Parole chiave: Depressione • Disturbi del sonno • Insonnia • Ipersonnia • Microstruttura
Key words: Depression • Sleep disorders • Insomnia • Ipersomnia • Microstructure Immancabile è l’insonnia
Nel 1923 Tanzi e Lugaro, nel Trattato delle Malattie Mentali, scrivevano a proposito delle sindromi melancoliche: “Immancabile è l’insonnia. Non c’è melancolico che non ne soffra e non se ne lagni come del maggiore fra i suoi tormenti (…). Il decorso della melancolia s’inizia con insonnia e tristezza, i suoi sintomi fondamentali e inseparabili” (1). Ed effettivamente non c’è manuale di psichiatria che non ponga l’insonnia come “sintomo fondamentale ed inseparabile” dei disturbi dell’umore. Eppure il sonno del depresso non è solo quello dell’insonne, tanto che Karl Jasper nella Psicopatologia Generale precisò che “la durata del sonno è, per esempio, in parecchi stati depressivi molto protratta; i malati hanno sempre bisogno di dormire, e talvolta dormono dodici ore ininterrottamente” (2). E infatti l’ateoretico DSM-IV considera sia l’insonnia che l’ipersonnia tra i criteri per la diagnosi dell’episodio depressivo maggiore e per il disturbo distimico (3). Inoltre l’esperienza clinica ha insegnato (anche ai più distratti!) che “nonostante l’insonnia possa essere relativamente lieve quanto a riduzione della durata del sonno il depresso lamenta di non sentirsi riposato al mattino” (4).
Il sonno nella depressione risulta comunque alterato, qualsiasi sia la forma del disordine, quantitativa o qualitativa, e la relazione tra disturbo dell’umore e quello del sonno appare ben più profonda e sostanziosa di quella che c’è tra sintomo e malattia. Tant’è che clinici e studiosi non hanno trascurato questo problema cruciale: con la speranza che dalla sua soluzione ne derivassero conoscenze sulla depressione (e magari il suo marker biologico!) e sui meccanismi regolatori il sonno. Abbiamo paragonato la presenza delle parole “depressione” (o “disturbi dell’umore o affettivi”) ed “elettroencefalografia del sonno” nei titoli dei lavori scientifici pubblicati tra il 1966 ed il 1998 alla presenza dell’espressione “sonno REM”, sempre nei titoli della letteratura del medesimo periodo. La ricerca ha rivelato che lo studio del profilo ipnico della depressione tramite la neurofisiologia del sonno ha prodotto un numero di pubblicazioni (e suscitato interessi) paragonabili a quelli del sonno REM (le differenze tra i due gruppi non sono statisticamente significative) (Fig. 1).
Il “sintomo fondamentale e inseparabile”
La relazione tra disturbo del sonno e quello dell’umore va oltre il piano fenomenico, psicopatologico: i due aspetti sembrano piuttosto intrecciarsi a livello eziopatogenetico in un rapporto di reciprocità. Ciò è quello che la clinica suggerisce e la ricerca sembra confermare:
b) il disturbo del sonno è spesso il primo, a volte l’unico sintomo d’esordio di un episodio depressivo (e maniacale): sia esso in un bipolare, in un distimico, in una sindrome affettiva stagionale o in una depressione puerperale (9-12), segno quindi che il disturbo del sonno non è correlato allo slivellamento del tono dell’umore, ma emerge direttamente (ed indipendentemente) come conseguenza dei meccanismi patogenetici della malattia.
c) alcune delle note alterazioni poligrafiche del sonno dei depressi (vedi oltre) sono correlate ad un decorso peggiore della malattia (13), sono presenti nei parenti di primo grado che non hanno mai mostrato disturbi dell’umore e pertanto vengono considerate un marker di rischio del disturbo depressivo (14-16) La loro presenza, inoltre, è stata posta in relazione inversa con la risposta al trattamento psicoterapico (17). Ciò ha suggerito ad alcuni studiosi che si possa distinguere, in base alle alterazioni poligrafiche nel sonno, un “confine biologico” tra endogenicità e psicogenicità della depressione (18).
d) le alterazioni poligrafiche del sonno nella depressione correlano con altri markers biologici come la risposta al test con il desametasone e non sono presenti nelle forme secondarie di depressione.
e) la maggior parte del farmaci antidepressivi (triciclici, IMAO, SSRI, NARI) ha un effetto sul sonno speculare rispetto alle alterazioni della depressione: sopprime il REM allungandone la latenza e diminuendone la percentuale. L’azione di questi composti sui parametri ipnici risulta correlata con la loro efficacia antidepressiva (19). Inoltre, farmaci antidepressivi che potenzialmente possono peggiorare il sonno, quando risultano efficaci nel trattamento del disturbo, addirittura migliorano la qualità del sonno.
