Le dimensioni della sofferenza psichica

The dimensions of mental distress

E. Aguglia, B. Forti*

Direttore U.C.O. di Clinica Psichiatrica, Università di Trieste * Dipartimento di Salute Mentale, A.S.S. 6 "Friuli Occidentale", Pordenone

Parole chiave: Sofferenza psichica • Psicopatologia • Ansia • Depressione • Sintomi somatici • Emozioni di base • Differenze transculturali
Key words: Mental distress • Psychopathology • Anxiety • Depression • Somatic symptoms • Emotional basic responses • Cross-cultural differences

Introduzione

È estremamente arduo definire la sofferenza umana nei suoi diversi modi d’espressione. In molti casi essa origina dalla sofferenza fisica, ma quasi invariabilmente va al di là della mera sofferenza fisica. Può svilupparsi indipendentemente da essa, e ciò nondimeno manifestarsi attraverso canali che interessano il soma. Inoltre, aspetti relativi alla dimensione ansiosa e depressiva possono essere comuni sia all’ambito fisiologico che patologico, tanto che negli studi sulla sofferenza “normale” vengono spesso impiegati strumenti mirati alla rilevazione di sintomi psicopatologici, come la Symptom Check List nelle sue diverse varianti (1), la Beck Depression Inventory o la Trait Anxiety Inventory.

Un’ulteriore difficoltà è data dalle differenze, anche rilevanti, esistenti nei diversi contesti socio-culturali, tanto che, confrontando i costrutti qualitativi derivanti dai differenti idiomi di espressione del distress con i costrutti quantitativi derivanti da analisi fattoriali di livello elevato, Masse (2) conclude che “il dilemma rappresentazionale dello stress come linguaggio vissuto o entità empirica reificata conduce ad una incommensurabilità ontologica e teleologica”.

Tuttavia, a fronte di una pervasiva difficoltà di obiettivazione della sofferenza, anche legata alla sua natura eminentemente soggettiva, esistono pattern universali di trasmissione e riconoscimento delle emozioni, rispetto a cui l’universalità dell’espressione artistica della sofferenza costituisce una significativa testimonianza. Prenderemo quindi l’avvio da una concezione della sofferenza legata al senso comune ed agli accadimenti esistenziali che, al di là delle differenze individuali e culturali, tendono ad elicitarla nella popolazione generale.

Le dimensioni fisiologiche e parafisiologiche della sofferenza

La sofferenza come risposta ad eventi negativi

La sofferenza psichica è un vissuto esistenziale che fa parte della natura umana. Nella normalità dovrebbe costituire un fatto reversibile legato a determinati momenti dell’esistenza ed alla possibilità di recupero di uno stato di benessere. La reversibilità è legata tuttavia all’entità, alla natura e al perdurare della situazione che può averla creata. Le sofferenze conseguenti all’esperienza dei campi di concentramento e dell’olocausto sono rintracciabili, nei sopravvissuti, anche a distanza di 30 o 40 anni dall’evento (3). Senza andare a situazioni così estreme, vi sono eventi legati ad incidenti o malattie gravi, disastri naturali, perdita dei figli, che lasciano uno strascico di sofferenza difficilmente superabile. In non pochi contesti storico-culturali, per mancanza dei mezzi di sostentamento, conflitti armati, restrizioni della libertà o minacce alla propria integrità fisica, o in situazioni di profondi mutamenti storico-culturali e di emigrazione, la sofferenza psichica può parte integrante della società a tal punto da render difficile la distinzione fra condizioni esistenziali comuni a una larga percentuale delle persone e patologie psichiatriche come la depressione.

Un’analisi della Letteratura più recente sul rapporto fra sofferenza psichica, eventi di vita ed esperienze stressanti, ci può fornire un quadro d’assieme degli aspetti legati alla sofferenza non patologica considerati motivo d’interesse per la ricerca. Da essa emerge una casistica che, seppur largamente incompleta, indica quante svariate tipologie di problematiche esistenziali possano provocare sofferenza, con differenze molto marcate nella natura, durata e severità degli eventi stressanti, e presumibilmente con una diversa natura della sofferenza ad esse associata.

Tipologie di eventi

Si va da accadimenti gravi, come disastri naturali, eventi bellici ed importanti movimenti migratori (4-6), che coinvolgono ampie fasce di popolazioni, a problematiche psicosociali individuali di differente entità: classe sociale disagiata, incidenti a rischio per la vita, disoccupazione, rapina a mano armata, eventi negativi minori, stato di detenzione (7-12).

In molti casi l’evento stressante coinvolge in prima persona la donna, come nell’abuso sessuale, nell’assunzione del ruolo genitoriale da parte delle madri divorziate o delle nonne, o nelle difficoltà legate al lavoro femminile (13-15). Nell’aborto, problematica allo stesso tempo fisica e psicosociale, le reazioni possono essere diverse. Nei casi di interruzione volontaria di gravidanza si riscontrano livelli significativi di sofferenza psichica anche nei maschi coinvolti. Livelli più elevati e duraturi di distress si verificano quando la donna vive da sola, riceve poco supporto emozionale da familiari e amici, vi sono cambiamenti negativi nel rapporto col partner, è religiosa e ha un’attitudine avversa o ambivalente verso l’aborto (16). L’aborto spontaneo, invece, è più facilmente collegato a reazioni negative e di autorimprovero quando non viene riscontrata la causa precisa di tipo medico (17).

