Malinconia e suicidio I: considerazioni cliniche

Melancholy and suicide I: clinical considerations

P. Castrogiovanni, C. Pacchierotti

Clinica Psichiatrica, Università di Siena

Parole chiave: Suicidio • Malinconia • Depressione • Psicopatologia
Key words: Suicide • Melancholy • Depression • Psychopathology

È parte integrante della storia della psichiatria l’osservazione che un tipo particolare e “misterioso” di malattia mentale – la Melancolia – sia quasi inesorabilmente legata all’altrettanto difficilmente comprensibile decisione di morire per suicidio. Il suicidio è un comportamento reso unitario dal gesto, che ha finalità autolesive aventi come oggetto la vita stessa, ma tutt’altro che unitarie sono le vie che conducono ad esso. Al suicidio possono giungere i pazienti affetti da ogni tipo di depressione, e non soltanto di depressione, ma il “percorso” psicopatologico con cui il paziente che presenta quel tipo particolare di depressione che è la melanconia è verosimilmente diverso da quello per il quale giungono al suicidio altri tipi di depressioni. Rivedere la letteratura di epoca recente su tale argomento è tuttavia molto complesso, sia perché soltanto negli attuali sistemi classificativi sono stati codificati precisi criteri per distinguere la depressione malinconica dalle altre forme di malattia depressiva, sia perché i numerosissimi studi condotti sul comportamento suicidario nella malattia affettiva ci forniscono informazioni interessanti sul piano clinico, cognitivo, biologico, senza tuttavia indagare specificatamente il sottotipo depressivo. Per tali difficoltà, è indispensabile affrontare questo argomento partendo dalla definizione di malinconia, così come è giunta – quasi intonsa – da Ippocrate al DSM IV (1), e dei suoi aspetti caratterizzanti, per prendere poi in esame i rapporti fra il comportamento suicidario e quegli elementi della depressione ritenuti essere costitutivi, nucleari della melanconia.

Definizione di malinconia

Nell’importante trattato “Della natura dell’uomo”, attribuito a Ippocrate o a suo genero Polibio e scritto in data anteriore al 400 a.C., si ritrova una prima definizione del termine “melancolia” (= bile nera) ed anche una ipotesi patogenetica dei disturbi dell’umore. In base alla Teoria dei quattro umori fondamentali (sangue, bile gialla, bile nera e flegma), la salute veniva definita come un ideale equilibrio tra macro-cosmo e micro-cosmo individuale, in cui ogni eccesso ed ogni difetto inducevano un dismetabolismo e quindi una condizione di malattia. Individui costituzionalmente melanconici, ma non per questo ammalati, più facilmente incorrevano in malattie di tipo depressivo a causa, ad esempio, di un’estate troppo asciutta. La Teoria degli umori testimonia una concezione organica della malinconia adottata anche da Platone ed Asclepiade, che è passata indenne attraverso l’evoluzione del pensiero greco e latino (se ne trova traccia in Lucrezio, Seneca e Galeno), ed ha influenzato la ricerca psicopatologica fino all’età moderna.

Mentre nel linguaggio comune il termine “malinconia” è spesso utilizzato come sinonimo di tristezza, in certi contesti della nosografia psichiatrica esso ha indicato non una qualsiasi forma di deflessione dell’umore, bensì i quadri clinici di depressione profonda, con sintomi neurovegetativi oltre che cognitivi. Già nel I secolo d.C., per esempio, Areteo di Cappadocia distingue tra “vera” malinconia e forme reattive, identificando la prima come caratterizzata da tristezza profonda, disturbi del sonno e dell’appetito, idee di inguaribilità e di morte, e suggerendo per le seconde una sorta di psicoterapia orientata a riconoscerne le cause.

Con le teorie psicodinamiche, il richiamo ad una ipotetica patogenesi conflittuale per i quadri depressivi attenuati portò alla frammentazione della psicosi maniaco-depressiva: le gravi forme, espansive e melanconiche, mantenevano una indiscussa unitarietà, mentre una parte dei disturbi dell’umore veniva collocata nella vasta categoria delle “nevrosi” e delle personalità abnormi. Da allora le “depressioni esogene”, che comprendevano le forme “reattive”, legate ad eventi di grande significato esistenziale ed emotivo, le forme “nevrotiche”, dovute a conflittualità inconsce, e le forme “somatogene”, determinate da fattori di natura fisica, sono state contrapposte alle “depressioni endogene” (dette anche “vitali”, “primarie”, “somatiche”, o, appunto, “melanconiche”), in cui non era possibile identificare fattori esterni di natura psicologica o fisica che ne avessero determinato l’insorgenza. In quest’ultime prevalevano i sintomi neurovegetativi, i deliri olotimici, le tematiche autolesive, la familiarità, la tendenza alla ricorrenza ed alla stagionalità, mentre nelle forme “psicogene”, in cui mancavano i sintomi neurovegetativi, prevalevano i sintomi ansiosi, le lamentele fisiche, la labilità emotiva, l’insonnia iniziale e la reattività dell’umore agli eventi esterni, senza frattura nel continuum storico individuale, ma con una certa comprensibilità e derivabilità alla luce del contesto biografico-esistenziale. Il termine “Melancolia” assumeva quindi, come del resto già in Ippocrate, anche un’accezione etiologica, indicando un certo tipo di depressione: quella caratterizzata da una base biologico-costituzionale. Ed a ben guardare, in tutta la psichiatria tedesca, ed anche in Kraepelin (2) e Tellenbach (3), il termine “melancolia” è usato per descrivere la sindrome nucleare, in cui etiopatogenesi biologico-costituzionale e quadro psicopatologico caratteristico si fondono configurando il prototipo della depressione endogena, ben lontana da quella “major depression” descritta negli attuali sistemi classificativi.