Sorprendentemente, nonostante tutti questi elementi, non si è trovata ancora una cornice di riferimento teorica che abbia portato sostanziali contributi sui meccanismi patogenetici delle diverse sindromi depressive, né sui meccanismi regolatori del sonno. Né tantomeno ne sono derivate ricadute sulla pratica clinica: e ciò è forse uno dei peccati più gravi!
Difficoltà tecniche e teoriche
La ricerca sul sonno in depressione soffre di alcuni limiti imposti dall’etica, dalle tecniche di ricerca e dalla variabilità dei quadri clinici di questi pazienti.
La prima difficoltà quando si studia il sonno dei depressi è quella di poter osservare, registrare, studiare il paziente in wash-out farmacologico. È oramai quasi impossibile, dato l’uso deplorevole delle autoprescrizioni di ipnoinducenti, trovare pazienti che non assumano già farmaci psicotropi: anche nel primo episodio depressivo. Queste pratiche, oltre a mascherare la sintomatologia della malattia e distruggere il naturale profilo recettoriale dei pazienti, rendono difficoltoso lo studio neurofisiologico del sonno. È spesso necessario, quindi, eseguire un periodo di wash-out farmacologico. La prima difficoltà è perciò di ordine etico: è giusto lasciare un paziente depresso senza terapia adeguata per diversi giorni? Quale è il periodo minimo sufficiente? Non si rischia (come probabilmente avviene) di selezionare i pazienti meno gravi che sopportano quindi meglio il wash-out?
Gli studi sul sonno si avvalgono usualmente di indaginose tecniche neurofisiologiche che, per quanto non dolorose né invasive, non hanno certo una ricaduta pratica immediata sulla cura del paziente. Ciò rende a volte difficile la loro applicazione: pazienti maniacali, depressioni agitate, soggetti comunque poco motivati e disponibili. Anche in questo caso il rischio è quello di selezionare involontariamente i pazienti “migliori”.
In ultimo, ma ancora più importante, è la varietà di forme cliniche della depressione: endogena, reattiva, psicotica, nevrotica, monopolare, bipolare, agitata, stagionale, puerperale, “mascherata”, atipica, etc. L’eterogeneità circa l’inquadramento della depressione può giungere all’iperbolica questione: la depressione come sintomo o come malattia? La maggior parte delle ricerche ha usato sistemi nosografici codificati come il DSM-VI o il Research Diagnostic Criteria (RDC) (22). Ciò senza dubbio aiuta l’integrazione dei dati ottenuti da ricerche differenti, ma appiattisce la descrizione psicopatologica rendendo scarsamente attendibili le interpretazioni cliniche dei risultati.
Nonostante queste difficoltà crediamo che la stridente differenza tra ricerche effettuate e la relativa scarsità di risultati concreti sia da attribuire ad altre questioni: non ultima è la relativa settorialità delle competenze in campo.
I dati poligrafici e clinici
David Kupfer nel 1972, pubblicando su Lancet il lavoro “Interval between onset of sleep and rapid-eye-movement sleep as an indicator of depression”, concludeva una prima fase di studi iniziati circa dieci anni prima sullo studio del sonno REM (ed in particolare sulla sua latenza) nei depressi alimentando le aspettative di coloro che erano alla ricerca di un marker biologico della depressione (23). Tuttavia le ricerche che ne sono seguite fino ad oggi hanno progressivamente spento gli entusiasmi riservando a questa linea di ricerca, un posto di sicuro rispetto ma ben lontano dagli entusiasmi iniziali. Ruth Benca et al., in una metanalisi pubblicata nel 1992 su Archives of General Psychiatry (lavoro divenuto un classico di questo settore di ricerca) misero definitivamente la parola fine alle speranze sul biological marker nel sonno dei depressi. Dopo aver paragonato i risultati di 117 sperimentazioni (per un totale di 7151 pazienti) poterono affermare che: “le anomalie del sonno nei disturbi dell’umore sono più marcati e diffuse che in altre categorie diagnostiche … (ma) nessuna variabile ipnologica è in grado di distinguere in maniera affidabile i disturbi affettivi da altre malattie” (24).
