Key words: Shared Psychoses • Pathological Symbiosis • Therapeutic interventionsCorrespondence: Prof.ssa Elda Rasore, Dipartimento di Scienze Psichiatriche, Università di Genova, largo Rosanna Benzi 10, 16132 Genova, Italy – Tel +39 010 3537668/5552825.
Precedute da una revisione della recente letteratura scientifica sul Disturbo Psicotico Condiviso, in questa ricerca vengono riportate alcune singolari e problematiche esperienze di ricovero con giovani pazienti psicotici che hanno presentato, con espressività e intensità diverse, problematiche relazioni simbiotiche con uno dei genitori.
Inquadramento clinico-nosografico
Il Disturbo psicotico condiviso (Folie à deux) del DSM-IV (1) è definito dalla comparsa di un delirio sviluppatosi in un soggetto in stretta relazione con un’altra persona già delirante, definita “induttore” o “caso primario”. Le convinzioni deliranti dell’induttore vengono condivise dal secondo nella relazione, in toto o in parte. Il disturbo del secondo nella relazione non è meglio giustificato da un altro disturbo psicotico (per es. schizofrenia) o da un disturbo dell’umore con manifestazioni psicotiche e non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (sostanza di abuso o farmaco) o ad una condizione medica generale.
Le diagnosi più comuni del “caso primario” sono la schizofrenia, un disturbo delirante o un disturbo dell’umore con manifestazioni psicotiche. Generalmente il “caso primario” è dominante nella relazione e gradualmente impone il suo sistema delirante alla seconda persona, più passiva e inizialmente sana. I soggetti che arrivano a condividere convinzioni deliranti sono per lo più uniti da vincoli di consanguineità o di matrimonio, hanno a lungo vissuto insieme, spesso in condizioni di relativo isolamento sociale. Se la relazione con il caso primario viene interrotta, le convinzioni deliranti dell’altro di solito diminuiscono o scompaiono. Più comunemente il disturbo psicotico condiviso coinvolge solo due persone, raramente un’intera famiglia nella quale un genitore è il caso primario e gli altri membri, con gradazioni e intensità diverse, sviluppano le stesse convinzioni deliranti.
I soggetti con disturbo psicotico condiviso raramente chiedono un trattamento, generalmente giungono all’osservazione solo quando è preso in cura il caso primario. A parte i convincimenti deliranti e ciò che ne consegue, il comportamento non è vistosamente alterato o bizzarro e la menomazione del “caso primario” è di solito la più grave.
Vi sono pochi dati sulla prevalenza e sulla frequenza del disturbo, che sarebbe raro, in un certo numero di casi non riconosciuto, un po’ più comune nelle donne che negli uomini.
Nella diagnosi differenziale vanno anche tenuti distinti i casi di disturbi psicotici antecedenti l’esordio di un delirio condiviso, riferiti in genere a patologie dello spettro schizofrenico, nelle quali, raramente, si può anche avere una patologia condivisa. Aspetto centrale è comunque la remissione del disturbo delirante indotto con la separazione dei due componenti la coppia. Il DSM-IV a questo proposito afferma che, se non si realizza tale remissione nel secondo soggetto, la diagnosi va orientata verso un altro disturbo psicotico.
La Sindrome delirante Indotta dell’ICD-10 (2) viene definita come una rara patologia delirante condivisa da due o talora più persone che hanno uno stretto legame affettivo. Solo una delle persone soffre di un’autentica condizione psicotica, per lo più tipo schizofrenico. I deliri condivisi sono generalmente cronici, a contenuto persecutorio o di grandezza; le persone in causa hanno una relazione insolitamente stretta, solo una soffre di un’autentica condizione psicotica, mentre nell’altra i deliri sono indotti e generalmente regrediscono quando i soggetti vengono separati. L’affezione psicotica della persona dominante è più comunemente, ma non esclusivamente, di tipo schizofrenico; gli individui con delirio indotto sono in genere dipendenti e sottomessi rispetto alla persona primariamente psicotica. Ulteriore criterio per la diagnosi di sindrome delirante indotta è l’esistenza di una connessione temporale o di altro tipo tra il delirio del membro attivo e il delirio indotto nei membri passivi attraverso il contatto con lui. Le allucinazioni condivise sono insolite, ma non inficiano la diagnosi. Al contrario se due o più persone che vivono insieme hanno disturbi psicotici indipendenti, anche se alcuni deliri fossero condivisi, va esclusa la diagnosi di sindrome delirante indotta.
