Neurobiologia degli Attacchi di Panico

Neurobiology of panic attacks

G.D. Kotzalidis, R. Brugnoli, V. Orlandi, M. Donnini, A. Parmegiani, P. Pancheri

III Clinica Psichiatrica, Università di Roma "La Sapienza"

Parole chiave: Attacco di panico • Disturbo di panico • Neuroanatomia • Neurobiologia • Neurochimica • Test di stimolazione • Acido lattico • Anidride carbonica • Tetrapeptide C-terminale della colecistochinina (CCK-4) • Cholecistochinina • Noradrenalina • Serotonina • Fenfluramina • GABA • Flumazenil (Ro-15-1788) • Metilxantine • Caffeina • Amigdala • Locus coeruleus • Rafe • Sostanza grigia periacqueduttale • sistemi glutamatergici
Key words: Panic • Panic disorder • Neuroanatomy • Neurobiology • Neurochemistry • Provocation (challenge) tests • Lactic acid • Carbon dioxide • Cholecystokinin C-terminal tetrapeptide (CCK-4) • Cholecystokinin • Noradrenaline • Serotonin • Fenfluramine • GABA • Flumazenil (Ro-15-1788) • Methylxanthines • Caffeine • Amygdala • Locus coeruleus • Raphé • Periaqueductal grey • Glutamatergic systems

Una teoria neurobiologica per il disturbo di panico è stata formulata sin dall’inquadramento del disturbo come entità nosografica autonoma nel 1980, da parte del DSM-III (1). Infatti, fino ad allora, per spiegare il disturbo prevalevano le teorie cosiddette “psicologiche” che tendevano a vederlo come un estremo di uno stato d’ansia. La teoria neurobiologica, proposta negli stessi anni da Donald F. Klein (2), ha dato l’impulso per la ricerca neurobiologica sul disturbo di panico, considerato non come l’estremo di un continuum, ma una parte di uno spettro con caratteristiche proprie specifiche (3).

Per comprendere il substrato biologico degli attacchi di panico sono stati effettuati studi su animali sperimentali e studi su volontari sani e pazienti. I primi implicavano l’esposizione dell’animale ad uno stimolo estremamente minaccioso per la vita dello stesso animale o secondo una procedura di condizionamento, cioè la presentazione di uno stimolo neutro (condizionato) assieme alla presentazione di uno stimolo spiacevole o fobigeno. Questi studi tuttavia vanno ad indagare quali sono i circuiti e i neurotrasmettitori implicati nella generazione della paura, ma sono solo indicativi di quello che potrebbe riguardare un attacco di panico. Se nel primo paradigma si può riprodurre in approssimazione una paura estrema che minaccia la vita nell’immediato, e che potrebbe costituire un analogo dell’attacco di panico spontaneo, occorre tenere tuttavia presente che negli attacchi di panico gli eventuali stimoli non condizionati non hanno lo stesso significato dello stimolo minaccioso. Nel secondo paradigma invece, si ottiene un analogo di un comportamento fobico ed una manifestazione di paura che possono condividere con gli attacchi di panico alcune manifestazioni periferiche, ma non è detto che i processi cerebrali implicati nella generazione degli attacchi di panico e quelli attivati in un animale dall’esposizione ad uno stimolo fobigeno o shockante abbiano un’assoluta corrispondenza, anche perché il cervello umano è molto più complesso e comunque diverso dal cervello dell’animale sperimentale.

Gli studi nell’uomo invece possono studiare le modificazioni psicofisiologiche e cerebrali durante un attacco di panico, nonché eventuali differenze biologiche tra pazienti affetti da disturbo di panico e soggetti di controllo. Questi ultimi possono differire dai pazienti affetti da disturbo di panico in alcuni indicatori biologici (4,5,6), ma non sempre differiscono nell’attività cerebrale rilevabile attraverso le tecniche attualmente disponibili se non è in atto un attacco di panico. Tale attacco è un evento che modifica profondamente la normale attività cerebrale dell’individuo, ma riuscire ad identificare queste modificazioni non può essere oggetto di uno studio sistematico, ma piuttosto un reperto occasionale, a meno che l’attacco non sia indotto con uno degli stimoli che hanno maggiore probabilità di evocare un attacco in un soggetto con disturbo di panico che in un soggetto di controllo.

Un altro modo per studiare la neurobiologia degli attacchi di panico è l’attuazione di metodi che hanno la probabilità di indurre un attacco. Tali metodi possono essere fisici, come l’iperventilazione, o chimici, come la somministrazione di acido lattico, di bicarbonato di sodio, di anidride carbonica, di doxapram, di analoghi o frammenti della colecistochinina, di caffeina, di antagonisti o agonisti inversi dei siti benzodiazepinici sul recettore GABAA, di farmaci che inducono rilascio di serotonina o di agonisti di alcuni suoi recettori post-sinaptici, di farmaci b-adrenergici o a2-adrenolitici (7). Tuttavia, tali metodi inducono un attacco che non può avere tutte le caratteristiche dell’attacco di panico naturalistico, dato che il soggetto è reso consapevole della sua possibile evocazione, dato che si svolge in un ambiente standardizzato e controllato e dato che il soggetto sa che vi sono alla portata delle persone che lo potranno aiutare, tutte condizioni che snaturano la vera essenza dell’attacco.

Si è ipotizzato che una trasmissione difettosa o esagerata nell’ambito di un circuito che comprende l’ippocampo, vari nuclei amigdaloidei, la sostanza grigia periacquedottale, la corteccia prefrontale mediale e quella cingolata, vari nuclei ipotalamici, il nucleo parabrachiale, il nucleo del tratto solitario, il locus coeruleus e la parte sensoriale del talamo possa rendere conto della sintomatologia degli attacchi di panico (8). Occorre tenere presente che questo circuito, con le sue varie e reciproche connessioni, è in rapporto con altri nuclei e circuiti cerebrali, evidenziati in Figura 1, che sono preposti anche ad altre funzioni, oltre a quella di controllare la paura. Inoltre, bisogna considerare che il disturbo di panico è una condizione nella quale, verificatosi il primo episodio di panico, la neurochimica e l’attività dei circuiti cerebrali si modificano permanentemente, andando incontro ad una vulnerabilità del circuito, che consente più facilmente il verificarsi di un attacco di panico. Quindi, il cervello funziona diversamente prima e dopo il primo attacco di panico.

Dopo avere espresso queste riserve, passiamo a considerare alcuni studi che ci consentono di meglio caratterizzare la neurobiologia del disturbo di panico.

Studi di visualizzazione cerebrale (neuroimaging)

Per localizzare le aree patologiche nel disturbo di panico, sono stati effettuati studi sia strutturali che funzionali. Due studi effettuati utilizzando la risonanza magnetica nucleare hanno messo in evidenza una maggiore frequenza di anomalie anatomiche del lobo temporale nei pazienti con disturbo di panico (≥ 40%), rispetto ai soggetti di controllo (10%) (9,10); inoltre, i pazienti con tali anomalie avevano un esordio più precoce ed una maggiore frequenza di attacchi (10). Un altro studio ha evidenziato una maggiore frequenza di anomalie anatomiche setto-ippocampali nei pazienti con disturbo di panico, soprattutto nei pazienti con reperti elettroencefalografici abnormi (11). Infine, uno studio volumetrico effettuato con la risonanza magnetica ha evidenziato una riduzione significativa del volume del lobo temporale bilateralmente nei pazienti con disturbo di panico, rispetto ai volontari sani, ma nessuna differenza nel volume ippocampale o cerebrale totale (12).