Correlazioni evento-reazione emozionale

Non sempre le risposte a determinate situazioni combaciano del tutto con quanto intuitivamente atteso. La violenza fisica o psicologica nella coppia provoca sofferenza non solo in chi la subisce, ma anche in chi la perpetra, sia esso maschio o femmina (18), e le conseguenze sulla sofferenza psichica nei figli adulti di genitori divorziati sono più gravi se il divorzio è avvenuto quando i figli erano già grandi (19). Nel lavoro domestico, più che l’ammontare in assoluto del carico di lavoro, è la non equità nella suddivisione del lavoro, nella maggior parte dei casi a danno del sesso femminile, a causare distress (20).

In alcuni casi vengono analizzate correlazioni semplici o relativamente semplici, altre volte vengono contemplati contemporaneamente più elementi interagenti quali la presenza di disoccupazione e la maternità recente (21) o di difficoltà finanziarie in ragazze madri (22), oppure i fattori che in un contesto predisponente possono aumentare la probabilità di sofferenza che ad esempio, in caso di divorzio, è stata associata a spiegazioni causali interne, stabili e globali, in donne che percepivano se stesse come incapaci di prevenire la fine del proprio matrimonio (23). In una ricerca condotta in Italia sulle primipare, ad un anno di distanza dalla nascita del figlio i fattori collegati a distress nelle madri risultano essere una relazione di coppia non soddisfacente, mancanza di un confidente, importanti problemi di salute del bambino, preoccupazioni finanziarie, età più elevata e una discrepanza fra stato lavorativo attuale e desiderato (24).

Studi sulla popolazione generale

In un numero molto più ristretto di ricerche sono stati esaminati i fattori correlati alla sofferenza psichica nella popolazione generale. Uno studio sul distress nella popolazione adulta non istituzionalizzata degli Stati Uniti ha evidenziato che esso è più frequente negli individui disoccupati, inabili al lavoro, indigenti o in una condizione di separazione o vedovanza (25). Dall’analisi di un setting comunitario italiano è emersa un’associazione fra distress emotivo da un lato ed eventi di vita indesiderabili e problemi sociali dall’altro, mentre le caratteristiche sociodemografiche e lo stato di salute fisica non sembrano esercitare un effetto statisticamente significativo (26). Negli uomini, tuttavia, l’associazione riguarda anche la presenza di sintomi fisici e uno stato di vedovanza, separazione o divorzio. Nella popolazione femminile problemi con il partner e mancanza di confidente possono portare, in presenza di sofferenza emozionale, a rivolgersi più frequentemente al medico di medicina generale (27).

Sofferenza psichica e malattie fisiche

Anche il rapporto fra sofferenza psichica e malattie fisiche ha ricevuto grande attenzione da parte dei ricercatori. Come nel caso di altri stressor psicosociali i livelli di gravità possono essere molto variabili, dal cancro in fase terminale alla dispepsia, non sussistendo comunque una correlazione diretta fra entità oggettiva della malattia ed entità soggettiva della sofferenza ad essa conseguente. Fra le patologie maggiormente oggetto di interesse ritroviamo l’AIDS (28), l’artrite reumatoide (29) e le diverse forme neoplastiche. Nell’ambito di queste ultime una delle malattie più studiate è il cancro al seno (30-32), sotto aspetti diversi che comprendono le reazioni immediate e a lungo termine alla malattia, le ricadute, gli interventi chemioterapici, e così via. Le donne più giovani mostrano maggiore sofferenza affettiva e difficoltà di adattamento alla situazione, ma solo nel periodo iniziale.

La malattia non coinvolge solamente l’individuo che ne è affetto. Molti studi sono stati effettuati sul malessere di medici, infermieri e in generale degli operatori sanitari nella routine lavorativa o in particolari situazioni, come l’assistenza ai malati di AIDS (33). Il disagio coinvolge in prima istanza i congiunti, soprattutto in relazione all’entità del care-giving ed alle conseguenze comportamentali del disturbo (34), più rilevanti in presenza di patologie mentali (35). Da uno studio di Winefield e Harvey (36) emerge, in maniera inaspettata, che prendersi cura di donne affette da schizofrenia produce più elevata sofferenza psichica che nel caso dei maschi, mentre le donne tollerano meno il ruolo di care giving verso il partner affetto da demenza (37).