Il DSM-IV sottolinea di più la patologia della relazione, in particolare una relazione asimmetrica per cui il più fragile passivamente assorbe le proiezioni dell’altro, recuperando sanità e capacità critiche dopo la separazione. A questi aspetti l’ICD10 non fa cenno. Se anche DSM-IV e ICD10 non si riferiscono in particolare alla situazione genitore-figlio, tale dimensione asimmetrica di relazione è la più caratteristica e quella più frequentemente osservata.
La simbiosi iniziale madre-figlio
Nelle ipotesi di Margaret S. Mahler (3) il termine simbiosi è preso a prestito dalla biologia dove indica una stretta associazione funzionale tra due organismi, con vantaggi di entrambi. La fase simbiotica si instaurerebbe verso la fine del 1� mese di vita facendo seguito ad una fase antecedente prerelazionale caratterizzata dalla presenza nel bambino di un guscio autistico, una barriera quasi compatta che tiene fuori gli stimoli esterni. L’inizio della fase simbiotica si proporrebbe come crisi di maturazione, documentata anche da riscontri elettroencefalografici, oltreché dall’osservazione di un aumento notevole della sensibilità globale alle stimolazioni esterne. Benjamin (4), citato dalla Mahler, già sottolineava il ruolo indispensabile della figura materna che, nel corso della relazione simbiotica, aiuta il bambino a ridurre le tensioni crescenti dovute agli stimoli succitati. L’esperienza simbiotica consentirebbe così il superamento, verso il 2� mese di vita, della fase autistica iniziale. Nel corso dell’esperienza simbiotica, al suo culmine intorno al 4�-5� mese, si verifica un progressivo “schiudersi” verso la realtà esterna, sempre mediato dalla madre: il bambino indirizza il suo sguardo alternativamente verso il mondo esterno e verso la madre, una sorta di continuo tramite per affrontare la realtà. Se tale meccanismo è inefficace, come fa osservare Winnicott (5), iniziano meccanismi di funzionamento “come sé” con il rischio della costruzione di un “falso Sé” con cui il bambino tenta di recitare il ruolo della madre. Il buon funzionamento della relazione simbiotica favorisce invece un corretto sviluppo dell’apparato sensoriale del bambino che giungerà, fra i 10 e i 16 mesi, ad “esercitare la pratica della iniziale separazione-individuazione” e a formare un primo abbozzo della propria identità personale che si realizza, appunto, in questo narcisistico rispecchiarsi reciproco. Le successive tappe di acquisizioni di abilità (per esempio quelle motorie, deambulatorie, etc.) richiamano costantemente ad un loro duplice significato di maturazione biologica e psicologica.
Una sana “preoccupazione materna primaria” nel senso di Winnicott, consentirà che l’angoscia elicitata da ogni successiva separazione non prevalga mai sul piacere connesso all’esplorazione e all’apprendimento di nuove abilità. La Mahler sottolinea che il bambino deve poter vivere una magica onnipotenza infantile sentendo di condividere i poteri della madre. Nel corso dei mesi successivi, entro il 3� anno di vita, avverrà un progressivo ridimensionamento dell’onnipotenza irrealistica ed in questo senso il bambino attraverserà una fase di particolare vulnerabilità, diventando sempre più dolorosamente consapevole della sua reale separazione dai genitori.
In sintesi le teorizzazioni dell’Autrice sottolineano l’importanza, per l’adeguato sviluppo del bambino, di una madre capace di accettare una relazione così fusionale per il tempo necessario e successivamente, progressivamente, di risolverla. Con diverse esemplificazioni cliniche vengono da lei documentate gravi alterazioni dello sviluppo connesse con una non adeguata relazionalità simbiotica.
Le simbiosi patologiche: una revisione della letteratura
Non necessariamente aspetti simbiotici non superati producono patologie gravi come la psicosi condivisa: disagi relazionali e conseguenti difficoltà esistenziali di minor gravità sono molto più frequenti e raramente giungono all’osservazione clinica. Le shared psychoses conclamate sono invece relativamente rare, così come gli studi psichiatrici su casistiche numerose: da una vasta ricerca condotta negli anni ’40 da Gralnick (6) su 103 casi di psicosi condivisa desunti dall’intera letteratura in lingua inglese, passano quasi trent’anni prima che altri due ricercatori, Sharfetter (7) in Svizzera e Soni (8) in Inghilterra, riferiscano i risultati di analoghe ricerche su 240 e 101 casi rispettivamente di tale patologia.