L’imaging cerebrale dinamico può visualizzare il funzionamento del cervello dei pazienti sia in condizioni intercritiche che in corso di attacco di panico. Tuttavia, anche se non impossibile, l’attacco di panico è difficile coglierlo mentre si effettua l’indagine strumentale e quindi si possono ottenere solo segnalazioni di casi singoli in proposito, mentre è più facile eseguire studi controllati su pazienti sensibili a vari agenti panicogeni, inducendo l’attacco di panico e andando a studiare le modificazioni rispetto a prima e rispetto a soggetti di controllo. Studi dinamici sono stati effettuati con la tomografia ad emissione di positroni (PET) e con la tomografia computerizzata ad emissione di fotone singolo (SPECT), ma non con la risonanza magnetica nucleare funzionale. Con la SPECT sono stati messi a confronto pazienti con disturbo di panico, con disturbo ossessivo compulsivo, con disturbo post-traumatico da stress e volontari sani. è stato indagato il flusso ematico cerebrale regionale nel solo caudato; i pazienti con disturbo di panico non differivano dai controlli sani, mentre differivano sia dai pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo (13,14) che dai pazienti con disturbo post-traumatico da stress (14). Un altro studio ha invece confrontato pazienti con disturbo di panico con volontari sani sotto infusione di acido lattico; l’infusione induceva un forte aumento della perfusione emisferica cerebrale solo nei soggetti che non sviluppavano panico sotto infusione, mentre nei soggetti che andavano incontro ad un attacco di panico la perfusione era solo marginalmente aumentata, inalterata o addirittura diminuita durante l’infusione (15). Un’anomalia del sistema GABAergico è stata invece sostenuta dagli studi SPECT, ma è tuttora dibattuta (16). Una riduzione del legame benzodiazepinico è stata trovata in due studi nella corteccia frontale (17,18), temporale (17,18) ed occipitale (18) di pazienti con disturbo di panico rispetto a pazienti con disturbo distimico (17) o con epilessia (18). Un altro studio invece ha messo in evidenza una riduzione del volume di distribuzione del complesso recettoriale GABAA-benzodiazepinico nell’ippocampo e nel precuneo di pazienti con disturbo di panico rispetto ai volontari sani, ma anche una riduzione del suddetto legame recettoriale nella corteccia prefrontale nei pazienti che al momento dell’esecuzione dell’indagine esperivano un attacco di panico rispetto ai pazienti che non esperivano tale attacco (19). Una riduzione del legame GABAergico-benzodiazepinico è indotta dalla stimolazione dei recettori CCKB (20) e potrebbe essere questo uno dei meccanismi attraverso i quali la colecistochinina e i suoi analoghi inducono attacchi di panico in alcuni soggetti predisposti (Fig. 1).

Gli studi effettuati con la PET hanno evidenziato modificazioni della perfusione ematica nei pazienti con disturbo di panico anche in assenza di attacco, ma hanno consentito di differenziare i pazienti sensibili all’azione panicogena dell’acido lattico da quelli insensibili. I pazienti sensibili al lattato dimostrano un’asimmetria abnorme nella perfusione del giro paraippocampale (21) anche prima dell’infusione di lattato e un aumento della perfusione nella corteccia somatosensoriale destra durante la fase di ansia anticipatoria (22), un aumento nella perfusione della corteccia occipitale ed un’asimmetria nella perfusione della corteccia frontale inferiore con concomitante riduzione della perfusione ippocampale (23). Il metabolismo cerebrale globale è aumentato in questi pazienti (24). In uno studio PET sul condizionamento fobico, una paziente partecipante ha sviluppato un attacco di panico spontaneo; questa paziente evidenziava una riduzione della perfusione ematica cerebrale regionale nella corteccia orbitofrontale di destra, nella corteccia prelimbica, in quella del cingolo e nella temporale anteriore (25), aree interessate nel disturbo ossessivo-compulsivo, nel disturbo post-traumatico da stress e in fobie specifiche. Anche la PET ha messo in evidenza una riduzione del legame GABAA/benzodiazepinico, ma non nelle aree evidenziate dalla SPECT, bensì nella corteccia orbitofrontale di destra e nell’insula di Reil (26). Un recente studio effettuato con la PET ha evidenziato un’anomalia focale nel lobo temporale in una paziente con esordio di disturbo di panico che successivamente si è rivelato essere un’epilessia del lobo temporale (27).

Attacchi di panico indotti

Sulla base del meccanismo ipotizzato, i metodi d’induzione di ansia o di un attacco di panico si suddividono in due grosse categorie: metodi respiratori e metodi attivanti l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) (7) (Tab. I). In realtà, il meccanismo d’azione per ognuno dei metodi è più complesso e tende ad essere misto; infatti, i sistemi illustrati in Figura 1 sono così integrati funzionalmente che non è possibile influire su uno lasciando gli altri inalterati. Non è nemmeno pratico distinguere tra metodi fisici e chimici, poiché ogni metodo fisico ha anche i suoi correlati neurochimici e metabolici ed ogni metodo chimico induce una modificazione dell’attività fisica (ad esempio, la cardioaccelerazione, che può essere un evento perifericamente indotto, viene comunque percepita a livello corticale e ciò scatena una risposta dal nucleo amigdaloideo centrale ed inoltre esita in una modificazione del metabolismo, influendo sui livelli di acido lattico, che agiscono anche a livello centrale, influenzando anche i centri respiratori e modificando la perfusione ematica cerebrale; inoltre, una modificazione dell’attività è comunque percepita dall’asse HPA, la cui “resilience” è indicatore di quanto facilmente l’organismo supererà una situazione stressante). Ne consegue che questi metodi panicogeni potranno influenzare la “circuitry” illustrata in Figura 1 in uno o più punti, consentendo che l’attività integrata risulti perturbata. Se l’asse HPA è anch’esso compromesso, il soggetto, a prescindere dal tipo di patologia o dallo stato di salute, potrà sviluppare un attacco di panico o semplicemente manifestare sintomi ansiosi.

Iperventilazione e doxapram, lattato e bicarbonato di sodio

Tra le sostanze panicogene, il lattato di sodio è stata la prima e più estesamente studiata. Questo prodotto del catabolismo è stato visto indurre attacchi di panico in una varietà di condizioni, come il disturbo post-traumatico da stress (28), la sindrome premestruale (29), la depressione (30,31), ma anche in volontari sani con familiarità per i disturbi d’ansia (32) o con alti punteggi ansiosi nella fase precedente l’infusione di lattato (33). Tuttavia, l’infusione di lattato di sodio induce attacchi di panico nella popolazione affetta da disturbo di panico in misura superiore a quella delle altre condizioni, fino al 72% (34). Tra i fattori predittivi dello sviluppo di un attacco di panico in pazienti con disturbo di panico dopo infusione di lattato si possono citare gli alti punteggi ansiosi (35), l’iperattivazione dell’asse HPA e l’iperventilazione pre-infusione (36), mentre il forte consumo di alcol sembra costituire un fattore protettivo (37). Il prolasso mitralico come fattore predisponente è stato dapprima proposto (38) e poi confutato (39). La riportata mancata attivazione dell’asse HPA sotto lattato di sodio (40) può essere compresa se si pensa che i soggetti che sviluppano panico hanno un maggiore incremento dei livelli del peptide natriuretico atriale rispetto ai controlli (41,42); infatti, tale peptide deprime la reattività dell’asse HPA. La somministrazione di farmaci bloccanti il recettore CCKB, che bloccano gli attacchi di panico indotti da colecistochinina e suoi frammenti, non è riuscita a bloccare lo sviluppo di un attacco indotto dal lattato di sodio (43,44).

La somministrazione di lattato in volontari sani sviluppa attacchi di panico in circa 25% dei soggetti e il follow-up di circa 3 anni di questi pazienti evidenzia lo sviluppo di attacchi di panico sporadici in circa 5% (45). Ciò pone dei problemi etici nell’esecuzione di studi di stimolo panicogeno in volontari sani.

Si ritiene che il lattato venga prima metabolizzato in bicarbonato di sodio ed in virtù di questa conversione induce alcalosi che sarebbe poi responsabile dell’attacco di panico; tuttavia, sebbene anche il bicarbonato di sodio sia un efficace panicogeno, induce attacchi di panico in una percentuale di pazienti affetti da disturbo di panico inferiore a quella del lattato (46).