Lutto e dimensioni della sofferenza

Uno degli eventi stressanti più comuni e paradigmatici di un certo tipo di sofferenza, ma allo stesso tempo più destrutturanti, è la perdita di una persona cara, sia che si tratti del coniuge, del genitore, dei figli, che di altre persone significative. Più del disturbo post-traumatico da stress, che per definizione discende dall’esposizione ad un evento traumatico di natura estrema, il lutto, nell’universalità delle sue manifestazioni e dei suoi meccanismi, rappresenta una condizione ideale per esplorare le manifestazioni fisiolofiche e parafisiologiche della sofferenza umana. Nel lutto sono stati analizzate più dimensioni distinte della sofferenza: depressiva, ansiosa, somatica, oltre ai fenomeni specifici del cordoglio. Esse possono presentarsi in proporzioni diverse a seconda della natura fisiologica, parafisiologica o francamente patologica del lutto, con in certi casi il sovrapporsi ed il permanere di una sintomatologia psichiatrica franca. In molti casi può essere molto difficile stabilire il limite fra natura fisiologica e patologica del lutto.

Per quanto concerne i sintomi di tipo depressivo, non esiste una chiara linea di separazione fra cordoglio normale e depressione clinica, con molte delle manifestazioni tipiche dell’episodio depressivo maggiore appartenenti anche alla normale fenomenologia del lutto, ma questo non implica che lutto e depressione facciano parte di una medesima sindrome. In una popolazione di vedovi e vedove un quarto dei soggetti presenta a due mesi di distanza dalla scomparsa del coniuge sintomi compatibili con una diagnosi di Depressione Maggiore, percentuale che scende al 16% a 13 mesi di distanza (38). I sintomi che non vengono considerati tipici del lutto, come senso di inadeguatezza, marcato rallentamento psicomotorio o comportamenti suicidari, tendono a non essere presenti nemmeno se le manifestazioni depressive permangono a più di un anno di distanza.

I sintomi ansiosi non stati frequentemente esaminati nel lutto, nonostante facciano parte del modello di ansia di separazione proposto da Bowlby (39), tuttora uno dei più validi riferimenti teorici del processo di reazione alla perdita. I disturbi ansiosi sono tuttavia non solo frequenti, ma tendono a permanere anche nei mesi successivi in una percentuale che può arrivare al 44% dei casi (40). Il rischio di sviluppare un disturbo di panico nel corso del primo anno è del 14% e quello di sviluppare un disturbo d’ansia generalizzata è del 39%. Nella fase più avanzata quest’ultimo è quasi sempre associato alla depressione.

Riguardo alle manifestazioni fisiche della sofferenza, il lutto comporta una vulnerabilità ad una ampia gamma di problemi fisici ed un aumentato rischio di mortalità nel corso delle prime fasi (41). Tuttavia, non è riscontrabile una chiara relazione fra la fenomenologia del lutto e la presenza di sintomi somatici. Nel lutto compaiono naturalmente anche fenomeni specifici del cordoglio, i sintomi “core” del lutto, come immagini e pensieri riguardanti il defunto, fenomeni acuti di separazione, sensazioni di tristezza, dolore, desiderio intenso e così via.

Sono infine da considerare le caratteristiche del lutto complicato, che non sono sovrapponibili né a quelle del lutto semplice né a quelle di un disturbo ansioso o dell’umore. Schematicamente, è possibile distinguere due tipi di manifestazioni: i sintomi intrusivi e i segni di evitamento e difficoltà di adattamento (42). I sintomi intrusivi comprendono fantasie e memorie non desiderate legate alla relazione perduta, emozioni improvvise e dolorose, e un intenso desiderio, vissuto spiacevolmente, di riavere con sé la persona scomparsa. Per quanto riguarda i segni di evitamento e difficoltà di adattamento, che implicano una mancata accettazione della scomparsa e un diniego delle implicazioni della perdita, possono essere presenti perdita di interesse maladattativa alle attività lavorative ed alla vita di relazione, rifiuto di credere alla morte della persona cara, evitamento delle persone e dei posti che possono ricordare il soggetto deceduto e sentimenti di vuoto e di eccessiva solitudine.

Ciò che è importante è che le diverse dimensioni della sofferenza nel lutto sembrano appartenere ad un processo omogeneo, pur nell’articolazione delle sue componenti, e profondamente radicato nella natura dell’uomo. Uno studio recente, che ha preso in esame l’andamento longitudinale del lutto nei 12 mesi successivi alla scomparsa in tre diversi gruppi di soggetti composti rispettivamente da vedovi, genitori e figli adulti, ha riscontrato una progressiva e parallela diminuzione della sofferenza psichica nelle diverse dimensioni depressiva, ansiosa, della salute generale e del cordoglio, senza differenze significative fra i tre gruppi (41). L’unica differenza riguarda il fatto che, a fronte di una sovrapposizione nelle altre misure psicologiche, i fenomeni specifici del cordoglio vengono sperimentati più frequentemente, nell’ordine, dai genitori, dai coniugi e dai figli adulti.