Solo negli ultimi anni si intensificano gli studi sull’argomento, sia come indagini su casistiche numerose, sia come semplici case-reports.
L’analisi di 97 casi di psicosi condivisa, desunta dal riesame della letteratura giapponese, è riportata da Kashiwase e Kato (9) che confrontano i loro dati con quelli della letteratura occidentale. L’età dei soggetti coinvolti oscilla tra la prima infanzia e l’età senile (età media 36 anni); in circa il 75% dei casi sono coinvolte due persone, nei rimanenti sono coinvolte più persone fino ad un massimo di dodici; oltre il 90% dei soggetti appartiene alla stessa famiglia, in accordo con la definizione di psicosi familiare come sinonimo di folie à deux; la coppia madre-figlio è la più rappresentata, seguita dalla coppia di coniugi mentre nella casistica di Gralnick erano più spesso coinvolte le sorelle, meno frequentemente madre-figlio o i coniugi; la coppia madre-figlio è almeno venti volte più frequente di quella padre-figlio; la relazione patologica tra sorelle non è rara neanche oggi e sembra instaurarsi più spesso tra sorelle non sposate, divorziate o vedove. Nella letteratura occidentale è molto più frequente che la psicosi del soggetto più anziano contagi il più giovane, nella letteratura orientale al contrario sono riportati numerosi casi in cui è la psicosi del più giovane la fonte di contagio. Più facilmente sono coinvolte le femmine che non i maschi, sia nel ruolo di induttore che di soggetto indotto, con una risultante maggiore incidenza della folie à deux nel sesso femminile. Le diagnosi più frequentemente segnalate nel soggetto dominante, sia nella letteratura occidentale che orientale, sono di schizofrenia, reazione paranoide o altre diagnosi dell’area schizofrenica; il soggetto con psicosi indotta è invece per lo più diagnosticato nell’ambito delle reazioni paranoidi piuttosto che del disturbo schizofrenico nella letteratura orientale, al contrario di quella occidentale. I contenuti deliranti più frequentemente riportati sono nell’ambito mistico-religioso, in Oriente, o in quello persecutorio, in Occidente.
In un’altra ampia revisione della letteratura sugli Shared Psychotic Disorders, Silveira e Seeman (10) – non citati dai suddetti Autori giapponesi – prendono in considerazione i casi riportati in letteratura dal 1942 al 1993 e delineano, attraverso l’esame di 123 casi, queste caratteristiche del disturbo: il range di età è molto ampio, dalla fanciullezza all’età senile; il sesso più coinvolto quello femminile, anche se con differenze non significative statisticamente, vari gli ambiti relazionali interessati: coppie, soprattutto se socialmente isolate, parenti, genitori-figli. Le diagnosi DSM sono nell’area dei disturbi schizofrenici, deliranti e in quella della depressione psicotica. I contenuti deliranti sono in prevalenza persecutori, meno frequentemente di tipo grandioso-espansivo. Sono descritte, nel soggetto con disturbo indotto, comorbosità per depressione in 7 casi, demenza in 5, ritardo mentale in 4. I disturbi allucinatori sono presenti nel 30% dei casi. La relazione patologica ha nella casistica estremi di durata fra 6 mesi e, ben più frequentemente, parecchi anni.
Anche se mancano prevalenze di sesso statisticamente significative, una donna è quasi sempre coinvolta, e sono rare le coppie patologiche costituite da soli maschi. È ancora segnalata una netta prevalenza di coppie patologiche tra membri della stessa famiglia (sorelle e gemelli soprattutto). Nel soggetto con disturbo indotto, sono frequenti turbe psicopatologiche che riducono le capacità cognitive (demenza, ritardo mentale, depressione, abuso di sostanze).
Le ipotesi genetiche formulate sulla predisposizione al disturbo sono in parte invalidate dall’alta frequenza constatata in coppie di non consanguinei (es. marito e moglie) altrettanto frequenti che le coppie di consanguinei (genitori-figli, fratelli, ecc.). Al contrario la frequenza relativamente elevata di casi gemellari è a supporto delle teorie biologiche, peraltro difficili da convalidare vista la rarità del disturbo e la conseguente povertà delle casistiche. È comunque opinione di tutti gli Autori che una stretta e durevole relazione, accompagnata all’isolamento sociale, non siano condizioni sufficienti a determinare la psicosi condivisa: il disturbo si svilupperebbe in questi contesti sulla base di una predisposizione genetico-biologica. Una questione che rimane aperta è se la psicosi condivisa si sarebbe ugualmente manifestata nei due membri della coppia presi singolarmente, anche in assenza di un preciso disturbo psicotico primario o se invece la psicosi condivisa non rappresenti soltanto una “complicanza di passaggio” nella storia di un disturbo psicotico.
