Key words: Psychiatrists • Aggressions • Occupational hazard • Prevention
Correspondence: Dr. A. Berti, Clinica Psichiatrica, Pad. A, Ospedale “S. Martino”, l.go R. Benzi 10, 16132 Genova – Tel. 010 3537673 – E-mail: camillamaberino@libero.it aleberti-wolit@tiscali.it
Studio epidemiologico in collaborazione con il Dott. Stefano Bomarsi
“Ascoltò in silenzio accessi di odio omicida, intervenendo solo di rado con il più blando dei commenti e senza mai interrompere il flusso collerico che tracimava dal lettino, con il costante desiderio che almeno uno dei suoi pazienti facesse un respiro profondo e per un attimo prendesse le distanze dalla propria rabbia, la vedesse per ciò che era davvero: furia nei confronti di se stesso”.
Zimmermann sbuffò forte. “Chiunque ci sia là fuori, probabilmente è più interessante di me, vero?” disse con amarezza, poi tolse i piedi dal lettino e diede uno sguardo ostile al suo analista. “Non mi piace quando cambia qualcosa” aggiunse seccamente. “Non mi piace per niente”. Si alzò scrollando le spalle, lasciando che sul viso gli comparisse un sorriso cattivo”.
Due frasi che aprono il primo capitolo di un thriller inconsueto (1). Un libro in due parti, nella prima lo psicoanalista F. Starks vittima di un sadico gioco di potere, nella seconda un rovesciamento dei ruoli: da vittima a vendicatore di sé. Tra i partecipanti uno dei suoi pazienti, Mr Zimmermann appunto.
Un libro che probabilmente non lascerà alcun segno nella letteratura, ma che non ci stupirebbe vedere tra qualche tempo tra le fonti letterarie di un qualche film per home video. Gli ingredienti per un probabile successo ci sono tutti: l’aggressività del paziente, la professionalità del terapeuta, la vendetta di entrambi, il tutto in un’atmosfera noir newyorkese che aumenta la tensione e stimola la curiosità di chi a questo mondo si sente estraneo.
Per lo psichiatra e lo psicoterapeuta l’aggressività del paziente e il controtransfert sono invece la quotidianità, l’atto violento un insuccesso rischioso.
Dopo il 1978 non si è più parlato di pericolosità del paziente psichiatrico, se non sottovoce tra gli addetti ai lavori. Lo scopo di questa osservazione è dunque proprio quello di dare corpo ai bisbigli con obiettività scientifica, in un momento in cui qualcuno, e di psichiatra si tratta purtroppo, urla che “la psichiatria è morta“. Ultimo esempio di un gesto violento estremo (2).
Le considerazioni sui dati ottenuti dallo studio vengono dagli autori finalizzate a prevenire, o ridurre al minimo, le conseguenze di quello che può essere considerato un “rischio professionale”, ma che in origine sembrerebbe un insuccesso terapeutico, spesso attribuibile ad imperizia e negligenza.
Aggressività tra norma e patologia
È riconosciuto che l’aggressività sia un “elemento fondamentale, irriducibile della costituzione umana”, che le istanze distruttive esistano fisiologicamente fin dalla nascita, come espressioni istintuali, e che in uno sviluppo normale vengano poi elaborate, canalizzate altrove, sublimate.
Emblematica in questo senso ci appare la frase di Theodore Reik: “Se i desideri fossero cavalli, tirerebbero i carri funebri dei nostri più cari amici e dei nostri parenti più stretti. Tutti gli uomini in fondo all’anima sono assassini“, tanto azzeccata quanto apparentemente esagerata se non letta con un occhio psicodinamico (3).
Ma non sempre l’aggressività rimane un istinto elaborato, a volte la pulsione aggressiva viene agita, in contesti che la rendono più o meno comprensibile, da individui con patologie psichiche e apparentemente sani.
Ci viene in mente l’aggressione repentina che esplode senza preparazione a-prodromica, l’attacco subitaneo, sferrato e perpetrato sino in fondo, proprio senza freno alcuno, che ci narra Plutarco nella “Vita di Licurgo” (4), quando il giovane Alcandro “per nulla malvagio” tuttavia col cuore “improvvisamente gonfio“, colpisce con un bastone il legislatore e gli cava anche un occhio, dimentico persino d’essere nel sacro tempio. Il capitolo è l’undicesimo. Plutarco definisce Alcandro un impulsivo, un individuo in cui è straripato qualcosa che era celato profondamente in lui e, d’un tratto, è emerso straripando incontenibile: eppure nulla stava accadendo di particolarmente grave. Se non che il legislatore stava dicendo quello che Alcandro non voleva ascoltare, o, se passa la metafora legislatore/psichiatra, quello che Alcandro non era pronto a sentire.