Secondo Chen et al. (43), nel lutto normale emergono tre distinti cluster sintomatologici: trumatic grief – i fenomeni specifici del cordoglio -, ansia e depressione. Uscendo dallo specifico della reazione alla perdita, si riscontrano interessanti aspetti di sovrapposizione e differenziazione. Un’analisi fattoriale di una popolazione comunitaria di 3500 gemelli, che esplorava le dimensioni della sofferenza, ha prodotto quattro fattori: depressione, ansia fobica, sintomi somatici e disturbi del sonno (44), da cui la sofferenza somatica emerge come una dimensione psicologica distinta, correlata ma indipendente da ansia e depressione. Un’altra dimensione importante della sofferenza psichica è quindi quella somatica, meno importante nel lutto forse a causa dell’accettazione dell’espressione sociale della sofferenza conseguente alla morte di un congiunto, spesso codificata culturalmente.

La dimensione somatica della sofferenza

La somatizzazione implica una tendenza ad esperire e a comunicare la sofferenza nella forma di sintomi somatici ed a chiedere aiuto medico per affrontare il problema (45). Così definita, non è né un disturbo né una categoria diagnostica, ma un termine generico per un insieme di caratteristiche esperienziali, cognitive e comportamentali di pazienti che lamentano sintomi fisici in assenza di riscontri medici significativi. Le somatizzazioni possono essere transitorie o persistenti, e non necessariamente sono associate ad un disturbo fisico o psichiatrico. Contrariamente a quanto si pensa, si associano più comunemente ai disturbi affettivi e ansiosi che ai disturbi somatoformi. I sintomi più comuni sono dolore, stanchezza, vertigini e dispnea.

Una recente ricerca condotta in 14 Paesi differenti ha evidenziato che i sintomi somatici e la sofferenza emotiva tendono a presentarsi insieme nei soggetti afferenti ai servizi di medicina di base, con poche differenze fra i sessi e fra le differenti culture (46). Contrariamente ai resoconti psicodinamici, la somatizzazione non si verifica quindi come una alternativa all’espressione di distress emozionale, ma si accompagna a quest’ultimo (47). D’altro canto, analisi della Bibbia, dei poemi Omerici e dell’inglese antico dimostrano che da tempi immemori le emozioni non vengono espresse solo attraverso sensazioni somatiche, ma soprattutto attraverso un gran numero di metafore somatiche e di termini astratti riguardanti stati dell’umore negativi che nel loro insieme e attraverso le loro interazioni – vedi i parallelismi dei salmi biblici – costituiscono un ricco e articolato lessico emozionale che fa riferimento soprattutto al cuore come sede delle emozioni, dell’intelletto e della volontà (48-50).

Il problema non risiede tanto nella mancanza di espressioni psicologiche ed astratte delle emozioni, ma nella scarsa distinzione, nelle culture non occidentali, della sfera affettiva da quella somatica. Presso le culture tradizionali la salute consiste di una componente fisica e di una componente emozionale che sono solo in parte differenziate, e più la cultura è tradizionale, minore è la distinzione fra malattia fisica e disturbo psicologico. Questa concezione è stata progressivamente soppiantata in occidente da un netto dualismo mente-corpo e problematizzata da psichiatri, psicoanalisti e sociologi. L’aspettativa è che l’individuo non solo dovrebbe essere capace di parlare delle proprie emozioni ma dovrebbe preferibilmente utilizzare un idioma relativo al conflitto intrapsichico o interpersonale per esprimere la propria sofferenza. La riluttanza a comportarsi in questo modo deve essere interpretata come un deficit psicologico, l’alexitimia, caratterizzato da un’incapacità a mentalizzare e ad esprimere simbolicamente le emozioni.

Ma il fatto che la cultura occidentale stia di fatto imponendo il proprio modello non impedisce di considerare la nostra concezione, che guarda con sospetto all’espressione somatica della sofferenza, chiamandola somatizzazione o alexitimia, come la ratificazione di una vera e propria sindrome culture-bond, contrastante con il dato che l’espressione corporea della sofferenza appare più “naturale” ed universale. Se la distinzione mente-corpo ha portato la scienza occidentale ad una maggiore comprensione, in molti casi, delle malattie sia fisiche che mentali, questa maggiore comprensione non deve necessariamente comportare una patologizzazione di una forma di espressione della sofferenza che appare profondamente connaturata nell’uomo.

L’approccio etologico e transculturale

La sofferenza ha, da un punto di vista evoluzionistico, un significato esperienziale che va, per quanto riguarda la dimensione ansioso-aggressiva, dall’evitamento di uno stimolo nocicettivo alla formulazione di strategie per evitare o affrontare situazioni che costituiscono a vari livelli una minaccia per sé o per i propri cari. Per quanto riguarda la dimensione depressiva, il significato consiste nell’elaborazione e nel superamento di un evento di perdita riguardante un oggetto o situazione verso cui vi era un importante e duraturo investimento motivazionale, ma anche nella consapevolezza dolorosa dei propri limiti, allorché la discrepanza attuale-atteso non è più posponibile ad un futuro in cui si spera di colmarla, ed è necessario ridimensionare le proprie aspettative. Secondo Buss (51) bisogna anche considerare che si sono evoluti dei meccanismi “progettati” per produrre sofferenza psichica, come ad esempio la gelosia o la preoccupazione, e che i meccanismi di competizione adattativa hanno selezionato gli stati d’animo positivi per beneficiare una persona alle spese di altre.