Il ruolo dell’iperventilazione come metodo panicogeno è controverso. Infatti, c’è chi sostiene che l’iperventilazione sia conseguenza e non causa dell’attacco di panico (47) e che non sarebbe necessaria nello scatenamento dell’attacco (48). L’iperventilazione causa attacchi di panico in una bassa percentuale di pazienti affetti da disturbo di panico; tale percentuale è inferiore a quella nella quale l’attacco di panico è evocato dall’anidride carbonica (49). Piuttosto, i pazienti con disturbo di panico o fobia sociale che sviluppano attacchi di panico sotto noradrenalina sono più sensibili agli effetti dell’ipersimpatismo e tendono ad avere una reattività ventilatoria, misurata con il decremento della pressione parziale di anidride carbonica, più pronunciata rispetto ai pazienti che non sviluppano un attacco di panico (50). Infatti, se l’ipercapnia è tra i fattori dell’induzione dell’attacco di panico, non si comprende perché l’iperventilazione non sia prottettiva piuttosto che panicogena. Il fatto è che l’iperventilazione aumenta i livelli di acido lattico (51) ed in particolare, i pazienti con disturbo di panico rispondono all’iperventilazione con un aumento dei livelli serici di acido lattico (52); inoltre, l’iperventilazione induce un aumento dei livelli di acido lattico cerebrale, rilevati con metodo spettroscopico a risonanza magnetica, che è superiore nei pazienti affetti da disturbo di panico rispetto ai soggetti di controllo (53). Quindi, gli aumentati livelli cerebrali di acido lattico da iperventilazione produrrebbero panico agendo sulle cellule sensibili all’anidride carbonica del locus coeruleus (54) e scatenando una risposta neuroendocrina da stress ed un ipersimpatismo, ma c’è chi sostiene che più che l’ipersimpatismo, sarebbe l’ipoparasimpatismo indotto dall’acido lattico e dall’iperventilazione ad essere responsabile degli attacchi di panico (55). I pazienti con disturbo di panico sarebbero più vulnerabili allo sviluppo dell’attacco di panico anche perché iperventilano più dei pazienti affetti da fobia sociale o da disturbi d’ansia (56). Riassumendo, l’iperventilazione, oltre che essere una conseguenza dell’attacco di panico, può causare un tale attacco in soggetti particolarmente sensibili con la compartecipazione di fattori metabolici e cognitivi (57); infatti, gli effetti soggettivi dell’iperventilazione sono modulati da fattori cognitivi, quali le aspettative positive o negative (58).

Un’azione simile a quella dell’iperventilazione viene evidenziata dal doxapram, un farmaco che induce iperventilazione (59); tuttavia, il farmaco si rivela molto più efficace dell’iperventilazione nell’indurre attacchi di panico in pazienti affetti da disturbo di panico (75%) e in volontari sani (12%) (60). Questa superiorità del doxapram può essere attribuita ad un’azione aggiuntiva di cardioaccelerazione, poiché la sua somministrazione induce un incremento transitorio dell’adrenalina plasmatica (61).

Anidride carbonica (CO2)

I pazienti affetti da disturbo di panico sono più sensibili dei controlli sani o con disturbo ossessivo-compulsivo all’azione panicogena dell’anidride carbonica (62). Nei vari studi sono state somministrate miscele di ossigeno e CO2 che andavano dal 5% di CO2 (63) al 35% (64). è stato rilevato un aumento dei sintomi ansiosi maggiore con la CO2 nei pazienti affetti da disturbo di panico rispetto a quelli con disturbo d’ansia generalizzato (65). Inoltre, i pazienti con rari attacchi di panico senza agorafobia, hanno la stessa sensibilità alla CO2 dei pazienti con disturbo di panico e ambedue questi gruppi differiscono dai volontari sani, che non sono sensibili alla CO2 (66). La sensibilità all’anidride carbonica è aumentata dalla comorbidità con un disturbo depressivo (67). Come è stato osservato con l’acido lattico, non è apparente un’attivazione dell’asse HPA (68) ma diversamente dall’acido lattico stesso, la pre-somministrazione di un b-bloccante (propranololo) induce una riduzione dei sintomi ansiosi e panico-simili esperiti (69). Ciò fa pensare ad un meccanismo noradrenergico nell’azione panicogena della CO2. Infatti, nel locus coeruleus esistono neuroni noradrenergici chemosensibili alla CO2 e la cui attività è controllata da un canale del potassio rettificante sensibile alle poliamine, come la spermina (70). Si potrebbe ipotizzare che alcuni pazienti con disturbo di panico e chemosensibilità alla CO2 abbiano un’eccessiva sensibilità alle poliamine deprotonate. La sintomatologia panicosa indotta dalla CO2 è aggravata dalla deplezione del triptofano (71,72), il precursore della serotonina; ciò fa pensare ad un meccanismo serotoninergico nell’induzione dell’attacco da CO2. Riassumendo, meccanismi sia noradrenergici che serotoninergici sembrano alla base dell’induzione di attacchi di panico da parte della CO2.

Isoproterenolo e adrenalina

L’isoproterenolo a dosaggi medio-bassi induce attacchi di panico in misura inferiore a quella dell’infusione di lattato di sodio sia in soggetti volontari sani (45,73), ma alla dose di 18,5 ng/kg�min-(1) circa l’80% dei pazienti sviluppano attacchi di panico (74). La sintomatologia del panico da isoproterenolo è simile a quella indotta dal lattato e dal placebo (74,75). Il trattamento con antidepressivi triciclici riduce nei pazienti con disturbo di panico i punteggi su una scala di valutazione del panico (Panic Description Scale) ed il numero di pazienti che sviluppavano panico sotto isoproterenolo dopo sole due settimane di trattamento, presumbilmente per la down-regulation dei recettori b1-adrenergici post-sinaptici (76).

Anche l’adrenalina ha indotto panico in circa i due terzi dei pazienti con attacchi di panico (77,78), a confronto con solo un quarto dei pazienti che hanno ricevuto placebo. L’infusione a dosaggi fisiologici ha indotto anche tachicardia e abbassamento della pressione parziale di anidride carbonica nei pazienti in cui ha indotto un attacco di panico (77,78). La rielaborazione cognitiva e la razionalizzazione del contesto non influenzano il tasso di risposta panicosa in questo tipo di pazienti (79). Si presume che l’iperventilazione abbia un ruolo nella determinazione degli attacchi di panico da adrenalina (80).

Yohimbina

La yohimbina è un antagonista a2-adrenergico con preferenza per l’autorecettore presinaptico. Il suo legame su questo recettore risulta in un ridotto controllo del firing e la disinibizione dei neuroni noradrenergici del locus coeruleus. È stato ipotizzato che un aumento della frequenza di scarica possa sottostare allo sviluppo degli attacchi di panico. La somministrazione di yohimbina in pazienti con attacchi di panico induce un aumento del metabolita principale della noradrenalina 3-metossi, 4-idrossi-fenilglicole (MHPG) nel plasma che è superiore a quello indotto in volontari sani e si correla con lo sviluppo di attacchi di panico (81,82), un fatto accompagnato da modificazioni del flusso ematico cerebrale (83) e compatibile con un’ipersensibilità dei recettori a2-adrenergici nel disturbo di panico. La somministrazione di yohimbina non influiva sui livelli plasmatici di somatotropina (84), che sono influenzati dall’agonista a2-adrenergico clonidina e sono prevalentemente legati all’attività di un recettore a2-adrenergico post-sinaptico, che nel disturbo di panico è iposensibile (85). Il farmaco non influisce sui livelli del metabolita principale della dopamina acido omovanillico (HVA), sia nei pazienti che nei volontari sani (86). I pazienti con disturbo di panico che sviluppano attacchi di panico sotto yohimbina rispondono alla clonidina con una potente riduzione dei livelli di MHPG (autorecettori a2-adrenergici presinaptici ipersensibili) ed una ridotta risposta della somatotropina (recettori a2-adrenergici postsinaptici iposensibili) (87). Il meccanismo d’azione della yohimbina nell’indurre panico sembra essere attraverso un’attivazione del sistema simpatico, poiché i pazienti con disturbo di panico differiscono dai volontari sani per la loro reattività neurovegetativa, ma non per la risposta neuroendocrina o cardiovascolare al farmaco (88), anche se un’interferenza con il sistema serotoninergico non sia da escludere (89).

Agenti serotoninergici: m-clorofenilpiperazina (mCPP) e D-fenfluramina

La D-fenfluramina è un farmaco che induce liberazione di serotonina dai terminali sinaptici e ne aumenta il turnover e la dispersione. Somministrata in pazienti di sesso femminile con disturbo di panico, a confronto con pazienti con depressione maggiore e con volontarie sane, ha indotto un aumento della sintomatologia ansiosa ed un aumento dei livelli di prolattina significativamente superiore nelle pazienti affette da disturbo di panico (90). L’accentuata risposta iperprolattinemica alla fenfluramina che è stata interpretata in un primo tempo come indicativa di un’ipersensibilità dei recettori serotoninergici post-sinaptici (5-HT1A, 5-HT2A, 5.HT3) (91) non fu successivamente confermata (92), mentre anche la responsività dell’asse HPA non fu trovata differire tra pazienti con disturbo di panico e volontari sani in quest’ultimo studio. In uno studio successivo venne rilevata ipercortisolemia durante un attacco di panico indotto da fenfluramina (93). Uno studio PET ha evidenziato un’anomalia nella perfusione della corteccia parietale posteriore e temporale superiore di sinistra nei pazienti con disturbo di panico (94). Mentre la fenfluramina induce aumenti nell’ansia dei soggetti ai quali viene somministrata e attacchi di panico in soggetti predisposti, riduce la sintomatologia ansiosa in soggetti stimolati con CO2 (95); inoltre, sono stati segnalati casi in cui la sua somministrazione ha giovato alla sintomatologia panicosa (96), anche in associazione con benzodiazepine (97).