La constatazione che nel soggetto con psicosi indotta oltre che nel soggetto inducente siano frequentemente riscontrati disturbi allucinatori, deporrebbe per la gravità della condizione psicotica: sono addirittura riportati due casi in cui i disturbi allucinatori, presenti nel soggetto indotto, mancavano nell’inducente. Circa le caratteristiche dei deliri, come già detto prevalentemente persecutori, gli Autori precisano che non sono bizzarri, sono sistematizzati e disturbanti, condivisi dai due soggetti e mantenuti anche dopo la separazione.
Studi di follow-up sul soggetto con psicosi indotta, dopo la separazione, hanno registrato riesacerbazioni psicotiche o disturbi psicotici residuali anche in assenza dell’induzione da parte del soggetto primario: in altre parole è difficile chiarire se la psicosi condivisa sia una categoria diagnostica a sé stante o piuttosto rappresenti la stretta relazione tra due psicotici.
In accordo con la relativa disomogeneità e la scarsa tipizzazione clinica dell’area della psicosi condivisa, sono poi tutta una serie di case-reports per i quali ci limitiamo ad alcune citazioni.
Bourgeois M.L. et al. (11) descrivono un caso di delirio dermatozoico in una coppia di coniugi dove l’intervento del medico, che provvedeva al ricovero della donna, aveva conseguenze drammatiche: il coniuge che condivideva i convincimenti deliranti tentò di ucciderlo. Gli Autori sottolineano in proposito quanto sia in alcuni casi delicato e rischioso il trattamento della psicosi condivisa, soprattutto se non si colgono le sue affinità con la paranoia.
Torch E.M. (12) segnala invece il caso di un disturbo ossessivo-compulsivo condiviso in una coppia di coniugi, ipotizzandolo come possibile variante di una psicosi condivisa, sia pure ad un livello di minore gravità e in assenza di sintomi psicotici. Il caso, che rimanda ad una psicopatologia relazionale con sintomi clinici meno gravi, potrebbe essere in accordo con nostre precedenti osservazioni circa gli aspetti della psicosi condivisa come estremo limite di una psicopatologia relazionale più largamente diffusa ma meno appariscente.
Si esprimono in tal senso anche Ulzen T. et al. (13), secondo i quali le psicosi condivise sarebbero numericamente sottostimate, soprattutto nell’area della relazione madre-figlio, dove si creano complessi problemi di trattamento per l’alto rischio di comportamenti violenti, di scompensi psicotici, di disturbi post-traumatici da stress ed altre sequele psichiatriche sia nel bambino che negli altri membri della famiglia. Questo d’altronde succede non solo nei casi di psicosi condivisa, ma anche quando è necessario trattare un genitore delirante che ha un ruolo centrale nella famiglia.
Anche Porter T.L. et al. (14) pongono l’accento sul problema relazionale e l’evoluzione nel tempo del legame di dipendenza nelle coppie psicotiche. Riportano un caso di psicosi condivisa dove la moglie è il soggetto dominante e il marito il secondario; l’apparente riduzione dei sintomi del coniuge, coincide con lo spostamento della dipendenza dalla moglie attraverso un ritorno alla dipendenza dalla figura materna.
Se una componente relazionale patologica, attuale o remota, può essere individuata in ogni psicopatologia, le shared psychosis ne sarebbero espressione particolarmente vistosa: la teoria kleiniana le rivela come frutto di massicci processi di identificazione proiettiva con conseguenti movimenti controidentificativi, congelati in una relazione immutabile. Mason A.A. (15), un ipnotista diventato successivamente psicoanalista, riflette sulla staticità della situazione ipnotica, una sorta di folie à deux sostenuta dall’identificazione proiettiva rispetto ai movimenti evolutivi insiti nel processo psicoanalitico. Se è vero che la relazionalità ipnotica può richiamare alla folie à deux, tale rimando, particolarmente suggestivo, getta luce sul senso anche positivo delle shared psychosis come disperato tentativo di evitare perdita di relazionalità ed esperienze di separatezza.