Inoltre, la sofferenza psichica ha un significato espressivo-comunicazionale, al fine di formulare una richiesta d’aiuto nel momento in cui le proprie risorse non sono sufficienti e devono essere mobilizzate quelle della propria rete sociale. Un aspetto complementare a questo, che forse si tende a trascurare, è che anche l’occuparsi della sofferenza altrui, prendendosene carico, rappresenta una specifica componente biologico-naturale della persona umana, senza la quale l’aspetto comunicazionale della sofferenza non avrebbe ragione di essere.

In termini generali, la sofferenza fa parte essenziale del superamento di eventi critici, ivi comprese le crisi fisiologiche legate allo sviluppo come l’adolescenza, in cui gli schemi e le abilità di cui già disponiamo non sono sufficienti a far fronte ad una situazione che si presenta mutata e senza precisi punti di riferimento, ed è necessario mettersi nelle condizioni di trovare nuove risorse o nell’ambiente sociale in cui si vive o al proprio interno.

L’approccio transculturale non va visto in opposizione o in alternativa a quello biologico-etologico, ma deve “fornire strumenti utili ad esplorare l’interazione fra i vincoli biologici e la risposta sociale alla sofferenza” (47). Lo studio transculturale delle emozioni offre da un lato supporti per modelli panumani della risposta emozionale, dall’altro evidenzia profonde differenze nell’esperienza e nell’espressione degli affetti. Tuttavia, anche in assenza di un utilizzo universale del termine “emozione”, vi è un nucleo di emozioni, e di stimoli che le innescano, universalmente riconosciuto, che consente tra l’altro la comunicazione interculturale. Persino nelle culture dove manca un lessico differenziato per le emozioni sono presenti ricche modalità di espressione simbolica e metaforica degli affetti.

Le emozioni sono a servizio di funzioni fondamentali nell’adattamento all’ambiente circostante e nella regolazione sociale, ed esiste quantomeno un piccolo set di risposte emozionali umane universali, come, limitandoci all’affettività negativa, paura, rabbia, tristezza, disgusto e disprezzo (52). Con esse dobbiamo considerare le aree motivazionali fondamentali, dal legame con il partner agli istinti di attaccamento-accudimento, dalle relazioni gerarchiche e cooperative nel gruppo al bisogno di appartenenza, nel cui ambito le emozioni basilari si attivano e ricevono connotazioni peculiari. Partendo da questi presupposti, le diverse espressioni culturali non sono altro che configurazioni complesse derivanti dall’amplificazione o inibizione socialmente mediata delle risposte di base che determinano pattern emozionali culturalmente specifici costruiti su questi costituenti elementari attraverso un’elaborazione cognitiva e sociale (53). Così, è naturale che, laddove l’espressione degli effetti negativi venga considerata disdicevole, umiliante, espressione di individualismo inaccettabile, deviante, o in altro modo stigmatizzata, l’espressione della sofferenza attraverso il corpo divenga l’unico mezzo comunicazionale possibile – vedi la larga diffusione della neurastenia in molti Paesi -, utilizzando peraltro dei meccanismi pienamente connaturali alla nostra specie. D’altro canto, come abbiamo visto, in una cultura come la nostra, che incoraggia l’espressione individuale e verbalizzata della sofferenza, somatizzazioni ed alexitimia vengono considerate espressioni patologiche o quantomeno poco evolute. Per citare un’ulteriore differenza culturale, va menzionato che in alcune culture orientali manifestazioni di disforia, ritiro emozionale e forme lieve di depressione possono essere accettate o addirittura approvate (47).

La cultura occidentale ricerca il benessere materiale attraverso il consumismo e la logica del profitto, privilegia l’individualismo, la competitività, l’autonomia e l’autoreferenzialità. Ha praticato in tempi relativamente recenti il passaggio dalla dicotomia permesso-proibito a quella possibile-impossibile, con la conseguente perdita di valori religiosi, morali e spirituali. Allo stesso tempo, soffre di eccesso di libertà per la molteplicità e relativa equivalenza dei valori esistenti, che perdipiù si modificano rapidamente, non consentendo il consolidarsi di punti di riferimento stabili. In queste condizioni, chi vuole ottenere il benessere nella civiltà contemporanea deve soddisfare bisogni primari ed “edonici”, essere competitivo ed efficiente dal punto di vista psicofisico. Deve adeguarsi ai valori materiali e alle norme culturali vigenti ed allo stesso tempo esprimere “plasticità” e capacità di cambiare. Altrimenti il prezzo da pagare è il malessere, il disagio, la sofferenza psichica. Sinteticamente, anche in base a quanto detto finora, possiamo enumerare i seguenti punti come emblematici della sofferenza psichica nella nostra società:

1. Distress, ansia, rabbia, nevroticismo: sono presenti e diffuse nella popolazione ma non percepite come evento patologico; è conservata la capacità di adattamento, spesso è il prezzo da pagare per il mantenimento del benessere “di facciata”.