Questi ultimi, attraverso un taglio descrittivo ed ateoretico, hanno pian piano abbandonato la dicotomia endogeno-reattivo, di significato etiologico, ed hanno scelto di usare delle specificazioni esclusivamente di carattere sintomatologico anche per i sottotipi di depressione. Già il DSM-III (4) prevedeva una serie di criteri per la diagnosi di episodio depressivo maggiore “tipo melanconico”. Nel DSM-III-R (5), a tal proposito, sono stati aggiunti tre elementi anamnestici (assenza di Disturbi di Personalità, pregressa remissione di Episodi Depressivi Maggiori, risposta favorevole agli antidepressivi), a sottolineare l’utilità di mantenere distinto questo sottotipo di depressione ai fini prognostici e terapeutici, mentre non sono più considerati indispensabili l’anedonia e la mancanza di reattività agli stimoli positivi; sono stati infine aboliti la richiesta di “una qualità particolare di umore depresso”, la cui specificità risultava indimostrata, e di “colpa eccessiva o ingiustificata”, che appare presente, in effetti, in molti quadri con manifestazioni psicotiche congrue. Nel DSM IV (1), la dizione “con caratteristiche melancoliche” è una specificazione che può essere applicata ad un Episodio Depressivo Maggiore nell’ambito di una Depressione unipolare o bipolare. I criteri diagnostici richiesti sono più simili a quelli del DSM III (4) che non del DSM-III-R (5): viene reintrodotto il concetto di “distinta qualità di umore depresso” (diverso per esempio dalla perdita di una persona amata) e di eccessivo o inappropriato sentimento di colpa, mentre è esclusa la validazione in base al decorso naturale o alla risposta al trattamento, dal momento che entrambi i criteri sono già inclusi nella definizione.

Nonostante la situazione paradossale che la Melancolia, considerata il “core” del disturbo depressivo, sia continuamente ridefinita e manipolata, anche l’ultima edizione del più autorevole sistema classificativo ribadisce, sebbene con intento clinico-descrittivo, l’esistenza di tale sindrome, ed anzi ne recupera il concetto di ineffabile ma reale specificità della tinta affettiva, quand’anche la rilevazione standardizzata e l’analisi statistica evidenzino differenze di ordine prevalentemente quantitativo fra depressione “endogena” e “nevrotica” (6). Anche oggi quindi si riconosce l’esistenza di una particolare forma depressiva le cui peculiarità vanno al di là dell’assenza di fattori precipitanti, e che si caratterizza, oltre che sotto il profilo clinico per la presenza di sintomi neurovegetativi, anche per specifici aspetti genetici, neurofisiologici e di risposta ai trattamenti somatici. Lo stesso DSM-IV (1), riconoscendo nella Depressione Melanconica la maggior presenza di alterazioni nei test di laboratorio, sembra sostenere che si tratti di una malattia profondamente organica, fisica, “endogena”, caratterizzata da una globale perdita di energia vitale, in cui qualsiasi evento di vita anche temporalmente collegato all’insorgenza del quadro clinico assumerebbe il ruolo di semplice fattore scatenante che agisce su una discrasia di origine costituzionale slatentizzandola.

Frequenza del suicidio nella malinconia

Nella depressione il suicidio è molto frequente: Goodwin e Jamison (7) (1990), sulla base di 30 lavori, riportano un tasso di suicidio nella malattia maniaco-depressiva oscillante dal 9 al 60%, con una media del 19%, tasso almeno 30 volte superiore a quella normalmente osservata nella popolazione generale. Svolgendo l’indagine dalla prospettiva opposta, diversi Autori (8-10) riportano che una percentuale intorno al 60% dei suicidi soffriva di malattia maniaco-depressiva. Importanti difficoltà metodologiche, tra cui le continue modifiche dei criteri diagnostici, hanno fino ad oggi impedito di distinguere in modo preciso eventuali differenze di rischio suicidario nei vari sottotipi di malattia affettiva.