La mCPP è un agonista preferenziale dei recettori 5-HT2C, ma ha anche affinità per i recettori 5-HT2A e 5-HT1A. La sua somministrazione ha indotto l’insorgenza di attacchi di panico nella metà dei pazienti con attacchi di panico e in un terzo di volontari sani in uno studio (98), ma tale differenza non era statisticamente significativa. La somministrazione di mCPP non è un buon test per differenziare i pazienti con disturbo di panico dai soggetti sani e, inoltre, vi è un effetto del genere nella risposta neuroendocrina nel disturbo di panico: le donne con attacchi di panico avevano una risposta della prolattina e dell’adrenocorticotropina (ACTH) significativamente più accentuata che nelle volontarie sane (99). Tuttavia, in un altro studio, la risposta della prolattina ad un dosaggio ridotto di mCPP risultò abbassata (100). La mCPP ha indotto in uno studio ipercortisolemia che era inversamente correlata alla risposta al triciclico desipramina, sia in pazienti depressi che in pazienti con disturbo di panico (101).

Flumazenil e altri anti-GABAergici

Nel recettore GABAA vi sono siti che legano altre sostanze endogene oltre il GABA, la cui natura non è stata ancora del tutto chiarita. Uno di questi siti è quello benzodiazepinico, che lega le benzodiazepine, un octadecaneuropeptide (ODN) derivato dalla proteina inibitrice del legame del diazepam (Diazepam Binding Inhibitor, DBI) e delle carboline. La peculiarità di questo sito è che influenza il legame del GABA e la frequenza di apertura del canale del cloro in modo bidirezionale; vi sono ligandi, come le benzodiazepine, che vengono definiti agonisti e che aumentano la frequenza di apertura rispetto alla condizione basale, altri ligandi, detti ansiogeni, come il DBI-ODN e le b-carboline ansiogene, che vengono definiti antagonisti e riducono la probabilità che il GABA si leghi al proprio sito, determinando una riduzione della frequenza di apertura del canale cloro rispetto al basale, infine, sostanze come il flumazenil, definite antagoniste, che inibiscono l’azione sia degli ansiolitici che degli ansiogeni e riportano la funzione del canale cloro alla condizione basale. Quindi, l’antagonista del sito benzodiazepinico potrà risultare ansiogeno o ansiolitico a seconda dello stato funzionale del sito (la direzione rispetto al basale) nel momento della sua somministrazione. Occorre comunque considerare che la situazione basale del recettore è nella direzione dell’ansia e che la situazione psicologica normale di base nella maggioranza degli individui è verso una certa occupazione dal recettore benzodiazepinico dal suo agonista endogeno.

La somministrazione nel locus coeruleus di farmaci anti-GABAA come la bicucullina o di antagonisti del sito benzodiazepinico, come la b-carbolina etil-b-carbolina-3-carbossilato, induce manifestazioni panico-simili in roditori (102); tali manifestazioni vengono bloccate dall’agonista GABAA muscimolo e dall’antagonista benzodiazepinico flumazenil, rispettivamente. L’attivazione dei neuroni noradrenergici del locus coeruleus è stato ipotizzato come causa di queste manifestazioni. Un’altra b-carbolina ansiogena ha aumentato nel ratto il catabolismo della noradrenalina nell’ipotalamo, nell’amigdala, nella corteccia cerebrale e nel talamo (103), tutte aree facenti parte del circuito che controlla l’ansia e il panico. L’azione ansiogena di questa b-carbolina è bloccata dalla somministrazione di triazolobenzodiazepine, che sono anche in grado di bloccare anche la sintomatologia ansioso-panicosa indotta dalla yohimbina (104). La somministrazione di sostanze anti-GABAergiche non è consigliabile come test di stimolo nell’uomo, dato il potenziale di induzione di convulsioni. Anche se l’esperienza con le b-carboline ansiogene è limitata, è stato riportato che inducono attacchi di panico (7,105).

L’esperienza invece con l’antagonista benzodiazepinico flumazenil è cospicua. In un primo studio è stato riportato un aumento dell’ansia autovalutata dai soggetti con disturbo di panico; in questo gruppo di pazienti, che ha ricevuto per un’ora 2 mg/min. di flumazenil in infusione, l’80% ha sviluppato un attacco di panico con questo farmaco, mentre nel gruppo dei volontari sani nessun soggetto ha sviluppato tale attacco (106). In un altro studio, il flumazenil ha indotto attacchi di panico nel 40% dei soggetti con disturbo di panico contro lo 0% del placebo, mentre i parametri cardiovascolari, endocrini e catabolici non differivano tra due dosi di flumazenil e placebo; la dose di flumazenil con la quale si sono verificati attacchi di panico non è quella alta di 600 mg, bensì quella intermedia di 200 mg (107). Quindi sembrerebbe da questi studi che questo test abbia un’alta specificità. Tuttavia, studi successivi hanno rilevato percentuali di sviluppo di un attacco di panico dello 0% tra i pazienti con disturbo di panico sottoposti a flumazenil, mentre con l’acido lattico si sono registrate le solite percentuali di induzione di attacchi (108,109). Alla base di queste discrepanze sono state ipotizzate differenze nel disegno sperimentale e nel dosaggio (16). Inoltre, il farmaco ha indotto attacchi di panico (comprensibilmente) anche in una popolazione non panicosa, composta da soggetti con uso cronico di benzodiazepine in astinenza (110).

Tentando di mettere alla prova l’ipotesi che nel disturbo di panico ci fosse uno spostamento della condizione basale del sito delle benzodiazepine verso l’ansiogenesi, è stato utilizzato il flumazenil è stato anche utilizzato in due dosaggi verso placebo per osservare eventuali riduzioni nei punteggi ansiosi in pazienti con disturbo di panico, ma non ha messo in evidenza effetti ansiolitici o loro correlati somatici o metabolici (107). In un altro studio è stato utilizzato per verificare se il tetrapeptide C-terminale della colecistochinina (CCK-4) induce panico con la mediazione dei recettori GABAA/benzodiazepinici, ma non ha mostrato nessun’influenza sullo sviluppo di attacchi di panico (111). Ciò tuttavia non esclude la possibilità che la CCK agisca attraverso meccanismi GABAergici, dato che influisce su questi ultimi in modo complesso (Fig. 1). Nella corteccia cerebrale la CCK induce la liberazione di GABA (112) e la stimolazione di recettori di tipo centrale (CCKB) ha un effetto negativo sulla capacità di legame del sito GABAA (20), per cui il flumazenil che antagonizza il sito benzodiazepinico potrebbe fare ben poco per bloccare questi meccanismi. Inoltre, occorrerebbe un agonista benzodiazepinico per verificare se il sito sia in qualche modo coinvolto nell’azione panicogena della CCK.

Caffeina

La caffeina, una metilxantina che blocca i recettori adenosinici e lega quelli ryanodinici, ad alte concentrazioni ha anche un effetto di blocco della fosfodiesterasi, l’enzima che degrada l’adenosina monofosfato ciclico (cAMP). Tuttavia, alle concentrazioni normalmente utilizzate, i meccanismi d’azione principali sembrano i primi due, più altri attualmente sconosciuti e che coinvolgono il transito intracitoplamico degli ioni calcio. L’importanza della sua azione sui recettori ryanodinici nella funzione cerebrale non è stata ancora ben indagata. I recettori ryanodinici sono distribuiti in moltissimi tessuti e sono particolarmente densi nel muscolo scheletrico e in quello cardiaco, dove si situano nel reticolo endoplasmico o sarcoplasmatico (113,114) e regolano il passaggio intracitosolico degli ioni calcio, mentre nel cervello sono distribuiti sia nel reticolo intracitoplasmico, sia sulle membrane presinaptiche (115), dove prenderebbero parte ai processi di trasmissione sinaptica. La distribuzione cerebrale dei recettori ryanodinici è diffusa (116), anche se i tre sottotipi possono avere delle distribuzioni particolari. Nel cervello umano, i recettori rianodinici sono particolarmente densi nell’ippocampo, nel quale sembrano partecipare a processi legati alla plasticità neuronale (117), nella corteccia, nell’amigdala e nel tronco cerebrale (118). Comunque, occorre tenere presente che la caffeina ha effetti anche su altri canali ionici (119) e che tante sue azioni sono ancora sconosciute.