Il ruolo del terzo nell’esperienza simbiotica
È ormai largamente acquisito il ruolo non secondario della figura del padre per un armonioso sviluppo emotivo del bambino, anche se questo terzo soggetto si presenta solo successivamente sulla scena fino allora dominata dalla diade relazionale madre-figlio. Una buona sintesi di tali concetti si ritrova in un lavoro di Ballerini e Laszlo (16). Essi ricordano come il ruolo attivo della figura paterna sia largamente dipendente dall’immagine che questa occupa nella mente della madre oltre che dalla concreta consistenza che il padre offre. L’immagine fantasmatica di padre nella mente della donna sarà la risultante di una lunga serie di relazioni con le proprie figure genitoriali e segnatamente delle vicissitudini del legame con la figura paterna. L’importanza di tale dimensione fantasmatica rende ragione di un possibile adeguato sviluppo psicoemotivo del bambino anche con un padre fisicamente assente, ma presente, come immagine paterna, nella mente della donna: ella saprà allora utilizzare come terzo nella relazione i sostituti paterni che la realtà di volta in volta le avrà offerto. Da parte della madre l’ammissione del ruolo del padre segna chiaramente la fine dell’onnipotenza partenogenetica ed è il primo passo significativo per la rottura di una simbiosi madre-bambino che rischierebbe di essere pensata come immutabile.
Il delicato compito del padre, sia impersonando il proprio ruolo, sia contrastando gli eventuali fantasmi paterni negativi presenti nella mente della donna (che potrà fugare solo se non troppo intensi), è quello di contrastare, con la sua presenza reale e fantasmatica, una possibile mortifera regressione fusionale della coppia madre-bambino, esercitando in tal modo quel “ruolo antipsicotico” ontologicamente connesso all’imago paterna.
Nei mesi successivi alla nascita e per i primi anni di vita del bambino sarà inevitabile una progressiva trasformazione del ruolo del padre: prima egli era presente soprattutto nella realtà esterna e nel sostegno alla propria compagna, poi diventerà sempre più una figura relazionale per il figlio. Potrà allora incontrare le difficoltà connesse alla mancata coincidenza tra il figlio idealizzato presente nella sua mente e il figlio in carne ed ossa, e gli sarà richiesto uno sforzo di separazione analogo a quello della madre: il superamento della simbiosi avviene solo attraverso il riconoscimento della separazione, cioè dell’esistenza del figlio come “diverso da sé”, nella sua concretezza di persona separata dai genitori.
Biller (17), in una monografia dedicata all’argomento della deprivazione paterna, considerava soprattutto due condizioni: il padre presente ma squalificato e sottomesso alla madre; il padre assente o non coinvolto. In tutti e due i casi viene favorita una iperprotettività materna con una relazione madre-figlio intensa ed esclusiva, non facilitante i processi di separazione-emancipazione e separarsi è condizione indispensabile per crescere, trasformarsi, simbolizzare. Questo non avviene nella psicosi condivisa, dove tutto sembra tragicamente immutabile.
Esperienze cliniche
Caso 1
Una paziente di 74 anni viene trasferita in Clinica Psichiatrica dopo un ricovero in Medicina per grave denutrizione: qui si sono escluse patologie organiche ed è stata riconosciuta una sitofobia melanconiforme. Per il trasferimento si sono dovute superare le resistenze del figlio, visibilmente angosciato e presente giorno e notte al letto della madre. Questi, 44enne disoccupato, ha sempre vissuto in casa, insieme al padre, deceduto 10 anni prima, e alla madre. È persona fragile, problematica, con franchi tratti psicotici, legato alla madre con modalità chiaramente simbiotiche: il paziente e la madre vivono insieme, senza contatti con il mondo, neanche con il medico di base (che segnalerà poi come, per far ricoverare la donna, abbia dovuto minacciare un ricovero obbligatorio). Di fatto il trasferimento può avvenire solo quando il consulente, esorcizzando angosce di separazione, garantisce al figlio di potersi fermare in reparto, insieme alla madre, molto oltre i normali orari di visita. La condizione psicopatologica della paziente è quella di un grave quadro melanconico con tematiche deliranti ipocondriache che alimentano un comportamento sitofobico-anoressico, con abuso di lassativi e rifiuto delle cure. Il figlio, che condivide i convincimenti deliranti, porta lassativi alla madre all’insaputa dei curanti. Un certo miglioramento che si realizzerà nelle settimane successive, non solo è dovuto alle terapie psicofarmacologiche e nutrizionali con fatica praticate, ma anche e soprattutto ad un approccio terapeutico rispettoso degli “equilibri” della coppia patologica. Il curante della paziente dedicherà, secondo una prassi inusuale ma in questo caso necessaria, parecchio tempo anche al figlio, che alla fine accetterà di “curarsi” per aiutare la madre a star bene e allo stesso modo entrambi accetteranno un successivo intervento del Servizio di Salute Mentale.