Da un punto di vista storico, il suicidio da quando, nel diciottesimo secolo, ha iniziato ad essere inquadrato in un’ottica non più filosofica o romantica ma come conseguenza di una malattia mentale, è stato considerato tipico della forma melanconica della depressione. Montesquieu, nel 1748, distingueva il suicidio eroico dei Romani, inquadrabile nel loro modo di pensare, dal suicidio degli Inglesi, da considerarsi come l’effetto di una malattia. Pinel (11) nel 1791 sottolineava con meraviglia come gli Autori sia antichi che moderni, che hanno descritto ogni tipo di ” malinconia nervosa “, abbiano trascurato “quella forma caratterizzata da un disgusto insopportabile per la vita, o piuttosto da un desiderio irresistibile di darsi la morte, senza che si possa trovare una causa” … “ed in cui l’attaccamento alla vita lascia il posto, a causa di una malattia, ad un desiderio irreversibile di darsi la morte”. Anche Freud (12) in “Lutto e melancolia” (1917) considera il suicidio nell’ambito della dinamica della malinconia, spiegando la tendenza al suicidio del malinconico col rivolgimento dell’aggressività contro il proprio Io. Dai relativamente pochi studi in cui si è cercato di identificare quali tipi di depressione siano più spesso associati con le condotte suicidarie, è emersa la elevata frequenza del suicidio nella depressione endogena. Circa la metà dei depressi suicidi di Chynoweth e al. (13) (1980) soffriva di “depressione endogena” e dallo studio di Alessi e al. (14) (1984) risulta che i soggetti diagnosticati con disturbo affettivo maggiore hanno più alta tendenza al suicidio e commettono tentativi di suicidio più gravi. In una casistica di Helgason (15) (1964), il 17% di un campione di suicidi erano affetti da disturbo bipolare, mentre il 7% erano “depressi nevrotici”. Anche tra gli adolescenti, Robins e al. (16) (1985) hanno trovato una significativa associazione tra comportamenti suicidari e depressione di tipo melanconico. Il vero suicidio rimane quindi ancorato al campo delle psicosi in senso lato, tra cui spicca la depressione melanconica, mentre nelle “nevrosi” prevarrebbe il parasuicidio.

Rapporto tra suicidio e caratteristiche nucleari della malinconia

Sembra quindi che suicidio e melanconia costituiscano un binomio fortemente coeso, in cui l’uno rimanda all’altra quasi in una sorta di sinonimia.

Ma con quale dei vari aspetti nucleari della malinconia, tra loro coerenti ma pur sempre distinti, correla di più la condotta suicidaria, stabilendo con essi un legame consequenziale? Oppure è un “sintomo” che si pone “in parallelo” agli altri? In altre parole il suicidio è “derivabile” da uno degli aspetti nucleari in particolare o è coerente con tutti, a costituire, insieme ad essi, un pattern unitario quand’anche fenomenicamente variegato?

L’helplessness

Diversi Autori (17-18), da Beck (19) (1975) in poi, sottolineano come la presenza del sentimento di mancanza di speranza (hopelessness) e di impossibilità d’aiuto (helplessness) sia uno degli indici più attendibili di rischio suicidario. Tali sentimenti, d’altra parte, sono alla base della cosiddetta “triade cognitiva” della melanconia (visione negativa di se stesso, del mondo, del futuro), che è strettamente legata alla globale anergia del paziente melanconico. Prima di Beck, il tema della mancanza di speranza era stato affrontato dagli Autori ad impostazione fenomenologica, come Tellenbach (3), che nel 1961 scriveva: “la speranza costituisce un elemento basale della persona, un atteggiamento esistenziale di base, una caratteristica fondamentale della storicità dell’uomo”. La speranza è legata ad una trama di esperienze di formazione, mentre la coscienza del tempo chiuso dà luogo alla disperazione. Nella disperazione viene colpito il fondamento ontologico dell’uomo; i parametri spazio-temporali perdono il carattere del divenire e si immobilizzano, il futuro è visto nell’impossibilità di ogni volere.

Da questo punto di vista, il suicidio del melanconico può essere visto come il suicidio di chi non vuole più vivere perché non prova più piacere nella vita, di chi sente profondamente il vuoto della sua vita, di chi perde la progettualità, quasi conseguenza razionale di un vissuto che razionale non è, come quello della melanconia. La melanconia si traduce in perdita di speranza, una vita senza speranza non è vivibile, quindi è preferibile interromperla volontariamente.

L’autoaggressività e la colpa

Storicamente, Lombroso (20) (1884) e Morselli (21) (1879) prima, Freud (12) (1917) ed Abraham (22) (1927) dopo, avevano sottolineato i legami tra aggressività, malinconia e suicidio. Nell’ottica psicoanalitica il suicidio rappresenta quasi sempre un omicidio mancato nel quale l’Io rivolgerebbe contro di sé l’aggressività che sarebbe invece diretta primariamente verso oggetti del mondo esterno. Anche dal punto di vista antropologico-criminale è stato più di recente focalizzato il legame tra aggressività e suicidio, interpretando quest’ultimo come una manifestazione di appagamento dell’aggressività che può essere inizialmente rivolta verso altri (23). Molti studi clinici, condotti in rapporto alla patologia depressiva “maggiore” (concetto invero molto più vasto e sfumato della classica malinconia), riportano uno stretto legame fra aggressività e condotte suicidiarie: una maggiore aggressività generale distinguerebbe i soggetti depressi con tendenze suicidarie da quelli senza (24-29). Ancora più recentemente, diversi Autori hanno sostenuto il legame tra aggressività e suicidio nella depressione sulla base dell’osservazione che una diminuita attività del sistema serotoninergico, notoriamente coinvolto nella patogenesi della malattia depressiva, si ritrova sia nel comportamento aggressivo che in quello suicidario (30-34). La biochimica sembrerebbe quindi suggerire che la riduzione dell’attività serotoninergica tipica della depressione, sarebbe responsabile di una particolare vulnerabilità a sviluppare comportamenti aggressivi che potranno attualizzarsi indifferentemente verso se stessi o verso gli altri. È evidente, però, che la presenza di un’eventuale base biologica comune ai due fenomeni non permette di stabilire l’esistenza di un rapporto diretto fra essi. La riduzione dell’attività serotoninergica, peraltro non confermata da alcuni Autori (35,36) e comunque aspecifica in quanto riscontrata in diverse malattie psichiatriche ed in diverse dimensioni psicopatologiche, potrebbe essere infatti condizione indispensabile ma non essere sufficiente.