La caffeina, tra le altre sue azioni, influisce sulla trasmissione sia serotoninergica che noradrenergica e dopaminergica. La sua azione sui recettori adenosinici può giustificare tutte queste influenze. Infatti, i recettori adenosinici di tipo A1 e A3 inibiscono la liberazione di serotonina nell’ippocampo in sede presinaptica, mentre l’attività dei recettori A1 in sede post-sinaptica favorisce l’azione dei recettori serotoninergici 5-HT1A post-sinaptici ippocampali (120-122). Nella stessa sede, i recettori adenosinici A1 impediscono il rilascio sinaptico di noradrenalina e di conseguenza l’attivazione dei circuiti ansiogeni attraverso i recettori b2 adrenergici; a questo riguardo, i recettori adenosnici sono sinergici con i recettori a2-presinaptici (123-125). La caffeina, bloccando questi recettori indurrebbe una disinibizione dei circuiti legati al panico; inoltre, riducendo l’efficacia della trasmissione mediata dai recettori 5-HT1A ippocampali, preverrebbe l’ansiolisi che questi recettori inducono in molti paradigmi animali e nell’uomo. Occorre sottolineare che i pazienti con disturbo di panico sono più sensibili dei soggetti sani all’azione ansiogena della caffeina (126), per cui è possibile che questa ipersensibilità coinvolga i recettori A1 e la loro interazione con i recettori 5-HT1A; tuttavia, uno screening genetico ha messo in evidenza due mutazioni silenti e un’associazione significativa tra l’allele 1083T ed il genotipo 1083T/T del solo gene A2AR con il disturbo di panico e non del gene del recettore A1 (127). Occorre, inoltre, tenere presente che la caffeina in cronico induce modificazioni adattative dei recettori adenosinici (up-regulation) (128) per cui quando si effettuano test di stimolo con caffeina in pazienti è imperativo indagare sulle abitudini di consumo di caffè dei soggetti ed anche raccomandare ai pazienti con disturbo di panico di astenersi dall’assumere caffè, ma non interrompere bruscamente. La caffeina ha inoltre effetti contrastanti sulla ricaptazione della serotonina; nel cervello stimola la ricaptazione, mentre nelle piastrine la riduce o la lascia invariata (129); per questo motivo non è conveniente indagare sul trasportatore piastrinico per inferire sul trasportatore cerebrale da una parte, né consentire l’assunzione di caffè durante la farmacoterapia con farmaci che inibiscono l’attività del trasportatore della serotonina, come alcuni triciclici, gli SNRI e gli SSRI.

La somministrazione di caffeina è ansiogena anche nei soggetti normali, ma lo è ancora di più nei soggetti con disturbo di panico (130,131). La sostanza induce ansia e panico in modo analogo e leggermente superiore a quello della mCPP e significativamente superiore al placebo, con equivalenti incrementi nella cortisolemia per le due sostanze attive (132). La caffeina induce delle abilità gustative esagerate solo in pazienti affetti da disturbo di panico (133,134) e non in quelli affetti da disturbo post-traumatico da stress, un fatto indicativo di ipersensibilità adenosinergica A1134. I suoi correlati elettroencefalografici (aumentata frequenza e ridotta ampiezza a-occipitale e ridotta ampiezza centrale b e q), tuttavia, non differiscono tra pazienti con disturbo di panico e soggetti di controllo sani (135). La sensibilità alla caffeina dei soggetti con disturbo di panico è più elevata di quella dei soggetti depressi che, a sua volta, è più alta di quella dei volontari sani (136); tuttavia, il consumo di caffè era superiore nel gruppo dei soggetti con disturbo di panico. Potrebbe essere che il maggiore consumo di caffè nella popolazione di depressi abbia mascherato parte dell’ipersensibilità attraverso la tolleranza.

Sistema cannabinoide e ansia

Nell’uomo, sono stati riportati, spesso in modo aneddotico, sia effetti ansiolitici che ansiogeni per la cannabis e per i suoi analoghi; anche l’induzione di attacchi di panico secondari al fumo di cannabis è stata segnalata in modo aneddotico (137-139). L’induzione di attacchi d’ansia o di panico dopo consumo di cannabis è risultata del 22% in una popolazione di 380 abusatori neozelandesi tratti da una popolazione di 1000 giovani di 18-35 anni (140). Le proprietà ansiolitiche del fumo riportate dai consumatori di cannabis ha indotto nei primi anni Ottanta la sperimentazione di farmaci analoghi dei cannabinoidi in pazienti ansiosi e il nabilone, un cannabinoide sintetico privo degli effetti psicologici della marijuana e del hashish, fu dimostrato in doppio cieco ansiolitico in pazienti con disturbi d’ansia (141). D’altra parte, in volontari sani, furono riscontrati effetti ansiogeni del D9-tetraidrocannabinolo ed ansiolitici del cannabidiolo e fu proposto che i due cannabinoidi si opponessero l’uno agli effetti dell’altro (142). Per spiegare questi effetti dei cannabinoidi furono al tempo ipotizzati meccanismi GABAergici (143), dopaminergici (144) e oppioidi (145,146), ma la formulazione di queste ipotesi, che mantengono tuttora in parte la loro validità, appare oggi semplicistica, perché limitata dalle allora scarse conoscenze della neurobiologia di base riguardanti i sistemi cannabinoidi endogeni. La tipologia di ricerca si è radicalmente evoluta dalla scoperta dei recettori cannabinoidi (147,148) e dei loro ligandi naturali (149-156).

Anche nell’animale sperimentale si rilevano sia effetti ansiolitici che ansiogeni sia degli agonisti che degli antagonisti dei recettori cannabinoidi sulla base del dosaggio, del setting sperimentale, del paradigma sperimentale e della specie impiegata. La somministrazione dell’antagonista CB1 SR141716A ha bloccato nel topo l’effetto ansiogeno del cannabinoide endogeno anandamide attraverso un meccanismo AMPA/kainato-indipendente (157), ma ha anche indotto risposte ansiogene nel ratto (158). Alte dosi dell’agonista dei recettori cannabinoidi centrali CB1 HU 210 inducono ansiolisi nel ratto, ma la sospensione del trattamento si associa ad un’aumentata reattività emotiva di tipo avversivo che si protrae nel tempo (159) e potrebbe sensibilizzare il cervello con meccanismi di tipo kindling (160-162). Tali meccanismi sono stati ipotizzati nell’induzione da parte di binge alcoliche della sindrome d’astinenza alcolica (163-168) e costituiscono un interessante parallelo con gli antecedenti di uso saltuario a poussée di cannabis nel periodo precedente l’esordio del disturbo di panico che si osserva in clinica (anche per il disturbo di panico è stato ipotizzato un meccanismo di tipo kindling (169) ). È ipotizzabile l’intermediazione di meccanismi glutamatergici (170-173) e GABAergici in questo contesto, anche perché si è visto che la somministrazione cronica di cannabis nel topo induce un aumento dell’affinità dei recettori GABAA nella corteccia frontale e che gli effetti ansiolitici della cannabis vengono antagonizzati da un antagonista benzodiazepinico (174), poi perché, nel ratto, l’ansiolisi da cannabidiolo nel test dell’ansia del labirinto ad X rialzato è simile a quella indotta dal diazepam (175); infine, è interessante che il ligando cannabinoide endogeno anandamide riduce la trasmissione sia GABAergica che glutamatergica nell’area grigia periacqueduttale (176), un’area implicata nell’ansia panicosa (Fig. 2), e che nei confronti della trasmissione NMDA-mediata questa sostanza ha un effetto sia di inibizione che di potenziamento con meccanismi diversi, CB1-dipendenti ed -indipendenti, rispettivamente (177). Altri meccanismi con cui potrebbero agire i cannabinoidi comprendono il sistema di ricompensa dopaminergico ventrotegmentale-accumbale, attraverso l’intermediazione di meccanismi GABAergici e oppioidi m1 (178).

