Il film “Arancia Meccanica” di S. Kubrik del 1971 è ormai un cult movie. I motivi del successo sono molteplici ma non vi è dubbio che un contributo essenziale è dato dal tema centrale del film: quando, come e perché “curare” la violenza.
Stabilire i confini tra comportamenti violenti “normali” e “patologici” è infatti di primario interesse per lo psichiatra che è coinvolto in decisioni sia di carattere clinico (curare o non curare) che medico-legale (responsabilità vs. non responsabilità). E non vanno certo considerati di secondo piano i problemi di carattere deontologico ed etico relativi ad ogni decisione terapeutica in questo settore.
Il primo problema per lo psichiatra è stabilire se i comportamenti violenti sono o meno una manifestazione sintomatologica “secondaria” di un disturbo psichiatrico “primario”. Il discontrollo comportamentale violento ha una incidenza significativamente più elevata rispetto alla popolazione generale nelle demenze (10%), nella schizofrenia (7%) e nei disturbi dell’umore. Inoltre esso è statisticamente elevato in alcuni disturbi di personalità (antisociale, borderline) e nei disturbi da assunzione di sostanze.
L’inquadramento di un comportamento violento in un disturbo psichiatrico categoriale riferito ad una classificazione dei disturbi comunemente accettata (DSM-IV-TR, ICD-10) può autorizzare un intervento terapeutico specifico se è accertato un rapporto di causalità con la psicopatologia caratteristica del disturbo “primario”. Va comunque tenuto presente che non necessariamente la presenza di un disturbo “primario” di Asse I (DSM-IV) comporta la presenza del nesso di causalità.
Il secondo problema riguarda il possibile inquadramento dei comportamenti violenti ripetuti come un disturbo “categoriale” indipendente. Attualmente solo il Disturbo Esplosivo Intermittente del DSM-IV potrebbe permettere questo inquadramento. In realtà i criteri diagnostici del Disturbo Esplosivo Intermittente sono estremamente restrittivi ed escludono gran parte dei casi di violenza ripetuta e sistematica che sono oggetto di valutazione clinica e medico-legale.
Una possibilità per inquadrare questi comportamenti come “disturbo psichiatrico” indipendente si basa sui loro possibili correlati patofisiologici cerebrali. Negli ultimi anni sono state raccolte numerose evidenze clinico-sperimentali in questo settore. I comportamenti violenti a carattere impulsivo sono correlati ad alterazioni sia morfologiche che funzionali a livello di alcune aree corticali. RMN, fRMN, SPECT e PET hanno mostrato riduzioni volumetriche e metaboliche nella corteccia orbitofrontale, fronto-mediale, frontale dorsolaterale e del giro cingolato. In queste aree è stata riscontrata una riduzione di N-acetil aspartato come espressione di “danno neuronale” e una ridotta risposta metabolica alla stimolazione 5HT con fenfluramina. Questi dati sono correlabili ad un deficit dei meccanismi di controllo degli impulsi aggressivi che può essere obiettivato a livello clinico.
Il discontrollo degli impulsi aggressivi che esita in comportamenti violenti è caratterizzato da una ridotta capacità di programmazione e di previsione degli esiti dei propri comportamenti, da una alterata capacità di effettuare un bilancio di costi/benefici e da un alterato funzionamento della rete neurale.
Ci si può chiedere se, allo stato attuale, questi elementi siano sufficienti per la creazione di una nuova categoria diagnostica, da inserire nelle classificazioni “ufficiali” dei disturbi psichiatrici. Il problema è aperto e ampiamente discusso.
È stata avanzata da alcuni l’ipotesi del “crimine come disturbo psicopatologico”. Inoltre, sulla base dei dati relativi alla maturazione della sostanza grigia cerebrale ottenuti con la RMN in alcuni stati degli USA dove era in vigore la pena di morte per gravi crimini commessi anche da adolescenti, la relativa norma giuridica è stata modificata per questi ultimi ammettendo implicitamente una riduzione di responsabilità dovuta ad un determinante di carattere biologico cerebrale.