2. Sofferenza depressiva: la dimensione depressiva tende ad essere vista come malattia anche nelle manifestazioni più lievi e transitorie come le depressioni sottosoglia; la capacità di adattamento, e di trarre piacere dalla vita quotidiana, è minata e deve essere curata.

3. Somatizzazioni, sintomi psicosomatici: quando esclusivo, è un veicolo di espressione della sofferenza inevitabile per chi non l’accetta o non riesce ad esprimerla simbolicamente, ma frustrante per medici, psichiatri e psicoterapeuti e per gli stessi pazienti.

4. Instabilità del sé come necessità e allo stesso tempo come male di vivere in assenza di punti di riferimento stabili; vi è un’incapacità a trarre godimento dal benessere raggiunto, spesso elevato nella nostra società, per la coazione a possedere oggetti sempre nuovi, come e più degli altri.

5. Le conseguenze per chi non vuole o non può adeguarsi al modello prevalente sono noia e ricerca di piacere artificiale da un lato e disadattamento, disoccupazione, emarginazione, solitudine, insicurezza economica e povertà dall’altro, con ovvie ripercussioni per quanto riguarda il disagio individuale.

Le dimensioni cliniche della sofferenza

Aspetti generali

È lecito chiedersi innanzitutto se la sofferenza possa costituire un criterio di disturbo psichico. Secondo Jaspers (54), “per il malato il punto di partenza è una sofferenza, sia una sofferenza nella sua propria esistenza, sia una sofferenza per una cosa sentita come estranea, che irrompe nella sua vita”. Il DSM IV pone come criterio positivo per parlare di disturbo psichico la presenza di distress, una sofferenza soggettiva intesa come angoscia, dolore psichico, non facilmente traducibile in italiano, oppure un’alterazione del funzionamento relazionale, lavorativo e sociale. Tuttavia, alcune condizioni psicopatologiche non sembrano presentare in maniera sistematica sofferenza soggettiva. Inoltre, la sofferenza non è esclusiva dei disturbi mentali e la sua entità non è strettamente proporzionale alla gravità del disturbo.

Pur non costituendo un criterio univoco per la presenza di Disturbo Mentale, è indubbio che la sofferenza psichica pervada ogni condizione patologica, comprese quelle in cui ciò non sia immediatamente evidente, o quelle in cui la compromissione della personalità sia tale da causare un vissuto esperienziale che si allontana dalla concezione di sofferenza del senso comune.

Partendo dalla definizione di Jaspers, potremmo distinguere fra sofferenza soggettiva internalizzata e sofferenza soggettiva esternalizzata. La sofferenza soggettiva internalizzata è resa possibile dalla presenza di insight, di coscienza critica di malattia, che è condizionata dalla natura del disturbo, ma anche dalle capacità introspettive dell’individuo, com’è evidente nelle fasi iniziali della demenza. Un altro aspetto importante è quello dell’egodistonia, relativo ad una modalità esperienziale che non si vorrebbe facesse parte di sé, anche per il vissuto negativo che essa comporta, ma che si riconosce provenire dal proprio interno. Inoltre, la sofferenza soggettiva internalizzata si alimenta secondariamente per l’interferenza che i sintomi comportano sulla quotidianità e sul funzionamento psicosociale. Va infine considerato il fattore temporale. Se pensiamo ai disturbi di personalità, alla differenza fra ansia di stato e ansia di tratto, o al progressivo attenuarsi dell’insight nei confronti dei sintomi ossessivi, è chiaro che, quanto più lunga è la convivenza con certe manifestazioni psicopatologiche, tanto più queste tenderanno ad acquisire caratteristiche egosintoniche. La sofferenza soggettiva internalizzata esprime quindi almeno tre livelli conseguenti di sofferenza, tipici ma non esclusivi dei disturbi cosiddetti nevrotici, determinati da:

1. il vissuto negativo specifico del sintomo, come la sensazione di penosa attesa caratteristica dell’ansia;

2. il doloroso conflitto interno determinato dal carattere egodistonico del sintomo, che non si vorrebbe riconoscere come proprio, alimentato dal cambiamento che lo stato attuale comporta rispetto ad una condizione precedente di maggiore benessere;

3. l’interferenza che il sintomo comporta nelle attività del quotidiano, con il disagio, la fatica e la sofferenza conseguentemente necessarie per affrontare la vita di tutti i giorni.