In un nostro studio (37), del resto, non è stata trovata una correlazione tra aggressività e suicidio: sembra al contrario che il rischio maggiore di suicidio sia proprio quando non c’è espressione della propria ostilità, ma invece prevale la visione negativa del passato, tipica della depressione malinconica, sotto forma di rimorso/risentimento, quasi che l’aggressività durante la fase depressiva e specialmente nella melanconia venga non rivolta verso il sé, ma annullata nella sua essenza, anche etimologica, di movimento, che dal presente si rivolge verso il futuro, annullata dal prevalere nel vissuto melanconico di riemergenze del passato: il risentimento (nei confronti dei comportamenti degli altri) e il rimorso (nei confronti dei propri comportamenti) evocano marginalmente condotte aggressive, ma poco hanno a che vedere con la aggressività, esprimendo uno statico soggiacere ad una constatazione più che un moto attivo verso gli altri o verso se stessi. Quindi anche seguendo la “pista” dell’aggressività nei soggetti malinconici con ideazione suicidaria incontriamo poco o niente di relativo a valenze aggressive propriamente dette, ma approdiamo anche in questo percorso alla colpa.

Infatti la prima variabile che differenzia i tre gruppi di pazienti esaminati nel suddetto studio (37) (con normale desiderio di vita, con pensieri di morte, con tendenze suicide) è la colpa, e non le componenti del comportamento aggressivo. La presenza simultanea di colpa e di risentimento, non associata a comportamento aggressivo diretto, ha un’alta correlazione con il rischio suicidario.

Fin dall’interpretazione psicoanalitica, il senso di colpa è stato considerato alla base del suicidio nel depresso. Secondo la Klein (38), dal momento che una delle difese primordiali contro l’istinto di morte è la proiezione su un oggetto esterno, c’è da aspettarsi da parte sua un continuo timore di rappresaglia; tale difesa quindi verrà pagata al prezzo di dover avvertire costantemente un sentimento di colpa che sarebbe pertanto un appannaggio dell’uomo fin dai primi istanti di vita. In stretto riferimento alla impostazione Kleiniana, Grinberg (39) sottolinea l’esistenza di due tipi di colpa: quella persecutoria, derivante dall’istinto di morte e tendente all’autorimprovero ed al timore della punizione, e quella depressiva, funzione dell’istinto di vita, che tende alla riparazione. Il suicida, non riuscendo più a tollerare la persecutorietà della colpa, giunge a liberarsi di essa immolandosi.

Il tema della colpa è stato affrontato anche dagli psicopatologi contemporanei: Callieri (40) (1961) intende il senso di colpa come “qualcosa di primario che satura in sé tutte le esperienze di vita, come un insopprimibile bisogno di umiliarsi, di punirsi, di annullarsi, di sopprimersi”. Secondo Milici (41) (1950), dal vissuto depressivo all’ideazione suicidaria, all’atto, assistiamo ad un crescendo che culmina con una reazione di morte: “Dapprima segni di aumentata disperazione … tristezza ed introversione … senso di indegnità ed irrealtà … sensi di colpa: ho danneggiato la famiglia, il mondo … ho ucciso il mondo … la morte è migliore della morte vivente … è meglio morire … sta morendo … è morto … ogni cosa è morta”. Numerosi studi (42,43) basati sulla testistica hanno rilevato la colpa come uno dei principali aspetti cognitivi presenti in soggetti con comportamenti suicidari.

La colpa, individuata anche nell’ambito della psicopatologia di orientamento fenomenologico come uno degli elementi nucleari della depressione melanconica, sembra essere quindi uno dei più importanti fattori cognitivi che distinguono la transizione dall’attaccamento alla vita alle tendenze suicidarie.

In questo senso, il suicidio del melanconico non sarebbe tanto quello, in un certo senso egoistico, che sarebbe finalizzato a interrompere la propria vita divenuta invivibile perché priva di speranza e piena di dolore, quanto atto di espiazione teso a liberare, più che se stesso dalla vita, il mondo da una ignobile e nefasta presenza.

L’impulsività

Spesso il suicidio presenta tutte le caratteristiche dell’atto impulsivo: pericolosità dell’azione, sensazione crescente di tensione prima di compiere l’atto, gratificazione o – meglio – sollievo nel momento in cui l’azione si realizza, tentativo di resistenza unito a desiderio impellente. Non a caso dunque tra i fattori di rischio per il suicidio compaiono elementi che notoriamente si associano ad una maggiore impulsività, come lo stato misto, l’abuso di alcool e/o di sostanze, la presenza di derealizzazione o di alterazione della coscienza. Riguardo all’incremento del rischio suicidario in caso di “maniacalizzazione” del quadro depressivo (stato misto), occorre osservare come, anche per quanto riguarda le caratteristiche della depressione, è stato dato particolare risalto all’agitazione come elemento facilitante la messa in atto di comportamenti suicidari (44). È del resto osservazione comune che i depressi ansiosi o agitati (ricordiamo che l’agitazione è tra i criteri di “Depressione con melanconia”) compiono con maggiore frequenza tentativi di suicidio. Il comportamento suicidario si impone, nei depressi ansiosi e agitati, con le caratteristiche dell’impulso repentino e brutale in un momento di improvviso restringimento del campo di coscienza; ciò si verifica con maggior frequenza in quella che veniva definita “malinconia involutiva”, in cui i pazienti passano da momenti di stupore depressivo a momenti di estrema agitazione (“raptus melancholicus”). Il rallentamento psicomotorio, infatti, appare meno direttamente collegato all’atto suicidario rispetto all’alterazione psicomotoria di polarità opposta: Bradvik e Berglund (45) hanno messo in evidenza come nei pazienti depressi con malinconia il rischio di suicidio è correlato all’insorgenza acuta ed alla mancanza di rallentamento psicomotorio.