Potrebbe essere particolare rilievo per la fisiopatologia del disturbo di panico il fatto che sia l’agonista CB1/1A/2 endogeno anandamide che il D9-tetraidrocannabinolo, che non sempre hanno gli stessi effetti regionali per via di una differente potenza d’azione o di una differenza nelle azioni a carico dei sistemi dei secondi messaggeri, inducono nel ratto l’espressione del gene immediato precoce c-fos nel nucleo amigdaloideo centrale (179), un nucleo che fa parte del circuito del panico; nello stesso nucleo, il c-fos aumenta dopo astinenza cannabinoide indotta dall’antagonista CB1 SR 141716A e in questo processo, un ruolo importante lo potrebbe svolgere l’osservato aumento consensuale dei livelli cerebrali di fattore rilasciante la corticotropina (CRF) (180). La somministrazione di un antagonista peptidico dei recettori del CRF ha ridotto nel ratto l’ansiogenesi indotta dall’agonista cannabinoide HU 210 (181). Vista l’importanza del sistema CRF-ergico in questi comportamenti, dato che l’antagonista non peptidico del CRF-R1 la pirrolopirimidinilamina antallarmina (che dovrebbe quindi attraversare con maggiore facilità la barriera ematoencefalica rispetto agli antagonisti non peptidici) ha efficacemente antagonizzato in primati un comportamento d’ansia estrema (182), sarebbe interessante la sperimentazione di questo farmaco o dei suoi analoghi strutturali, in pazienti con disturbo di panico. Un farmaco analogo, la pirrolopirimidina R121919, è stato recentemente sperimentato in popolazioni cliniche (pazienti depressi) ed ha mostrato, in linea con le sperimentazioni animali (183), proprietà ansiolitiche (184). Nel topo, l’applicazione locale di D9-tetraidrocannabinolo nel nucleo centrale dell’amigdala ha indotto una risposta simil-ansiosa (185), ma la somministrazione di anandamide per via intraperitoneale non ha influito sul test esplorativo dell’ansia (186).

L’influenza dei cannabinoidi sul sistema serotoninergico è stata messa in evidenza già dai primi anni Settanta (187). In particolare, fu notato un effetto di queste sostanze simile a quello di alcuni farmaci antidepressivi sulla ricaptazione vescicolare della serotonina (188,189). Il meccanismo sembrerebbe legato alla stimolazione di recettori CB1 presinaptici rispetto al neurone serotoninergico da parte di uno (più) ligando (i) sconosciuto (i) (190). Con la scoperta dei ligandi endogeni dei recettori cannabinoidi, è stato notato che questi ultimi interferiscono con il legame di recettori sia dei gruppi 5-HT1 che 5-HT2 (191) che 5-HT3 (192). Tuttavia, l’interazione non è così a senso unico come sembrerebbe; il legame del recettore CB1 da parte del ligando endogeno oleamide facilita la trasmissione 5-HT2-mediata (193). Non è comunque da escludere anche un’azione dei ligandi endogeni dei recettori cannabinoidi attraverso i recettori vanilloidi (194). Sintetizzando, i cannabinoidi endogeni influenzano sia il legame dei recettori serotoninergici interferendovi direttamente, sia la funzione dei neuroni serotoninergici attraverso recettori cannabinoidi e non cannabinoidi, ma l’attività serotoninergica è anche regolata da meccanismi recettoriali cannabinoidi che influenzano la funzione di recettori o trasportatori della serotonina legando sostanze endogene cannabinoidi e non cannabinoidi. In conclusione, i cannabinoidi si comporterebbero nei confronti del sistema serotoninergico in parte come gli SSRI e la clomipramina e in parte come l’elettroshock.

Un altro meccanismo attraverso il quale i cannabinoidi potrebbero influenzare l’induzione di attacchi di panico potrebbe essere un’interferenza con la trasmissione colecistochininergica. Recettori CB1 sono localizzati sugli interneuroni GABAergici che contengono anche colecistochinina nell’ippocampo del ratto (195) e la loro stimolazione induce un’inibizione dell’attività di questi neuroni (196) e della trasmissione di GABA (197) e di colecistochinina (198). Nell’ambito del circuito implicato negli attacchi di panico, tali recettori sono localizzati nell’amigdala su neuroni non GABAergici che coesprimono colecistochinina e potrebbero regolare la trasmissione sia GABAergica che glutamatergica, oltre che inibire il rilascio di colecistochinina (199); gli effetti antitetici della colecistochinina e dei cannabinoidi in molti paradigmi comportamentali potrebbero essere collegati a questo fatto. Riassumendo questi dati, si può ipotizzare che i cannabinoidi esplichino un’azione ansiolitica nella loro interazione con la colecistochinina.

La cannabis potrebbe inoltre favorire lo scatenamento di attacchi di panico attraverso l’induzione di uno stato percettivo predisponente poiché induce sia depersonalizzazione (200) che aumento del battito cardiaco (201). Nel loro insieme, questi dati indicano che l’attività del sistema cannabinoide potrebbe avere un ruolo nel disturbo di panico, ma tale ruolo sembra plurimo e a volte contrastato. È necessaria l’acquisizione di maggiori informazioni sulla neurobiologia del sistema cannabinoide per meglio comprendere questo ruolo.

Colecistochinina

Peptidi colecistochininosimili sono presenti nel cervello umano; l’immunoreattività colecistochininica nel cervello è più alta nella corteccia cerebrale ed in aree limbiche come l’ippocampo, l’amigdala ed il nucleus accumbens (che infatti, fa parte dell’amigdala estesa), nell’area ventrale del tegmento e nel nucleo del tratto solitario e nei nuclei vagali, mentre livelli intermedi si registrano a livello dei gangli basali, dell’ipotalamo e della sostanza grigia periacqueduttale (202). La colecistochinia prodotta nel cervello deriva dallo stesso precusore (preprocolecistochinina) della forma ormonale (CCK-58, CCK-39 o CCK-33), ma nel cervello viene prevalentemente metabolizzata nella sua forma C-terminale octapeptidica (CCK-8) (203) e come tale agisce sui suoi recettori, CCKA (“periferico”) e CCKB (“centrale”), ambedue presenti nel cervello e distribuiti con massima densità nel nucleo caudato e nel nucleus accumbens, nella corteccia cerebrale e particolarmente nella lamina V, mentre densità moderate si trovano nell’amigdala, nel pallido, nell’ipotalamo, nel tegmento, nel ponte (nuclei reticolari) e nel cervelletto e un’assenza virtuale nel talamo (204,205). I recettori CCKB tendono a prevalere nelle sedi più rostrali e quelli CCKA nelle sedi più aborali.

Turbe della fisiologia della colecistochinina a livello centrale sono state ipotizzate dapprima nella schizofrenia (206-213) a causa delle interazioni di questo peptide con la trasmissione dopaminergica (214-219). Successivamente, è stato ipotizzato un ruolo di questo peptide nei disturbi d’ansia (220-227), in particolare nel disturbo d’ansia generalizzato (228), nel disturbo post-traumatico da stress (229), nel disturbo ossessivo-compulsivo (223), ma soprattutto nel disturbo di panico (225,230). Nel ratto è stata evidenziata una riduzione della concentrazione di recettori per la colecistochinina nell’ippocampo di animali che esibiscono un alto tasso di comportamenti esplorativi di tipo “ansioso” (231) e l’esposizione ad un animale predatore ha indotto aumenti nei livelli di CCK-4 nel bulbo olfattorio, nella corteccia frontale e prefrontale, nello striato, nel nucleo centrale dell’amigdala e nel nucleo del tratto solitario (232); inoltre, la somministrazione di un antagonista CCKB ha indotto un effetto ansiolitico in ratti cui era stato precedentemente somministrato CCK-8S (233), il quale induceva modificazioni neurotrasmettitoriali area-specifiche. Tutti questi dati hanno contribuito a focalizzare l’attenzione dei ricercatori sui meccanismi colecistochininergici nei disturbi d’ansia.