In realtà i dati biologici non appaiono ancora sufficienti, data la loro relativa aspecificità, per connotare sul piano patofisiologico un nuovo disturbo “categoriale”. Inoltre, manca ancora un inquadramento semeiologico sistematico dei comportamenti violenti nella duplice prospettiva di stato e di decorso. Questo inquadramento appare infatti il requisito essenziale per stabilire i criteri diagnostici operativi caratteristici di un disturbo categoriale.
In assenza di questo inquadramento diagnostico è evidente che, almeno per ora, la violenza primaria non può essere oggetto di terapia specifica.
Può essere invece più utile a livello di ricerca clinica e come possibile premessa ad un inquadramento categoriale un approccio “dimensionale” ai comportamenti aggressivi e violenti. La dimensione “aggressività-violenza” è rilevabile a livello clinico con caratteri “transnosografici” ed è confermata dagli studi di analisi fattoriale. La descrizione dimensionale è meglio correlabile con i dati di patofisiologia cerebrale e può essere oggetto di terapie specifiche.
Il terzo problema riguarda la terapia specifica dei comportamenti violenti definiti come “secondari” ad un disturbo psichiatrico primario in atto. È evidente che la terapia di base è centrata su quest’ultimo ma nasce spesso il problema di una terapia specifica collaterale quando i comportamenti violenti sono particolarmente evidenti nel quadro clinico del disturbo primario.
Sul piano farmacologico oggi non sono disponibili prodotti specifici “antiviolenza”. Ciò è dovuto al fatto che, in assenza di una categoria diagnostica specifica, le autorità regolatorie (FDA, EMEA) non approvano per il commercio farmaci ad azione puramente “sintomatica”. Ne consegue che le aziende non effettuano studi controllati su molecole che non abbiano una possibile indicazione categoriale. Per questa ragione l’unico farmaco che negli anni ’70 aveva mostrato una possibile azione specifica antiviolenza (eltoprazina) non è mai entrato nella fase della sperimentazione controllata ed è stato abbandonato dall’azienda produttrice.
La violenza secondaria “acuta” viene quindi oggi trattata utilizzando l’azione sedativa aspecifica di farmaci con altre indicazioni in scheda tecnica (i.e. ansiolitici e antipsicotici). È tuttavia aperto il problema del trattamento del discontrollo cronico dei comportamenti aggressivi e violenti che si manifestano in corso di disturbi primari di Asse I. Numerosi studi hanno indicato come relativamente specifici in questo senso il carbonato di litio, gli antipsicotici atipici, alcuni antiepilettici e alcuni SSRI. Il trattamento del disturbo psichiatrico di base può quindi essere integrato o selezionato sulla base di questi dati.
Un trattamento specifico “antiviolenza” come nel caso di ogni intervento medico pone sempre il problema del “consenso informato”, più difficile da ottenere nel caso dei comportamenti violenti data la frequente assenza di coscienza di malattia. Inoltre vi è il problema di carattere deontologico ed etico del trattamento “antiviolenza” richiesto volontariamente dal soggetto, allo scopo di ottenere vantaggi secondari (ad es. modifiche della pena a seguito di un reato).
Vi è infine un problema etico specifico di una eventuale “terapia antiviolenza”. Anche ammettendo la possibilità che una farmacoterapia o un intervento non farmacologico sia messo a disposizione dello psichiatra, che vi sia una possibile indicazione categoriale per il suo impiego e che vi sia il consenso informato del paziente, lo psichiatra può sempre chiedersi la liceità “etica” del trattamento. Fino a che punto, infatti, un possibile trattamento “antiviolenza” può in realtà funzionare a livello di una inibizione e di una soppressione dell’aggressività riducendo le capacità di adattamento e di difesa del paziente? Aggressività e violenza sono le manifestazioni comportamentali di un programma scritto nel DNA di ogni individuo per ottimizzare la sopravvivenza sia dell’individuo che della specie. In particolare, gran parte della violenza presente nella specie umana rientra nella normale variabilità interindividuale. Ci si può chiedere se un intervento medico “antiviolenza” non possa andare in realtà al di là dei confini della clinica per sconfinare nell’annullamento di un programma di attacco-difesa necessario per la sopravvivenza e scritto da milioni di anni di evoluzione.