Una sofferenza soggettiva esternalizzata, pur avvenendo anch’essa in presenza di un vissuto emozionale e affettivo negativo, è condizionata dalla mancanza di insight e dalla compromissione del giudizio di realtà tipiche delle patologie psicotiche. È presumibile che, almeno in alcuni casi, siano proprio dei livelli di sofferenza eccessivi o inaccettabili, di cui l’individuo può essere più o meno consapevole, ad innescare dei meccanismi di compenso che proiettano nel mondo esterno le cause dell’esperienza negativa che si sta vivendo. Inoltre, quando il vissuto è di tipo persecutorio o autistico diviene quasi impossibile, per la pervasiva difficoltà ad instaurare relazioni interpersonali basate su un primario senso di fiducia nell’altro, esperire e comunicare un disagio di origine interna se, come detto in precedenza, stare male implica anche il poter affidarsi agli altri.

Anche quando una sofferenza soggettiva è difficilmente rintracciabile non possiamo non considerare una sofferenza per così dire oggettiva. Il disturbo provoca una riduzione della libertà personale e della capacità di autodeterminazione, un aumento della morbilità e della mortalità. Può condurre a disgregazione della personalità, e in ogni caso determina un grado più o meno elevato di compromissione funzionale, disadattamento ed emarginazione. Anche l’assunzione del ruolo di malato e l’istituzionalizzazione sono da questo punto di vista un’oggettivazione della sofferenza, che viene così rappresentata e sancita socialmente. Del resto, sofferenza soggettiva e sofferenza oggettiva possono intersecarsi con modalità più o meno complesse. Il protrarsi di una condizione di sofferenza non tollerabile non lascia molte vie di fuga, soprattutto a chi non possieda altre risorse per affrontarla, talora nemmeno con la risorsa estrema del suicidio. Non resta allora che l’identificazione nel ruolo di malato, dove agire e rappresentare socialmente la sofferenza è un modo per allontanarla da sé. Oppure, nei casi ancor più gravi, quella perdita dell’individualità e della soggettività che accompagna l’accettazione passiva di un processo di istituzionalizzazione di cui gli operatori sanitari non sono necessariamente gli unici attori.

Il modificarsi dell’approccio psicopatologico alla sofferenza

Nei disturbi d’ansia e depressivi quasi tutte le manifestazioni cliniche comportano sofferenza, o quantomeno il tentativo di evitarla ed attenuarla con le risorse di cui si dispone, e non è senza significato il fatto che in tali disturbi sofferenza normale e sofferenza patologica presentino il grado più elevato di sovrapposizione. Senza entrare nel merito dei singoli disturbi, può essere opportuno sottolineare il fatto che l’approccio clinico più recente, pur aumentando la precisione e l’affidabilità della valutazione diagnostica, non mantiene sempre un’adeguata sensibilità nel recepire le diverse forme di malessere e disagio. Negli elenchi di sintomi dei criteri positivi e negativi per le diagnosi si è perduto qualcosa della capacità, così sviluppata nella psicopatologia tradizionale, di esprimere aspetti della sofferenza tuttora molto comuni nell’approccio clinico.

Anche in questa ottica, comunque, non è possibile andare al di là di qualche breve esemplificazione. Rispetto alla depressione, basti pensare alla tristezza vitale, per cui il depresso non è solo triste e addolorato, ma sperimenta anche un sentimento somatizzato di pena, peso, abbattimento, oppressione che dilaga nel corpo senza localizzazione precisa, e alla corporizzazione, sensazione fisica di essere ammalati, che sembra segnalare il confine fra sofferenza fisica e sofferenza psichica additando, come una metafora, all’unità dell’insieme psiche-soma. Il sentimento di perdita dei sentimenti è il sentimento penoso di aver perso la capacità di risonanza emotiva e di non aver più emozioni, come quando una madre non prova più nulla per i propri figli, con un senso angoscioso di vuoto emozionale o che le proprie emozioni siano morte. Nella sospensione del senso del tempo il depresso assiste impotente ad una penosa interruzione del proprio divenire vitale, con la sensazione che il tempo passi più lentamente del solito o, in casi gravi, si sia fermato. Unita ad una visione senza speranza del futuro, può far sì che l’individuo si possa sentire condannato alla dannazione eterna: la vita che non scorre è come un’anticipazione della morte, per divenire infine la morte stessa. Il concetto di depressione agitata racchiude in sé un senso di angoscia, irrequietezza, di ricerca affannosa di un luogo dove alleviare la sofferenza, che non si raggiungerà mai perché non si riesce a trovare sollievo da nessuna parte. In alcuni casi è accompagnata da una coartazione del pensiero, con impoverimento del contenuto del pensiero e fissazione su uno o pochi temi angosciosi su cui il paziente torna ripetutamente in maniera monotona e stereotipata, e che rende pressoché impossibile un’elaborazione e modulazione del vissuto di profonda sofferenza (55-57).