Tuttavia la squadra di Pittsburgh, capitanata da Kupfer, ed altri gruppi di ricerca hanno continuato a lavorare fruttuosamente provando che alcuni parametri del sonno REM (REM latency e REM density) sono alterati sia negli intervalli liberi del decorso della malattia depressiva, sia nei parenti di primo grado sani dei pazienti depressi. Ciò fa supporre che l’alterazione del sonno REM sia espressione di un “tratto” di malattia o di una sorta di vulnerabilità neurobiologica. Ciò sarebbe compatibile con le più note teorie sui meccanismi patogenetici della depressione.
Molto tempo prima degli studi sulla REM latency ci si era accorti che i depressi, quelli definiti una volta endogeni, avevano una significativa riduzione del sonno ad onde lente (25). La riduzione del sonno delta (o sonno ad onde lente, SWS – slow wave sleep), che non correla con una riduzione della continuità del sonno, è stata confermata da numerosi studi successivi e sottolineata da metodologie di analisi spettrale che hanno evidenziato anche una diminuita potenza di questo tipo di onde specie nel primo ciclo di sonno (26,27). Uno studio condotto ancora una volta dal gruppo di Pittsburgh ha rivelato che nei pazienti con il più alto rischio di ricaduta esiste un deficit di sonno delta più marcato. Ma la cosa ancora più interessante è che, secondo i risultati dello studio di Pittsburgh, lo stato depressivo causa una modificazione particolare del sonno profondo (in elettroencefalografia la banda delle onde delta varia da 4 a 0,5 cicli al secondo, ma nello studio del sonno si può dividere differentemente in due sottobande: 3-2 Hz e 1-0,5 Hz): l’attività delta a 3-2 Hz è fortemente associata alla fase di malattia, mentre quella più lenta (1-0,5 Hz) mostra maggiore correlazione con la propensione alle ricadute. In altre parole lo SWS diminuisce nella fase acuta della malattia, migliora con il corso della malattia, ma una parte di esso (quella più lenta) rimane deficitaria ed indica una tendenza alle ricadute sintomatiche. Ed infatti diversi ricercatori hanno ipotizzato un ruolo del sonno ad onde lente nel potenziale antidepressivo della deprivazione di sonno e dell’effetto sul sonno degli antidepressivi (28).
Avendo comunque rinunciato al miraggio del marker biologico della depressione (o di una delle sue forme), la ricerca in questo campo si è spostata su un più concreto e fertile territorio: la caratterizzazione dei differenti quadri clinici della depressione e delle linee prognostiche e terapeutiche. È noto, infatti, che la depressione ha un decorso clinico (durata dell’episodio, durata degli intervalli liberi, numero degli episodi) indipendente dalla gravità dei suoi sintomi. Inoltre, non tutti i pazienti rispondono nella stessa misura ai diversi approcci terapeutici (farmacoterapia, psicoterapia, ECT, deprivazione di sonno, fototerapia, etc.). Come abbiamo visto poc’anzi Buysse et al. hanno studiato la relazione tra sonno ad onde lente e propensione alle ricadute. Sempre il gruppo di Pittsburgh, con diversi lavori pregevoli per l’ampia casistica e sul piano metodologico, ha ipotizzato un “neurobiological boundary” capace di separare coloro che rispondono alla psicoterapia rispetto a coloro che invece non rispondono. Per i colleghi d’oltreoceano l’aumento della REM density, l’accorciamento della REM latency e la diminuzione dell’efficienza del sonno caratterizzano il profilo dei non-responders alla psicoterapia indipendentemente dalla gravità sintomatica della loro depressione. In un recente lavoro ancora Daniel Buysse ed il suo gruppo hanno dimostrato una correlazione tra le misure del sonno REM, la qualità soggettiva del sonno e la risposta alla psicoterapia: chi avverte un sonno riposante e non ha alterazioni agli indici REM risponde meglio alla psicoterapia (29): un’altra maniera per ribadire, secondo gli Autori, la presenza di una diversa componente neurobiologica tra le varie forme di depressione. Questa linea di ricerca sembra promettere molto sulla ricaduta clinica. Essa, infatti, risponde ad uno dei quesiti cruciali del progetto terapeutico dei depressi: individuare indici di predittività alla risposta ai trattamenti. Sembra invece più ingenuo pensare che la vulnerabilità neurobiologicamente indotta causi una mancanza di risposta alla psicoterapia: nessuno lo ha mai dimostrato!