Coerentemente con tali considerazioni, nel Disturbo Bipolare, la cui diagnosi sembra essere il più valido elemento predittore di comportamento suicidiario (46-49), il suicidio viene compiuto nelle fasi di remissione della sintomatologia depressiva, specie se si verifica un “viraggio rapido” alla condizione contropolare in cui si realizza la perdita delle condizioni di olotimia, con la conseguente scomparsa di una relazione coerente tra umore e comportamento; il suicidio sarebbe quindi il risultato di una condizione in cui la coscienza di sé è particolarmente labile, minata com’è da una continuità temporale del sé ridotta al minimo, in quanto il soggetto si troverebbe a vivere due ritmi temporali inconciliabili. La motricità e la determinazione propria dell’eccitamento maniacale potrebbero giungere a togliere un freno all’ideazione depressiva, favorendo quindi il passaggio dall’ideazione all’atto. Mentre sono contrastanti i dati riguardo al maggior rischio di suicidio nei bipolari I (49,50) o II (46,47,51), è infatti provato un alto rischio nei pazienti bipolari in fase mista (52,53), in cui le sensazioni depressive, la vigilanza mentale e lo stato disforico, accompagnati da innalzati livelli di energia ed impulsività, sembrano rappresentare una combinazione critica.

In questa ottica si prescinde quindi da una comprensione dell’ideazione suicidaria, dal chiedersi da dove nasca l’aspirazione a porre termine alla propria vita e quale significato rivesta nella dinamica del vissuto melanconico, fornendo invece una giustificazione soltanto del passaggio all’azione. Un’ideazione sempre presente, un proposito con essa coerente sempre accarezzato, ma frenato da componenti inibitorie insite nella struttura stessa della depressione, diventano azione per la disinibizione indotta dall’inserimento di componenti attivatorie contropolari.

Il difetto di insight

Le fasi percorse dal paziente con depressione “endogena” che arriva a suicidarsi sembrano essere ben definite dal punto di vista cognitivista: 1) il considerare la necessità della morte come un assioma, una proposizione cui si è giunti, ma che non ha bisogno di dimostrazioni; 2) la progressiva impenetrabilità alla critica, che può diventare assoluta; 3) l’assenza o la scomparsa di una coscienza di malattia: il paziente non trova, o non trova più, nell’idea del suicidio, e neppure nell'”affekt” che a tale idea si accompagna, nessun significato patologico. L’idea in questione viene vissuta all’inizio con un sentimento di paura: essa cioè viene avvertita come estranea (egodistonica) e pericolosa; successivamente perde questo carattere terrifico, diventa patrimonio della psiche (egosintonica), acquista addirittura un significato rassicurativo e protettivo. Le difese coscienti dell’individuo (rappresentate da configurazioni etiche, proprie e/o della cultura, dalle situazioni affettive, dalle condizioni ambientali, ecc.) perdono progressivamente la loro energia e lasciano il campo ai complessi patologici relativi al suicidio. Occorre quindi ricordare che la progressiva “maturazione” del fenomeno-suicidio, attraverso le fasi della paura dell’atto, della dichiarazione di intenzionalità, del passaggio all’atto, si pone in relazione con una diminuzione, fino alla scomparsa delle difese attive da parte dell’io cosciente nei confronti dell’invadenza suicidaria, e con la perdita di insight. Caratteristica cognitiva del suicidio nei disturbi endogeni dell’umore è quindi la convinzione di dover morire, che ha i caratteri dell’idea delirante (54).

Parlare di perdita di insight nella malinconia suicidaria vuol dire quindi riferirsi a quel disfunzionamento cognitivo complessivo che, partendo dalla colpa irrazionale e dal risentimento, attraversando stati di depersonalizzazione-derealizzazione, giunge alla convinzione delirante di meritare la morte. L’ideazione suicidaria, pur non assumendo una configurazione psicotica in senso stretto, si inscrive quindi nella tipica cedevolezza della sfera cognitiva presente in ogni depressione malinconica, pur “senza sintomi psicotici”. Occorre ricordare a tal proposito come il termine “insight” non indica un sintomo isolato che può essere assente o presente, ma è meglio rappresentabile come un continuum di pensiero e di sentire, riferito a come la malattia inficia le interazioni dell’individuo con il mondo (55).

Anche in questa prospettiva il proposito di togliersi la vita non viene spiegato, se non in termini di consequenzialità cognitiva, ma se ne sottolinea il contesto latamente “delirante” nel quale la realtà interna, più che quella esterna, si trasforma, viene sostituita da un’altra realtà, altrettanto vera: quella della colpa, dell’assenza di un futuro, della inesorabilità dell’atto suicidario.