L’octapeptide C-terminale, nel corso della sua trasformazione si trasforma in vari peptidi intermedi (234); il tetrapeptide CCK-4 è il frammento più piccolo dotato di attività sui recettori della colecistochinina. Tuttavia, diversamente dal pentapeptide C-terminale CCK-5 (anch’esso dotato di moderata attività panicogena), non sembra che questo frammento sia prodotto in quantità apprezzabili nel corso del catabolismo dell’octapeptide CCK-8 (235). Questo tetrapeptide induce un aumento della degradazione metabolica della serotonina (236) e potrebbe essere questo, oltre al già discusso meccanismo di inibizione GABAergica, uno dei meccanismi con i quale induce attacchi di panico in pazienti con disturbo di panico (237-239) e altri disturbi d’ansia, come il disturbo post-traumatico da stress (240) e il disturbo d’ansia generalizzato (241), ma anche in volontari sani (242-,244). La somministrazione di CCK-4 o -8 o -8S indurrebbe l’attacco di panico attraverso la stimolazione di recettori CCKB (245-247). La somministrazione degli agonisti preferenziali CCKB pentagastrina e CCK-4 induce un aumento dell’ansia soggettiva in volontari sani e pazienti con disturbo di panico; tale aumento viene contrastato dalla somministrazione dell’antagonista selettivo a buona penetrazione ematoencefalica L-365,260 (248,249), ma solo parzialmente (250) o per nulla (251) dall’altro antagonista selettivo dei recettori CCKB, CI-988. Per quanto riguarda i possibili meccanismi indiretti con cui la colecistochinina avrebbe un effetto ansiogeno, si è prospettata un’influenza sul sistema noradrenergico e su quello serotoninergico. Una mediazione dell’effetto del CCK-4 attraverso i recettori b-adrenergici è suggerita dal fatto che il farmaco b-bloccante (con modesto effetto anti-5-HT1A) propranololo blocca l’ansiogenesi da CCK-4 in volontari sani (252), mentre i recettori a2-adrenergici sembrano non partecipare nell’azione del CCK-4 in pazienti con disturbo di panico (253). Un possibile coinvolgimento del recettore 5-HT3 sembrava improbabile da uno studio iniziale (254), ma è stato rivalutato da un altro dello stesso gruppo di studiosi (255). Un ruolo per il sistema serotoninergico negli effetti panicogeni del CCK-4 è suggerito dalla loro riduzione in pazienti con disturbo di panico che rispondono positivamente alla farmacoterapia con SSRI (256,257). Meccanismi sia noradrenergici che serotoninergici potrebbero essere alla base degli effetti neuroendocrini (243,258,259) neurochimici (243,260) e comportamentali centrali e periferici (243,261) del CCK-4 o della pentagastrina.

La sede in cui vengono esercitati gli effetti ansiogeni dei frammenti della colecistochinina non sembra essere l’amigdala, sede in cui meccanismi CRFergici-urocortinici sembrano preponderanti e dove la colecistochinina sembra avere effetti positivi sulla memoria (262), bensì la corteccia cerebrale, dove la colecistochinina induce aumenti dei comportamenti simil-ansiosi nel porcellino d’India interferendo con la trasmissione serotoninergica (263) e la sostanza grigia periacqueduttale, dove la stimolazione di recettori CCKB induce nel ratto comportamenti panicosimili (264). Nell’induzione di panico da CCK-4 sembra cruciale un aumento della perfusione ematica regionale nella parte anteriore del giro del cingolo (265), sede importante per lo scatenamento dell’ansia anticipatoria (266). Tuttavia, la somministrazione di ambedue gli antagonisti selettivi dei recettori CCKB che attraversano la barriera ematoencefalica non ha modificato né gli attacchi di panico indotti dall’acido lattico (43,44), né ha migliorato la sintomatologia panicosa in pazienti con disturbo di panico (267-269) o modificato la sintomatologia di pazienti con ansia generalizzata (270,271).

Considerazioni integrative; l’importanza del circuito d’ansia e le interazioni locus coeruleus-rafe

Dai test di induzione di panico in pazienti e controlli è emerso che una percentuale più alta di pazienti con disturbo di panico risponde con un attacco di panico all’esposizione allo stimolo fobigeno. Sebbene l’ansia di base possa costituire un predittore positivo dello sviluppo di tale attacco, niente è certo quando si somministra uno stimolo di questo tipo e chiunque può sviluppare un attacco, ma l’averlo già esperito rende più probabile il suo sviluppo. Dipende tutto dallo stato di attività del circuito illustrato in Figura 1. Da quanto sopra discusso, l’attacco di panico va visto come un evento che nel paziente con un disturbo di panico può essere anche condizionato, coinvolgendo in tal modo il nucleo dorsale del rafe, mentre un primo attacco o un attacco spontaneo possono essere non condizionati e coinvolgerebbero la sostanza grigia periacqueduttale. Ne deriva che nel primo caso un blocco dei recettori 5-HT2A migliorerebbe la sintomatologia, nel secondo la aggraverebbe (272-276).

Neuroni serotoninergici dai nuclei dorsale e mediano del rafe innervano il locus coeruleus, che veniva considerato qualche decennio fa il determinante principale dell’attacco di panico. Le interazioni tra nuclei del rafe e locus coeruleus sono state intensamente studiate sin dagli ultimi anni Settanta. È stato ipotizzato un controllo della trasmissione noradrenergica del locus coeruleus da parte della serotonina proveniente dal nucleo dorsale del rafe (277) sulla base di evidenze autoradiografiche e immunoistochimiche di una via serotoninergica rafe-locus coeruleus, sebbene questa via non termini direttamente sui dendriti dei neuroni noradrenergici del locus coeruleus (278,279). Proiezioni serotoninergiche dal nucleo dorsale del rafe contraggono sinapsi con dendriti di neuroni all’interno del locus coeruleus (280) che controllano la frequenza di scarica dei neuroni noradrenergici in questa sede (281). La serotonina può anche essere co-localizzata con la noradrenalina in neuroni intrinseci del locus coeruleus (282) che si proiettano nel midollo spinale (283). A prescindere dalla sua provenienza, la serotonina inibirebbe la scarica nervosa dei neuroni noradrenergici attraverso recettori 5-HT2A (284,285), un effetto che è modulato dall’attività aminoacidergica in maniera complessa e nel quale partecipano i recettori imidazolinici I1, la cui stimolazione aumenterebbe la scarica noradrenergica (286) (Fig. 3). Il controllo glutamatergico è generalmente attivante la scarica noradrenergica dal locus coeruleus, sia attraverso meccanismi NMDA- che AMPA- che kainato-dipendenti (287); la serotonina attenua quest’attivazione per tutti e tre questi gruppi recettoriali (288,289), ma in presenza di inibizione della componente NMDA, aumenta l’attivazione kainato-mediata (289). Oltre che dai suddetti sistemi neurotrasmettitoriali, la frequenza di scarica noradrenergica del locus coeruleus è controllata da meccanismi adenosinici di tipo A1 (290), che andrebbero a controllare un canale K+ rettificante (291) che riduce il potenziale d’azione in questa sede (292). L’azione ansiogena della caffeina potrebbe essere esplicata attraverso l’inibizione dei recettori adenosinici A1.

La facilitazione attraverso il blocco acuto di recettori 5-HT2A/2C della scarica neuronale dei neuroni noradrenergici del locus coeruleus (293) metterebbe in moto il circuito (Fig. 2), la cui principale attività sarebbe quella di dare una risposta di allarme all’ipossia e al soffocamento e che, secondo Donald Klein, sarebbe esagerata nei pazienti con disturbo di panico per via di una loro ipersensibilità biologica a tali stimoli minacciosi (2). Di qui l’utilità di farmaci che desensibilizzino o blocchino i recettori 5-HT2A, come gli antidepressivi in genere (294-297), o quelli che interferiscono con la trasmissione noradrenergica, desensibilizzando alcuni recettori che medierebbero un’iperattivazione del circuito (b1-adrenergici), come molti antidepressivi (298-302) ed alcune benzodiazepine (quelle triazoliche in particolare) (303-306). Meccanismi oppioidi sono stati ipotizzati concorrere in questa interazione. L’ipotesi si basa sulla riduzione della sindrome d’astinenza da oppiacei da parte dell’a2 agonista clonidina (307), sullo sviluppo di attacchi di panico nell’eroinodipendenza sotto mantenimento con metadone (308) e nel blocco dei recettori oppioidi (309), nonché sul riscontro di alti livelli cefalorachidiani di endorfina (310). Gli oppioidi inibiscono la scarica dei neuroni noradrenergici dal locus coeruleus attraverso recettori presinaptici di tipo m (311), inibendo la liberazione di noradrenalina (312,313). D’altra parte, gli oppioidi deprimono l’attività dei neuroni serotoninergici nel rafe con meccanismi recettoriali di tipo k (314), che hanno come ligando naturale la dinorfina. In acuto, la stimolazione di recettori m induce una riduzione dell’inibizione GABAergica della trasmissione serotoninergica dal rafe e dalla sostanza grigia periacqueduttale (315), ma è anche interessante il fatto che neuroni serotoninergici sia nel rafe che nella sostanza grigia periacqueduttale a proiezione amigdaloidea contiene sia encefalica che serotonina (316). La funzione di questi circuiti sembra implicata nel circuito della paura.