L’esordio dei disturbi psicopatologici della paziente sia stato subdolo, successivo alla vedovanza di circa 10 anni prima e favorito da una familiarità per disturbo depressivo maggiore. Anche per il figlio viene segnalato un vistoso cambiamento dopo la morte del padre (prima non era così ritirato, guidava l’auto, svolgeva qualche attività): l’esperienza avrebbe cristallizzato la coppia in una situazione regressiva immodificabile, dove dolore, lutto, separazione vengono negati con un drammatico “ritorno alle origini”.
La fine della degenza, dopo circa tre mesi di ricovero, ha coinciso con un discreto miglioramento e con prospettive di un futuro assetto relazionale meno disturbato e controllato da un terzo: il SSM. A distanza di un paio d’anni si è saputo di una successiva ripresa ed intensificazione del legame simbiotico, interrotto solo dal decesso della paziente per ictus cerebri.
Caso 2
Un giovane di 19 anni accompagnato in Pronto Soccorso insieme alla madre per intervento del SSM, viene ricoverato in Clinica Psichiatrica per disturbo psicotico acuto. La madre 49enne viene contemporaneamente ricoverata, in regime di TSO, nel locale SPDC, per sindrome delirante acuta. Si delinea da subito la condizione di simbiosi patologica: madre e figlio vivono autoreclusi nella loro abitazione, di cui non aprono neppure più le finestre, in una dimensione emotiva di sospetto, diffidenza, ritiro dal mondo esterno. Condividono, oltre ovviamente le consuetudini del quotidiano, anche tutta una serie di convincimenti di stampo persecutorio che li allontanano da ogni tipo di relazione. Idee deliranti di veneficio insorte più recentemente, hanno prodotto una tale restrizione alimentare da far temere per la sopravvivenza. È stato il padre-marito, separato da circa un anno, a sollecitare un intervento del SSM. Il ricovero dura per entrambi circa 15 giorni. Mentre la madre presenta un disturbo delirante, la patologia del figlio, caratterizzata da perplessità-confusione che richiamano alla psicosi acuta, si attenua rapidamente con la degenza, i farmaci e la separazione dalla madre. Tuttavia i contatti tra i due non vengono del tutto interrotti: i medici consentono infatti comunicazioni telefoniche. Il ragazzo studia al conservatorio; ha avuto precedenti brevi contatti con il SSM, sempre mediati dal padre, per episodi disforici e di aggressività ripetuta nei confronti della madre. Costei, da molti anni sofferente di disturbi deliranti, aveva avuto, questa volta da sola, un precedente ricovero due anni prima, dopo la separazione dal marito. Da allora il legame con il figlio avrebbe assunto caratteristiche sempre più simbiotiche.
Il paziente e la madre, dopo la dimissione, vengono separati: il giovane torna a vivere con il padre, prosegue terapia e controlli per alcuni mesi, godendo di un discreto benessere, ma tornato successivamente a vivere con la madre, si ritrova ben presto a condividere nuovamente il suo mondo psicotico. Un secondo ricovero, ancora sollecitato dal padre, si rende necessario per entrambi e con le stesse modalità del precedente: TSO in SPDC per la madre, ricovero volontario in Clinica Psichiatrica per il figlio.