I sintomi psicotici

Studi (56,57) condotti su depressi psicotici in senso stretto, per esempio pazienti deliranti, non hanno mostrato un aumentato rischio di suicidio, tanto che, secondo Mitterauer (58) (1981), “delirio e suicidio si escludono a vicenda, in quanto il primo è una modalità di comunicazione, mentre il suicidio è la negazione della comunicazione stessa”. Pinel (11) affermava che “la malinconia con idee suicidarie è caratterizzata da un delirio circoscritto ad un solo oggetto, il disgusto per la vita; esso diviene un’idea dominante che sembra assorbire tutte le facoltà intellettive. Altri Autori (59) hanno invece riscontrato un rischio di suicidio nelle depressioni maggiori deliranti superiore rispetto a quelle non deliranti; sarebbero le esperienze allucinatorie o le idee deliranti a contenuto di indegnità, rovina, peccato, punizione, persecuzione e soprattutto colpa a dare giustificazione all’autosoppressione (60-62), mentre meno correlati sono i deliri di malattia (61). Miller e Chabrier (63) riportano un rischio suicidario particolarmente alto nei pazienti con Depressione Maggiore Unipolare che presentino deliri di colpa associati a deliri di persecuzione.

Certamente aspetti psicotici, ideazione di colpa, mancanza di insight, ai quali il comportamento suicidario appare correlarsi, sembrano costituire un pattern coerente, sotteso da mutamenti drammatici nella sfera cognitiva. La compromissione cognitiva sembra rappresentare un livello di gravità superiore del quadro depressivo, come se, alle disfunzioni biologiche che alimentano il vissuto depressivo nelle sue componenti affettive e psicomotorie “di base”, se ne aggiungesse, non necessariamente come fase evolutiva longitudinale del quadro, un’altra capace di sovvertire schemi cognitivi altrimenti compatibili con il vissuto depressivo e capaci di costituire una “difesa” di fronte al suo dilagare. Come se, metaforicamente, l’ondata depressiva più pertinente alle funzioni emotivo-affettive dell’emisfero destro, in una ingravescenza del quadro tracimasse nell’emisfero sinistro a invadere e coinvolgere anche le funzioni più razionali e “cognitive”, tipiche della specializzazione di questo emisfero.

Una visione questa che sposterebbe il suicidio dalla patologia degli istinti (perdita dell’istinto della conservazione di sé) così come collocato dalla classica psicopatologia descrittiva, a quella della cognitività, come risulta dalle analisi statistiche condotte sulla rilevazione operata con Rating Scales nelle quali il suicidio fa parte del fattore “disturbi cognitivi” saturato da colpa, ideazione paranoidea, sintomi ossessivi e depersonalizzazione, nonché agitazione.

Rapporto tra suicidio ed aspetti longitudinali della malinconia

Decorso

Sono abbastanza controversi i dati riguardanti la relazione tra comportamento suicidario e decorso della malattia maniaco-depressiva. Sono abbastanza consistenti gli elementi indicatori di un aumentato rischio di suicidio all’inizio del primo episodio di malattia affettiva: alto rischio in bipolari nella prima decade seguente il primo ricovero (64,65); il 40% dei suicidi entro i primi sei mesi del primo ricovero, più del 50% nel primo anno (66); il 30% dei tentati suicidi ai primi sintomi della malattia bipolare o durante il primo episodio depressivo, con intervallo medio di 5,5 anni (67). Anche nelle forme di depressione con sintomi melanconici insorte dopo un evento importante, che venivano denominate “depressioni endoreattive”, il suicidio comparrebbe a ridosso dell’evento scatenante (54).

Il rischio di suicidio è comunque caratteristicamente presente in ogni fase nella malattia depressiva: Himmelhock (44) ha suggerito che il suicidio possa essere, sia psicologicamente che a livello neuronale, soggetto a kindling, o che, per meglio dire, in aggiunta agli aspetti biologici del kindling, i pazienti divengano sempre più intolleranti nei confronti di ogni nuovo episodio di depressione, aumentando così il rischio di suicidio man mano che la malattia si prolunga. Altri Autori, distinguendo nelle depressioni endogene quelle “long acting” da quelle cicliche ricorrenti, indicano come spesso il suicidio compaia solo dopo molti anni dall’inizio di una depressione cronicizzante, o, nella ciclica, solo dopo un certo numero di episodi di malattia. Gli stessi Johnson e Hunt (67), pur riportando la metà dei tentativi seri nel giro dei primi cinque anni di malattia depressiva, riportano un range, davvero impressionante, di 27 anni. Merikangas e al. (68) hanno dimostrato come i tentativi di suicidio siano maggiori nelle depressioni ricorrenti (20%), dove un netto miglioramento si alterna a ricadute, rispetto alle depressioni a episodio singolo (3%). È da ricordare come questo sia uno dei criteri longitudinali dell’episodio depressivo con caratteristiche melanconiche.