Il nucleo centrale dell’amigdala agirebbe come un co-ordinatore delle risposte del circuito (317) e la sua attività sarebbe regolata dalla corteccia cerebrale. Di qui l’importanza dell’elaborazione cognitiva dello stimolo, che può modulare l’espressione sintomatologica dell’attacco. L’importanza della colecistochinina a tal riguardo sarebbe testimoniata dalla localizzazione del peptide stesso o dei suoi recettori lungo le vie del circuito ansioso/panicoso, ma in particolare nella corteccia cerebrale. Meccanismi GABAergici potrebbero essere importanti nella mediazione degli effetti della CCK, e la somministrazione di sostanze, come le benzodiazepine, che facilitano la trasmissione GABAergica possono bloccare molti sintomi legati all’attacco di panico. Tuttavia, potrebbero essere insufficienti per far sì che nel periodo intercritico il paziente affetto da disturbo di panico sviluppi una neurochimica che gli consenta di ridurre la probabilità di espressione di un nuovo attacco.

L’ubiquità dei neuroni GABAergici rende utili i farmaci che facilitano tale trasmissione a più livelli; infatti, meccanismi GABAA riducono la trasmissione sia noradrenergica che serotoninergica, “spegnendo” il circuito con la compartecipazione di una moltitudine di altri neurotrasmettitori e neuromodulatori (Fig. 1) (123-125,318-324,8,20,26,112,120,122,272). Tuttavia, i recettori GABAA evidenziano modificazioni della loro sensibilità (sia dell’affinità che del numero in una determinata area) che sono rapidissime. Affinché il paziente con attacchi di panico migliori clinicamente è necessario tuttavia che venga ridotta la frequenza o la gravità sintomatologica degli attacchi, è necessario promuovere delle modificazioni biologiche dell’assetto recettoriale del paziente che rendano il paziente più resistente allo sviluppo di iperattività in un punto qualsiasi del circuito illustrato in Figura 1. Tali modificazioni potrebbero includere la down-regulation dei recettori b-adrenergici che controllano la secrezione di CRF dall’ipotalamo (che poi influenza sia l’attività della sostanza grigia periacqueduttale e dell’amigdala, dove neuroni CRFergici si distribuiscono). Non è un caso che tra i farmaci benzodiazepinici, che facilitano tutti la trasmissione GABAergica, quelli più attivi nell’indurre un miglioramento clinicamente significativo nel disturbo di panico sono i triazolici, che sono gli unici di questo gruppo di sostanze ad indurre una down-regulation b-adrenergica.

La neurobiologia del panico coinvolge molti circuiti cerebrali la cui attività può predisporre allo sviluppo di attacchi di panico. In questo contesto, finora sono stati indagati solo pochi sistemi neurotrasmettitoriali; altri, come ad esempio quello oppioide e quello noradrenergico sono passati di moda senza che il loro ruolo sia stato adeguatamente chiarito, mentre quello dopaminergico e quello colinergico sono stati ingiustamente trascurati. Infatti, il protratto blocco dopaminergico indotto dalla terapia neurolettica induce frequentemente attacchi di panico in pazienti schizofrenici (325), mentre un farmaco antimuscarinico come il biperidene bloccherebbe l’espressione di attacchi di panico da biossido di carbonio (326). Dai dati di base e dalle evidenze cliniche emerge che molti dei farmaci ipotizzati come possibili soluzioni specifiche del problema non hanno dimostrato un’importante validità clinica, ma solo indizi del coinvolgimento dei neurotrasmettitori e delle aree interessate. Quindi sembrerebbe che in realtà è l’interazione tra più sistemi che difetta quando si scatena un attacco di panico nel corso delle normali attività cerebrali e che farmaci attivi su più sistemi o una combinazione di farmaci e di altre terapie potrebbero rappresentare un rimedio più efficace. Imputare ad un circuito “eccessivamente” attivo il disturbo senza riconoscere che sta svolgendo delle attività normali rischia di indurre il clinico a bloccare anche le attività utili del circuito stesso. Sarebbe piuttosto importante capire come si può utilizzarlo in modo più utile per la persona che manifesta problemi con la sua attività. La futura ricerca dovrebbe focalizzarsi in un primo tempo sui sistemi adenosinergici e glutamatergici ed anche un’integrazione con metodi intesi a ridurre gli effetti del kindling non andrebbe trascurata. Ad un’attenta analisi psicopatologica non sfugge il fatto che negli attacchi di panico difetta, di fronte a determinati stimoli ambientali, l’integrazione dei vari nuclei dell’io riconducibili ai pattern di attaccamento. Psicoterapie che tengano conto di questi aspetti potrebbero, quindi, integrarsi con profitto con le farmacoterapie attuali in attesa di un più ampio chiarimento dei meccanismi neurobiologici del disturbo di panico (anche perché, non a caso, il disturbo di panico si accompagna ad agorafobia, contro la quale i farmaci attualmente utilizzati in clinica sono meno attivi (327,328) ).

Corrispondenza: dott. Giorgio D. Kotzalidis, III Clinica Psichiatrica, Università di Roma “La Sapienza”, 00185 Roma.

Fig. 1. Nuclei e circuiti cerebrali, neurotrasmettitori e sottotipi recettoriali implicati nella genesi degli attacchi di panico – Brain circuits and nuclei, neurotransmitters, and receptor subtypes involved in triggering panic attack. ACh = acetilcolina; CCK = colecistochinina; CRF � fattore di rilascio della corticotropina; DA = dopamina; GABA = acido gamma-aminobutirrico; 5-HT = serotonina; NA = noradrenalina; NT = neurotensina; SOM = somatostatina; UrC = urocortina. Per semplicità sono omesse le connessioni tra amigdala e ipotalamo, locus coeruleus e sostanza grigia periacquedottale, tra il nucleo parabrachiale e l�amigdala (bidirezionale) e talamocorticali. For clarity, connections between the amygdala and the hypothalamus, the locus coeruleus and periaqueductal grey, parabrachial nucleus and amygdala (bidirectional) and thalamocortical (bidirectional) are not shown.

Legenda: ACh = acetolina; CCK = colecstochinina; CFR � fattore di rilascio della corticotropina; DA = dopamina; GABA = acido gamma-aminobutirrico; 5-HT = serotonina; NA = noradrenalina; NT = neurotensina; SOM = somatostatina; UrC = urocortina. Per semplicità sono omesse le connessioni tra amigdala e ipotalamo, locus coeruseus e sostanza grigia periacquedottale, tra il nucleo parabrachiale e l�amigdala (bidirezionale) e talamocorticali.

Tab. I. Metodi di induzione di un attacco di panico. Methods of panic attack elicitation.

Metodo Meccanismo ipotizzato
Panicogeni respiratori
Iperventilazione Ipocapnia, riduzione del flusso ematico cerebrale, conseguente aumento dell�acido lattico e ipercapnia cerebrale reattiva
Lattato di sodio/acido lattico Aumento dell�anidride carbonica con successiva ipercapnia
Anidride carbonica Ipercapnia; aumento dell�eccitabilità neuronale del locus coeruleus e del rafe
Bicabonato di sodio Alcalosi e ipercapnia
Isoproterenolo e adrenalina Azione simpaticomimetica, cardioaccelerazione
Doxapram Stimolazione respiratoria; ipocapnia; cardioaccelerazione
Panicogeni attivanti l�asse HPA
Yohimbina Attivazione della scarica noradrenergica dal locus coeruleus (A6) per via del blocco degli autorecettori a2-adrenergici
Fenfluramina Aumento della liberazione di serotonina; dispersione della serotonina; la serotonina attiverebbe poi il CRF
m-Clorofenilpiperazina (mCPP) Attivazione dei recettori 5-HT2C nel rafe e nelle terminazioni serotoninergiche extra-sostanza grigia periacqueduttale; possibile attivazione del CRF
Flumazenil Antagonismo del sito benzodiazepinico sul recettore GABAA
b-Carbolina Agonismo inverso del sito benzodiazepinico sul recettore GABAA
Panicogeni misti
Caffeina Attivazione dei recettori adenosinici; attivazione dei recettori ryanodinici; cardioaccelerazione; aumento dei livelli plasmatici e cerebrali di acido lattico
Colecistochinina e analoghi Attivazione dopaminergica e serotoninergica; inibizione GABAergica; induzione della vasopressina e del CRF

Fig. 2. Ruoli opposti della 5-HT nell�induzione di paura a seconda dell�area cerebrale coinvolta 199 272 273.Opposing role of 5-HT in fear induction according to the brain area involved 199 272 273.

Fig. 3. Controllo dell�attività noradrenergica del locus coeruleus da parte del sistema serotoninergico e aminoacidergico eccitatorio. Serotonergic and excitatiory amino acidergic control of locus coeruleus noradrenergic activity.

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