Dei complessi giochi relazionali e dei bisogni sottesi dalla relazionalità simbiotica, è testimonianza qualcosa che accade nella fase iniziale del ricovero e che ci pare indichi l’opportunità di un agire terapeutico molto cauto in tali situazioni psicopatologiche, pena un aumento della distruttività. Dopo alcuni giorni di degenza il figlio contatta telefonicamente un’associazione di volontari a cui la coppia si era rivolta per chiedere aiuto contro la “persecutorietà” dei medici. Alcuni di questi volontari si presentano in reparto e, del tutto inconsapevoli della condizione psicopatologica dei loro assistiti, si rivolgono ai curanti con intensa rivendicatività come a dover proteggere due persone vittime di gravi soprusi. Persino la stampa cittadina, su loro segnalazione, dà risonanza all’evento, ipotizzando addirittura sequestri di persona. Solo un paziente lavoro di informazione e rassicurazione riduce le angosce dei membri dell’associazione prima così acriticamente collusivi con la coppia madre-figlio. Al contempo un rinnovato rispetto per la relazionalità simbiotica (sarà la curante stessa a farsi da tramite tra madre e figlio) ridurrà la distruttività prima elicitata forse anche da qualche incauto movimento verso la separatezza (agli emissari dell’associazione, venuti fuori orario, era stato inizialmente negato il permesso di ingresso). Questa volta madre e figlio usciranno insieme, affidati entrambi al Servizio e protetti dall’associazione di volontari che, sempre più consapevoli della psicopatologia dei loro assistiti, finiranno per diventare preziosi alleati di quei curanti prima considerati dei persecutori.
Caso 3
La terza coppia simbiotica propone in maniera drammatica come sia precario e pericoloso l’incontro con il terzo quando questi diventa l’artefice della separazione nell’area della fusionalità simbiotica. Un giovane di 27 anni viene ricoverato per la terza volta in ambito psichiatrico per psicosi delirante acuta. Il delirio, condiviso con la madre contemporaneamente ricoverata in regime di TSO, è incentrato sulla figura del padre-marito che, tornato dopo una lunga assenza per lavoro, non è più riconosciuto nella sua vera identità ma trasformato in un sosia, capo di una cosca mafiosa e responsabile di ogni persecuzione. Già nei due precedenti ricoveri (ma solo nel primo la madre fu ricoverata contemporaneamente al figlio) si era delineata la patologica simbiosi dei due congiunti e la loro coalizione contro il padre, allora descritto come violento, dispotico, mafioso. In tutti e tre i ricoveri la sintomatologia delirante del paziente si attenuava abbastanza rapidamente con gli usuali trattamenti neurolettici; la figura del padre veniva poi da entrambi riabilitata e in qualche modo accettata.
La storia di questo terzo caso sembra proporre una psicosi condivisa ad espressività episodica: al momento entrambi i pazienti, per quello che viene riferito, sono in condizione di discreto compenso cui si accompagna una relazionalità più normale e senza l’esclusione concreta del padre recuperato.
Alcune considerazioni
Dati anamnestici indicativi nel primo caso di una familiarità per disturbi psichiatrici, nonché la psicopatologia della madre inducente sempre preesistente a quella del figlio, sono in accordo con possibili ipotesi biologiche eredogenetiche della psicosi condivisa. In nessuno dei tre casi è invece segnalata una psicopatologia manifesta nel padre o nei suoi ascendenti. In due dei tre casi viene segnalato nell’indotto-figlio un episodio di precoce e temporanea separazione dalla madre per ricovero ospedaliero. In tutti e tre i casi di coppia psicotica il figlio è unicogenito e una patologica relazione simbiotica con la madre precede l’espressività psichiatrica conclamata della psicosi condivisa. Elemento comune e strettamente connesso al precedente è anche la lontananza della figura paterna: nel primo caso il padre è deceduto e la psicopatologia è successiva a tale perdita; nel secondo caso il padre, separato dalla moglie, assente per lunghi periodi, compare episodicamente per cercare di allontanare il figlio dalla madre con l’aiuto degli operatori psichiatrici; nel terzo caso il padre è spesso e a lungo assente per lavoro e la psicosi condivisa conclamata coincide con il suo ritorno. Quanto da noi osservato sulla figura del padre nelle tre coppie, induce a pensare che nelle vicissitudini dell’originaria relazione madre-bambino si siano mantenute anacronistiche caratteristiche simbiotiche, anche in rapporto alla latitanza di una valida figura paterna. Se ciò sia dipeso più dalle caratteristiche personologiche del padre o da un’originaria imago paterna svalorizzata nella mente della donna che sceglie un partner latitante, è di difficile valutazione.