In un recente studio sui microarousal del sonno dei depressi, il gruppo tedesco condotto da Staedt ha dimostrato la capacità predittiva della risposta al trattamento di questo metodo microstrutturale (30).
La microstruttura del sonno nella depressione
Recentemente, grazie ad una collaborazione tra il nostro gruppo di ricerca e quello di Pittsburgh, è stato possibile studiare il profilo microstrutturale del sonno dei depressi tramite l’analisi del Cyclic Alternating Pattern, o pattern alternante ciclico o, più brevemente, CAP.
Cos’è il CAP? È un metodo di analisi dei microarousal durante il sonno che permette di stabilire, con una misurazione oggettiva, la qualità del sonno indipendentemente dalla sua architettura tradizionale (stadio 1, 2, 3, 4 e REM), che da ora chiameremo macrostruttura per opporla alla microstruttura del CAP. Nel sonno non-REM di tutti gli individui sono presenti periodi in cui il tracciato elettroencefalografico mostra un’attivazione periodica, un’oscillazione in ampiezza e frequenza (Fig. 2) che è stata associata alla qualità oggettiva e soggettiva del sonno, essendo verosimilmente espressione dell’attivazione di sistemi riparatori della continuità del sonno (31). Se, per esempio, si somministra un rumore continuo durante il sonno di soggetti buoni dormitori, è possibile assistere ad un aumento progressivo del CAP rate (la percentuale di sonno con il CAP rispetto a quella senza CAP), ed una diminuzione della capacità ristorativa del sonno, in proporzione all’aumento dell’intensità dello stimolo disturbante. Senza che ciò, tuttavia, modifichi sensibilmente la macrostruttura. Gli studi condotti negli ultimi quindici anni dimostrano una sensibilità maggiore dell’analisi microstrutturale secondo il CAP rispetto a quella tradizionale nel misurare la qualità del sonno e la risposta ai trattamenti: specie nei disturbi in cui si suppone esista una perturbazione tonica del sonno (32).
Grazie alla collaborazione tra i due gruppi di ricerca è stato dunque possibile misurare il CAP e gli altri indici microstrutturali su un campione di 79 depressi maggiori, di media età, in wash-out farmacologico da almeno due settimane confrontandoli con un gruppo di soggetti sani di pari età e sesso. I risultati hanno rivelato che, nonostante i due gruppi non mostrassero differenze significative nella macrostruttura, il CAP rate dei depressi è circa il doppio dei controlli. Inoltre, la struttura dei cicli microstrutturali nei pazienti risulta alterata con un accorciamento costante della fase refrattaria agli arousal (33,34). Abbiamo ipotizzato che tale alterazione qualitativa possa essere dovuta alla tonica azione dello sbilanciamento monoaminergico-colinergico. È comunque verosimile che questi nuovi dati (in corso di pubblicazione) diano spiegazione della sproporzione apparente tra la qualità soggettiva, durata e continuità del sonno misurate con i metodi tradizionali.
I pregiudizi teorici sul sonno dei depressi
Lo studio sul sonno nella depressione ha dunque preso la concreta e, apparentemente fruttuosa, strada della ricerca di indici di predittività del quadro clinico e della risposta al trattamento. Tuttavia esso risente di alcune punti oscuri, lacune logiche o semplicemente di pregiudizi che, a nostro avviso, possono nascondere punti di svolta in questo campo (e che le nostre ricerche possono chiarire). Di questi “pregiudizi teorici” due in particolare ci sembra importante contestare: l’apparente contraddizione tra qualità soggettiva e misurazioni oggettive del sonno dei depressi; e la dicotomia tra insonnia ed ipersonnia che taluni vedono addirittura come “indici di differenti tipi di stati depressivi”.