E anche se è clinicamente evidente la correlazione tra rischio suicidario e gravità dell’episodio depressivo, è stata anche segnalata una frequenza inaspettata di suicidi (circa il 30%) in fase di miglioramento (66-69). Questo apparente miglioramento in fase presuicidaria ha portato alla formulazione di varie ipotesi: potrebbe riflettere la calma derivata da una decisione ormai definitivamente presa, oppure un miglioramento clinico effettivo, seguito però da una forte dose di frustrazione al ritorno dei sintomi, o un inganno deliberato del paziente verso il medico, il personale dell’ospedale, la famiglia, al fine di non trovare ostacoli ai suoi propositi di suicidio; o ancora potrebbe essere imputato ad una ripresa della vita con tutti i suoi obblighi e le sue responsabilità senza più “l’alibi” della malattia, ma con ancora presenti sintomi residui invalidanti, o infine al “vuoto” lasciato dalla scomparsa dell’ideazione delirante nella fase di remissione di una depressione con manifestazioni psicotiche.

Forse però l’ipotesi più probabile è che si tratti di una calma reale “prima della tempesta”, causata da mutamenti biologici o dalla transizione da una fase all’altra della malattia, ad esempio da depressione a ipomania, mania o, come accennato più sopra, a stato misto.

Ciclicità stagionale e circadiana

Per quanto riguarda il rapporto tra comportamento suicidario e decorso della depressione maggiore, occorre anche accennare all’esistenza, ormai ampiamente documentata, di una ciclicità stagionale e circadiana del suicidio. Il tasso di suicidio sembra aumentare drasticamente in primavera ed autunno ed in minor misura in inverno (nadir in dicembre) (70-73). Questo trend, che sembra prevalere nei paesi a clima freddo (74), nelle aree rurali e nel sesso maschile (75), sembra essere ancora più evidente nel caso in cui il comportamento suicidario sia sotteso da una depressione maggiore: il più alto numero di suicidi nei pazienti gravemente depressi si registra infatti nei mesi di Maggio e di Ottobre, in coincidenza con le ricadute degli episodi depressivi maggiori unipolari, o con i viraggi della tarda primavera, o con gli episodi di depressione post maniacale, legati, secondo la maggior parte degli Autori, alle variazioni del fotoperiodo (76).

È stata inoltre riportata l’esistenza di una ritmicità circadiana del comportamento suicidario: la maggior parte degli studi riporta una distribuzione bimodale giornaliera del suicidio, con un primo picco nella mattina (9:00-12:00) ed un secondo in serata (20:00-22:00) (77,78). La natura di questa ritmicità, soprattutto del picco serale, ha subito diverse interpretazioni: se in generale si può pensare che nella prima metà della giornata si verificherebbe un minor numero di suicidi in quanto gli impegni socio-lavorativi potrebbero distogliere il soggetto dall’ideazione e dalla messa in atto di propositi suicidari (79), nei suicidi con Depressione Maggiore la circadianità del suicidio è ritenuta, su un piano biologico, il riflesso delle alterazioni circadiane degli ormoni e dei neurotrasmettitori, tipiche delle depressioni endogene (80), e, su un piano clinico, un epifenomeno dell’alternanza diurna della sintomatologia depressiva: se la maggior gravità della sintomatologia nelle prime ore della giornata spiegherebbe il picco al mattino, la disinibizione delle ore serali potrebbe facilitare la decisione di mettere in atto un comportamento autolesivo (81). A riprova dell’alterazione del sistema circadiano alla base del caratteristico ritmo diurno del suicidio nel paziente depresso è il dato secondo il quale il comportamento suicidario è fortemente associato con i disturbi del ciclo sonno/veglia e quello attività/riposo: è stato osservato che i soggetti che conservano integri i ritmi sonno/veglia ed attività/riposo presentano un minore rischio di suicidio, indicando che la persistenza e l’integrità della ritmicità endogena può essere interpretata come un fattore prognostico positivo (82).

È ormai un dato acquisito che nelle variazioni stagionali e circadiane della sintomatologia malinconica e del comportamento suicidario ad essa legato possano giocare un ruolo chiave le disfunzioni della ghiandola pineale, riscontrate separatamente in entrambe le condizioni (83). Pertanto il suicidio nella malinconia sembra essere legato, in una prospettiva cronobiologica, al più generale “disincronismo dell’orologio endogeno” caratteristico della depressione endogena, che Tellenback (3) definiva come “malattia cosmica”.

Fattori psicosociali di rischio

Abbiamo già accennato al fatto che la Depressione con Malinconia presenta, oltre ad una maggiore gravità clinica complessiva, una minor incidenza di fattori stressanti nella sua genesi (84). Questa osservazione sembra essere valida anche per il comportamento suicidario del paziente malinconico. Molti Autori concordano infatti nel ritenere che il suicidio, nella depressione endogena, sia l’espressione di una via intrinseca all’individuo, relativo all’assoluta preponderanza del momento introversivo su quello estroversivo, e che “il resto del mondo” perda così ogni possibilità di influenzare il pensiero e il sentire del depresso: in questo senso gli eventi esterni avranno, al più, il significato di un elemento scatenante, del primo o ultimo anello della catena.

In alcuni studi (85,86) è stato riportato come fattore di rischio l’isolamento sociale, ma in realtà è difficile stabilire se sia causa del suicidio o conseguenza della depressione: da uno studio di Nelson e al. (87) (1977) risulta che i soggetti depressi che attentano alla propria vita hanno come caratteristica quella di preferire uno scarso coinvolgimento sociale, e mostrano nei confronti degli altri bassi livelli di tolleranza.