Nel primo caso, in cui la psicosi condivisa appare alla morte del padre, essa probabilmente esprime un regressivo ritorno ad un mondo melanconiforme difficilmente superabile. Nel secondo caso la separazione dal padre, che va via di casa, potrebbe aver ostacolato l’emancipazione adolescenziale, la cui difficile realizzazione è testimoniata anche da quegli acting aggressivi del ragazzo verso la madre che precedono l’esordio della psicosi condivisa. Inoltre per un padre che già si è separato dalla famiglia, e che per di più propone come unica possibilità emancipativa una separazione violenta del figlio dalla madre (ricovero per entrambi), è difficile ipotizzare quelle caratteristiche positive di valido tramite verso la realtà che consentono un adeguato superamento della simbiosi. Considerazioni analoghe valgono anche per il padre del terzo caso: è figura positiva quando è assente, quando al contrario è presente diventa il sosia mafioso e violento.
2. Quanto però sia difficile il ruolo del terzo in tali particolari situazioni in cui esiste una relazionalità così stretta che, pur carica di valenze patologiche, ha anche ovvi significati difensivo-protettivi per entrambi, lo testimoniano le difficoltà che lo psichiatra incontra quando si pone come “terzo nella relazione”. Marcenaro et al. (18), in una nota sul significato del sintomo psicotico nei suoi aspetti difensivi, sottolineano ad esempio il rischio che lo psichiatra, se fa riferimento ad una valutazione obiettiva dei fatti e all’uso del “buon senso” (visto poi che si trova di fronte a gravi psicopatologie, con figli vittime e necessità urgente di separare per curare), possa sortire, contro ogni previsione logica, una recrudescenza della distruttività: sono tanti e tali i bisogni reciproci che la situazione simbiotica soddisfa che qualunque minaccia di separazione può facilmente elicitare angosce di morte.
3. Iniziare e mantenere con tali difficili pazienti una relazione terapeutica è il vero nodo cruciale. Il punto di partenza per un lento lavoro emancipativo e realizzato “per quanto possibile” è, paradossalmente, proprio il rispetto della simbiosi: lo psichiatra che tenta di proporsi alla coppia come “terzo non pericoloso” non deve essere guidato solo dal riconoscimento realistico dei contenuti terapeutici e vitali connessi alla separazione, ma anche da quello dei contenuti non mortiferi connessi alla simbiosi che, per quanto precluda crescita ed evoluzione, consente tuttavia una garanzia di sopravvivenza. È stato suggerito (14) che la strategia terapeutica si incentri soprattutto sul favorire uno spostamento dalla dipendenza patologica dall’oggetto del legame simbiotico ad una buona dipendenza dallo psichiatra. Su questa impostazione teorica è facile convenire, senza però minimizzare il rischio, da Altri (15) segnalato, che la relazionalità terapeutica si costituisca, in antitesi ad una buona terapia, come una nuova relazione antievolutiva, collusiva, per il potente bisogno di recuperare l’onnipotenza simbiotica nella coppia terapeuta-paziente.
4. Le shared psychosis nella loro espressività conclamata sono relativamente rare. Ciò è stato in parte connesso anche al fatto che difficilmente i pazienti, proprio per le caratteristiche della loro psicopatologia, si rivolgono al “medico-terzo” per un aiuto. Se però riconosciamo alla shared psychosis il significato di sintomo limite della patologia di relazione, essa può essere considerata la punta dell’iceberg di situazioni sommerse, più subdole, certamente più frequenti, molte delle quali nessuno tratterà mai e che forse non vanno trattate. Per i casi estremi di patologia relazionale sembra invece che i soggetti della coppia patologica, nel difficile percorso esistenziale che prevede la crescita, la separazione e l’incontro doloroso con la depressione, si arrestino e ricerchino in questo modo una possibilità di esistenza in una singolare relazione che richiama sia alla simbiosi biologica mutualistica, sia anche alla “complementarietà” dei bisogni patologici (19).
La psicosi condivisa è un disperato ed inefficace tentativo autoterapico bidirezionale che contiene un tragico inganno – le pulsioni distruttive del mondo delirante, come ricorda Rosenfeld (20), sono spesso mascherate di onnipotente benevolenza salvifica – ma anche un nucleo di verità: i componenti la coppia patologica non riescono veramente a tollerare di separarsi e ricercano o trovano nella condizione psicotica, illusorie e più rapide soluzioni ai loro problemi.
1 DSM IV. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Fourth Edition. American Psychiatric Association. Washington 1994.
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20 Rosenfeld HD. Sull�identificazione proiettiva. Rivista di Psicoanalisi 1980;XXVI:118-34.