi sia sui pazienti sia su volontari sani, nonostante la loro esiguità, sembrano avvalorare l�ipotesi di un�influenza del farmaco, oltre che sui sintomi della malattia, anche sui tratti “psicologici”, in particolare cognitivi, appannaggio della personalità.
I dati finora raccolti, specialmente se confermati da auspicabili sviluppi della ricerca in questo campo, pongono una serie di interrogativi sul significato dell�azione farmacologica sulla personalità.
La constatazione di una modificazione di tratti di personalità a seguito della somministrazione di una sostanza chimica sposterebbe assai la concezione della personalità verso il modello psicobiologico per il quale fattori genetici e fattori ambientali interagirebbero nel determinare assetti funzionali o strutturali del cervello, che si tradurrebbero nelle modalità con cui il soggetto si rapporta abitualmente con se stesso e con la realtà, e che possono talvolta costituire terreno fertile per scompensi psicopatologici. La nota plasticità del sistema nervoso centrale legittima tale ipotesi.
Tuttavia, prima di accettare una siffatta concettualizzazione, dobbiamo chiederci quanto il farmaco modifichi aspetti veramente “psicologici” o quanto piuttosto aspetti correlabili, pur nell�assenza di malattia, con la matrice di una patologia e quindi di per sé interpretabili come biologicamente fondati.
I tratti modificati dal farmaco potrebbero, ad esempio, essere rappresentati da sfumati sintomi psicopatologici, espressione sottosoglia di un disturbo psichiatrico insorto così precocemente da interagire con fattori di ordine psicologico ed ambientale nella costruzione della personalità. Come tali, essi, in quanto appartenenti ad uno spettro di psicopatologia, rispondono alla farmacoterapia analogamente a quanto fanno i sintomi conclamati. Ad esempio, l�intolleranza, che vediamo ridursi drammaticamente a seguito di trattamento con paroxetina, potrebbe non essere un tratto personologico in senso stretto, ma l�espressione di una disforia attenuata correlata ad uno stato depressivo sottosoglia, così come l�incremento di autonomia osservata con trattamenti antidepressivi potrebbe essere correlato alla scomparsa di elementi di dipendenza appartenenti allo spettro panico-agorafobico.
Quindi, una prima “dissection” dovrebbe essere operata isolando gli effetti del farmaco sui sintomi di spettro rispetto a quelli che possono essere ritenuti tratti di personalità in senso stretto.
Un�altra problematica riguarda la concettualizzazione della natura del temperamento con particolare riferimento ai così detti “temperamenti affettivi”.
Infatti, se accettiamo l�ipotesi di un determinismo prevalentemente biologico dei temperamenti, sostenibile specialmente se intesi nel senso dei “temperamenti affettivi”, allora non meraviglia che i farmaci possano produrre una qualche modificazione di questa struttura di fondo, anche se ancorata a profonde e ontogeneticamente antiche radici. Analoghe sono le considerazioni se seguiamo Cloninger nella sua teoria della personalità, nella quale le diverse dimensioni fondanti sarebbero modulate da altrettanti sistemi neurotrasmettitoriali, quelli appunto su cui agiscono gli psicofarmaci.
In tutto ciò si intravede comunque la prospettiva di una “pharmacological dissection” che usi l�effetto del farmaco per distinguere quegli aspetti della personalità ascrivibili ad una matrice biologica, i quali si modificano con la sostanza chimica, da altri non influenzati da essa, che sarebbero di natura più squisitamente psicologica.
Sul piano clinico non vi è chi non veda come la documentazione di effetti farmacologici sui tratti di personalità apra la strada ad inquietanti possibilità di “curare” farmacologicamente il soggetto non patologico. Il termine “cosmesi psicofarmacologica” rende molto bene questa eventualità e le relative problematiche di ordine etico. È legittimo intervenire, con sostanze chimiche che agiscono sulla mente, su una persona non malata al fine di “ritoccarne” alcuni aspetti negativi, soggettivamente o obiettivamente fastidiosi? È legittimo, viceversa, non adoperare risorse farmacologiche oggi a disposizione per attenuare componenti personologiche che, prescindendo dalla loro natura “normale” o patologica, sono comunque in grado di interferire notevolmente se non con la salute quanto meno con la qualità della vita del soggetto o di chi gli sta vicino? Interventi farmacologici di questo genere potrebbero domani soppiantare del tutto o in parte gli assai più onerosi trattamenti psicoterapici?
Al di là di queste legittime e talora inquietanti perplessità l�evidenza di modificazioni personologiche indotte da psicofarmaci rende sicuramente un servizio alle sostanze psicoattive, conferendo al loro spettro di azione sfaccettature sempre più articolate e verosimilmente specifiche per ciascuna di esse, che potrebbero contribuire ad una migliore definizione delle peculiarità elettive di ogni psicofarmaco e di uscire dallo squallido qualunquismo di chi li vorrebbe sostanzialmente tutti uguali.
Questa migliore e più articolata definizione del farmaco, questa possibilità di vedere la sua azione al di là della più clamorosa efficacia sui sintomi invita comunque il clinico ad affinare la propria sensibilità nell�uso di sostanze psicoattive e sollecita il curante ed il paziente ad un “ascolto” molto più attento del farmaco e dei suoi effetti, come Kramer (46) già da tempo aveva intuito nel suo “Listening to Prozac”. È attraverso questo “ascolto”, sensibile alle sfumature e libero da pregiudizi, che le potenzialità del farmaco possono essere sfruttate al meglio così da realizzare un�interazione consapevole non solo fra paziente e terapeuta, ma anche fra paziente, farmaco e terapeuta. “Ascoltare” il farmaco vuol dire che il paziente, da oggetto passivo che “subisce” e supinamente attende l�effetto della sostanza, recupera la sua natura di soggetto che usa il farmaco come si usa uno strumento, lo “cavalca” cogliendone i movimenti e le sensazioni che induce, mette a frutto le esperienze che l�azione del farmaco rende realizzabili, facendo progressivamente propri i modelli di comportamento e di rapporto con la realtà adottati durante il percorso farmacoterapeutico. E il terapeuta, in questo processo, dovrebbe essere la guida competente, l�istruttore esperto che suggerisce al paziente come “cavalcare” al meglio l�azione del farmaco.
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