La perdita di concetti evocativi come quello di dissociazione o frammentazione del sé, sostituito dal concetto più neutro di disorganizzazione, o la scotomizzazione di aspetti nucleari della schizofrenia come l’autismo, perché poco “affidabili”, rendono più difficile comprendere la peculiare drammaticità dell’esperienza psicotica. Una qualità particolare, e particolarmente grave e angosciante, di sofferenza si ha nell’umore predelirante che accompagna la catastrofica esperienza di cambiamento nella psicosi schizofrenica. Secondo la definizione dell’AMDP (55) lo stato d’animo predelirante è il sentimento confuso, anideico, che il mondo circostante e l’Io stiano cambiando, cambiamento al quale il paziente non è in grado di attribuire un significato preciso. Questo vissuto delirante è generalmente accompagnato da un sentimento di malessere, perplessità, inquietudine, ansietà, terrore, minaccia o sospetto, con un’atmosfera di sinistra estraneità e la percezione che stia per accadere qualcosa. A livello più generale, l’abbandono della nozione di processo di malattia come evento dirompente sulla continuità storica, psicologica ed esistenziale dell’individuo impedisce di comprendere non solo la sofferenza patologica, ma presumibilmente anche la dinamica fisiopatologia di quel processo, di cui la sofferenza stessa è componente essenziale.

Nella malattia c’è anche una dimensione della sofferenza che non è concettualizzabile esclusivamente in chiave psicopatologica. I pazienti depressi riferiscono spesso quanto “si soffre” e quanto “si sta male” quando si è depressi. È esperienza clinica piuttosto comune che la persona affermi che preferirebbe avere una “brutta malattia”, un tumore, piuttosto che provare quello che si prova quando si è depressi, e non è raro che il non riuscire a tollerare la sofferenza legata alla depressione sia una delle molle che scatenano una condotta suicidaria per por fine ai propri patimenti. In questa ottica, è necessario quindi considerare un aspetto della sofferenza che non è una conseguenza diretta del disturbo, ma appare piuttosto mediato da una reazione individuale.

Conclusioni

È possibile che, come più volte evidenziato dalla psicopatologia classica, la qualità particolare di un quadro clinico sia costituita dal compenetrarsi di una modificazione determinata dall’evento patologico e di una risposta “fisiologica” – o “fisiopatologica” – dell’individuo. Sicuramente il processo di malattia comporta un evento stressante, un cambiamento, in questo caso di origine interna, che la persona non è in grado di affrontare con i mezzi di cui dispone e che presumibilmente comporta un livello elevato di sofferenza sulla quale subentrano tutta una serie di ulteriori dinamiche reazionali. Alla sofferenza indotta dal disturbo, si può rispondere con una difesa nei confronti della sofferenza o con un altro tipo di sofferenza.

Se la distinzione fra alterazioni primarie e secondarie non è certamente facile, è probabile che molte manifestazioni allucinatorie, deliranti, di ritiro emozionale, affettivo e relazionale, in generale l’essere “al di là del bene e del male” della schizofrenia di stato, possano costituire una compensazione, seppur patologica, ad una noxa iniziale per il tramite di un livello di sofferenza non tollerabile dall’individuo. Anche caratteristiche tipiche del disturbo di panico come l’ansia anticipatoria, l’ipocondria, l’evitamento, la dipendenza dal partner e la demoralizzazione, conseguenti all’attacco iniziale, appaiono comprensibili in relazione alla natura ed all’intensità dell’attacco di panico stesso.

Del resto, molte manifestazioni ansiose e depressive in corso di patologie psichiatriche sembrano seguire pattern temporali e di innesco tipici delle risposte che hanno luogo in condizioni di normalità. L’ansia, pur con diverse sfaccettature, si accompagna alla minaccia dell’evento acuto, anche nel corso di un episodio depressivo, e la depressione è spesso conseguente ad una perdita sia reale – di benessere e di adattamento sociale -, sia relativa ad un vissuto delirante che tuttavia ha costituito per troppo tempo il significato reale dell’esistenza di quell’individuo. Anche il suicidio nella fase postcritica della schizofrenia è più accostabile di quanto si pensi a reazioni analoghe in situazioni di malattie fisiche gravemente inabilitanti e portatrici di sofferenza, con l’aggravante dell’emarginazione e dello stigma che accompagnano la psicosi. Per non considerare le differenze individuali indipendenti dalla specificità della patologia che possono condizionare, anche in modo rilevante, il decorso clinico, come nel caso dell’aumentato rischio suicidario determinato dalla copresenza di impulsività e tendenze suicidarie nel corso di una malattia depressiva.

Sarebbe quindi auspicabile una ripresa dell’interesse sulla fisiopatologia dei processi di malattia, in cui proprio un livello di sofferenza più o meno affrontabile può contribuire, assieme ad altri fattori, ad innescare dinamiche compensatorie in parte comuni e in parte differenti da individuo a individuo. Tali dinamiche, tuttavia, non potranno mai essere comprese se la nostra conoscenza si deve fermare ad un elenco di sintomi posti tutti sullo stesso livello.

Corrispondenza: dott. Bruno Forti, Dipartimento di Salute Mentale, via De Paoli 21, 33170 Pordenone – Tel. 0434 736234 Fax 0434 736444.

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