Come abbiamo accennato nell’introduzione del lavoro, è noto che “nonostante l’insonnia possa essere relativamente lieve quanto a riduzione della durata del sonno, il depresso lamenta comunque di non sentirsi riposato al mattino” questa osservazione è la più comune tra i clinici di ogni epoca e paese. Tant’è che una parte consistente di ricercatori ha iniziato a studiare la qualità soggettiva del sonno dei depressi inserendola anche come indice di predittività alla risposta ai trattamenti. Il gruppo di David Kupfer, Ellen Frank e Daniel Buysse, cosciente dell’importanza di questa variabile, ha progettato negli anni passati una scala, la Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI) (35), che si è rivelata in grado di separare i pazienti dai controlli e di fornire altri importati informazioni cliniche. Infatti, numerose ricerche hanno dimostrato che la percezione di un sonno non riposante è associata con la mancanza di risposta alla psicoterapia, una più lenta risposta ai farmaci, ad un numero di ricadute maggiori e ad un maggior rischio di suicidio: spesso anche in assenza di alterazioni poligrafiche evidenti (36-38).
Tuttavia, questa perdita di capacità riposante del sonno dei depressi è rimasta confinata alla misurazione della percezione soggettiva, ritenuta da taluni una particolare forma di lamentela e, nel massimo sforzo di considerarla un disturbo indipendente dalla lamentosità dei soggetti depressi, è stata attribuita ad artificiose entità nosografiche come la sleep state misperception.
Alla luce dei nuovi studi sulla microstruttura del sonno di questi pazienti, è possibile affermare che non esiste alcuna sleep state misperception nella depressione. Né si possono attribuire le lagnanze dei depressi alle loro condizioni cognitive patologiche (o almeno non solo) ma, a dispetto della sua conservata continuità, esiste in questi individui un disturbo obiettivamente e strumentalmente rilevabile del sonno.
Da poche settimane sono usciti su Psychosomatic Medicine alcuni lavori in cui sono proprio gli studiosi d’oltreoceano (statunitensi e canadesi: fino ad ora sostenitori della discrepanza tra reperti oggettivi e soggettivi e poco familiari con il CAP) ad affermare che esistono prove concrete della possibilità di obiettivare tramite EEG il disturbo soggettivo del sonno, che questo è dovuto ad uno stato di iperarousal nel non-REM e che ciò era stato sino ad ora nascosto dai limiti interpretativi dell’analisi tradizionale macrostrutturale (39-40).
Lo studio della microstruttura, oltre che restituire oggettività alla cattiva qualità del sonno di questi pazienti, offre anche una spiegazione della apparente contraddittorietà dei disturbi ipnici nella malattia depressiva: insonnia ed ipersonnia. È infatti possibile che il meccanismo perturbatore, sempre lo stesso, sia inizialmente compensato nei giovani e negli individui ben predisposti; in seguito, nel corso dell’invecchiamento, il compenso, espresso con un CAP elevato ed una conseguente ipersonnolenza (come succede in tutti i casi in cui il sonno è qualitativamente deficitario), fallisca: provocando l’insorgenza di discontinuità del sonno nelle età avanzate. Tale modello giustificherebbe anche l’accorciamento della latenza del REM e la relativa diminuzione del sonno profondo: specie quello ad onde più lente (1-0,5 Hz).
A conferma di quanto affermiamo, giunge un recentissimo lavoro di Vgontzas et al. che hanno confrontato polisonnograficamente l’ipersonnolenza in soggetti con ipersonnia primaria, o secondaria a disturbi psichici. Gli studiosi hanno dimostrato differenze significative tra i due stati di ipersonnia, sostenendo che “Da un punto di vista patofisiogenetico, il disturbo del sonno nei pazienti psichiatrici con il sintomo principale di ipersonnia sembra associato con uno stato di iperarousal centrale, mentre quello dell’ipersonnia primaria è associato con ipoarousal centrale” (41). L’iperarousal da patologie psichiche, concludono Vgontzas et al., determina un sonno non ristorativo e, di conseguenza, un continuo bisogno di dormire.
Conclusioni
Le moderne tecnologie ed i progressi nello studio della fisiologia del sonno hanno permesso lo sviluppo di nuove tecniche di indagine e modalità di analisi neurofisiologica (CAP, analisi quantitativa con nuovi algoritmi, etc.). È necessario rivalutare il rapporto tra la depressione e disturbo del sonno ad essa correlati alla luce di queste nuove prospettive. Tuttavia, riteniamo che solo lo studio multidisciplinare dei disturbi affettivi (della neurofisiologia del sonno, dei neuropeptidi, del brain imaging, etc.) permetterà l’integrazione necessaria a chiarire il rapporto tra sonno, umore e le loro alterazioni.
Fig. 2. In alto un ipnogramma tradizionale con gli stadi del sonno ed in basso il CAP. Traditional sleep stages with CAP sequence.
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