Può essere chiamato in causa il disfunzionamento familiare, ma, anche in questo caso, è ipotizzabile anche il meccanismo contrario: Keitner e al. (88) (1987), per esempio, hanno dimostrato come i pazienti con Depressione Maggiore e comportamento suicidario percepiscano la propria famiglia ed il proprio ruolo al suo interno più negativamente di quello che sia in realtà. Kosky e al. (89) (1986), confrontando soggetti affetti da “depressione somatica” con e senza ideazione suicidaria, non hanno riscontrato differenze rispetto a pregresse esperienze di abbandono, né a caratteristiche extrafamiliari e sociali. Infine, Bradvik e Berglund (45) hanno dimostrato come nei depressi con Malinconia il suicidio sia meno correlato ai fattori psico-sociali rispetto alle depressioni in generale: nel loro campione di depressi con Malinconia morti suicidi, le pazienti di sesso femminile addirittura avevano, rispetto ai controlli, meno malattie fisiche, ed avevano avuto con minor frequenza un’infanzia oggettivamente infelice.

Conclusioni

Abbiamo quindi diversi elementi per escludere, in accordo con il lavoro di Bradvik e Berlung (45), che il comportamento suicidario nella depressione melanconica sia influenzato da fattori psicosociali o da eventi di vita; invece la familiarità, l’insorgenza spesso repentina di tale ideazione, la presenza di correlati biologici, la ciclicità stagionale, l’impossibilità spesso di trovare una qualche giustificazione razionale ad un atto che va contro i più forti istinti vitali depongono per il carattere biologico, “organico” del suicidio, che lascia poco spazio ad atteggiamenti di tipo manipolativo, ad incoraggiamenti, a consigli. Nel modello a sovrapposizioni di Blumenthal (90) (1988) per la vulnerabilità suicidaria, il suicidio del melanconico vede dilatarsi l’area relativa al substrato biologico, che può rappresentare una diatesi comune anche al disturbo psichiatrico stesso. Del resto, colpisce il fatto che uno psichiatra ad orientamento psicodinamico come Glen Gabbart affermi che “… i fattori determinanti del comportamento suicidario possono essere tanto biologici quanto psicologici. Gli aspetti psicodinamici possono essere secondari rispetto ad eventuali modificazioni neurochimiche. Pertanto, nel contesto di un approccio psicoterapico, dovranno essere massimamente usate tutte le modalità disponibili di trattamento somatico …” E se questa affermazione è vera per ogni comportamento suicidario, essa è certamente più pertinente in relazione ad un suicidio così “biologico” come quello del depresso malinconico.

A fronte di questa considerazione, dalla nostra rassegna appare tuttavia evidente come neppure in un sottotipo più specifico di disturbo affettivo quale la melanconia possa essere proposto un modello unitario di interpretazione del comportamento suicidario. Molte sono le variabili coinvolte, non tutte inquadrabili in modo coerente in un unico profilo psicopatologico e/o biologico. È forse possibile (e quindi in un’ottica preventiva necessario) delineare alcune componenti psicopatologiche, tutte riscontrabili in un quadro di depressione melanconica così come è definita dagli attuali sistemi classificativi (di cui ricordiamo gli inevitabili limiti descrittivi), più facilmente associabili a comportamento suicidario.

L’agitazione, componente del quadro melanconico o comparsa in un divenire di disinibizione verso una fase mista o una larvata ipomania, mobilizza valenze suicidarie, altrimenti inattuabili nel contesto inibitorio della depressione, alimentate dall’invasione nel vissuto di un passato carico di rimorso e/o di risentimento. Disinibizione, agitazione, talora impulsività, che troverebbero il loro corrispettivo biologico in un abbassamento particolarmente accentuato del tono serotoninergico, così come indicato da numerosi studi post-mortem su pazienti suicidi.

Componenti francamente psicotiche sono state segnalate da diversi Autori come fattori di aumentato rischio di suicidio nel paziente malinconico, che può darsi la morte per incapacità a tollerare il suo vissuto delirante o spinto dal contenuto stesso delle allucinazioni, l’una e le altre collegate tradizionalmente ad una attivazione dopaminergica.

Un altro profilo è quello classico del paziente malinconico in cui il suicidio si inscrive in un magma di vissuti ideativi negativi e totalmente impenetrabili alla critica come la “hoplessness”, il sentimento di colpa, la percezione del tempo come chiuso ed inesorabile. Questa condizione appare francamente cognitiva, e non ha ancora correlati biologici così chiari, ma paradossalmente appare forse la più “somatica”, come l’estrema conseguenza di quella perdita di energia vitale, dello “spirito” nel suo senso più classico, che suggestivamente è stata descritta dagli antichi come l’invasione della bile nera.

Comunque nessuno di questi aspetti appare del tutto persuasivo, acquistando valore e significato nel singolo caso, senza essere in grado di darci una comprensione esaustiva e generalizzabile del percorso psicopatologico che culmina nel suicidio, così come i diversi correlati biologici dimostrati o persuasivamente intuibili non ci giustificano niente di più che la verosimile natura biologica della melanconia, e quindi, verrebbe da pensare, del suicidio. Forse altre chiavi di lettura del mondo melanconico che consentano un’indagine a livelli psicopatologici più profondi potranno definire un contesto strutturale in cui il suicidio più coerentemente si collochi

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