Quando poi si parla di pazienti con determinate patologie psichiatriche, le correlazioni tra malattia mentale e violenza (5) sono argomento ovvio, che diventa tanto più frequente ed attuale quanto più inviso. Gli psichiatri, inutile negarlo, si trovano spesso ad affrontare il problema del potenziale danno che il malato può infliggere a sé ed ad altri, non solo quando costretti dal quesito di pericolosità o quando, a condizioni cliniche stabilizzate, si debbano prendere delle decisioni circa la sua dimissione, ma anche quando il paziente è in regime di ricovero o nell’apparente tranquillità dell’ambulatorio.
I primi studi in materia di malattia mentale e violenza, risalgono agli anni ’40-’50 e sono caratterizzati da un approccio prevalentemente statistico, così come molti studi più recenti, quale quello di Swanson (6) in cui campioni di soggetti psichicamente malati vengono confrontati con gruppi di controllo di soggetti sani per evidenziare eventuali differenze circa il rischio di comportamenti violenti.
Si può affermare che tutti gli studi sul legame tra sofferente psichico e violenza confermano che il rapporto esiste (7), ed è tanto più evidente per i disturbi mentali a prognosi più severa, come la schizofrenia e le psicosi bipolari, in gravi disturbi della personalità e in individui tossicodipendenti od etilisti (5).
Dall’osservazione clinica condotta dagli autori dal 1995 al 1997 (8) in un reparto psichiatrico è emerso che 40 su 373 pazienti (10,7%) ricoverate ha commesso almeno un atto violento durante la degenza ospedaliera, di cui 26 sono risultati contro persone. I risultati ottenuti relativi ai disturbi maggiormente implicati in agiti eteroaggressivi concordavano con i dati presenti in letteratura (9)-(11).
Ma, come già sottolineato dagli autori qualche anno fa (8), ricercare la violenza negli individui già conosciuti come malati mentali o la malattia mentale nei criminali è un approccio concettualmente errato, qualora si voglia avere un confronto obiettivo con la popolazione generale. In questa sede, al contrario, appare utile affrontare l’inquietante problema della violenza e della pericolosità del malato psichico (12), e pensiamo nella esclusiva giusta prospettiva della prevenzione e della terapia, affrontando la questione da un punto di vista che permetta di definire il cosiddetto “rischio professionale” di chi opera nell’ambito psichiatrico.
Partendo dall’osservazione a questo punto chiara che l’aggressività come pulsione è imprescindibile dall’umano, possiamo affermare che l’intervento dello psichiatra e il trattamento psicoterapeutico non possano essere considerati un mezzo preventivo dell’aggressività intesa come pulsione e cioè istinto, bensì utili a prevenire lo scarico violento dell’aggressività, attraverso una sua elaborazione consapevole (13).
Una metafora alla chimera del prevenire ci viene offerta dal film Minority Report, che ci fa chiaramente immaginare come fantascientificamente possa funzionare la prevenzione dell’atto violento, ma non dell’istinto: di fatto l’equipe precrimine arriva appena in tempo per evitare che venga commesso il crimine, che comunque rimane desiderato e tentato fino alla fine.
Peraltro nel film chi in teoria dovrebbe prevenire, cioè chi ha ideato e promosso l’anticrimine, è in origine lui stesso un assassino. Un finale esplicito, la pulsione aggressiva è ubiquitaria: c’è chi la agisce, chi la pensa, chi la cura, chi la nega. Un’affermazione che, oltre a ricordarci quanto la pulsione aggressiva sia universale, ci apre uno squarcio sul problema degli agiti controtransferali. I curanti, infatti, sono spesso in bilico tra la loro stessa rabbia e paura verso il paziente (non sempre del tutto consce) e l’imperativo professionale di comprendere il comportamento del malato. Clinicamente un simile conflitto si manifesta non di rado con la doppia esigenza di punire e di intervenire terapeuticamente. Si pensi ad esempio alla fiala di sedativo somministrata in risposta all’aggressione, i cui scopi terapeutici sono quantomeno dubbi (14).
Tutte queste osservazioni ci inducono oggi a riflettere, tenendo conto dei fattori di rischio potenzialmente in grado di aumentare la possibilità di una condotta violenta, sugli aspetti della terapia e della prevenzione in tali situazioni.
Materiale e metodo
L’attuale osservazione è avvenuta nel mese di Aprile 2003 nella città di Genova, attraverso la distribuzione di un questionario agli operatori psichiatrici, finalizzato a caratterizzare le eventuali aggressioni subite da parte di pazienti, allo scopo di evidenziare i rischi ed ipotizzare miglioramenti e suggerimenti per ridurre gli stessi e prevenire gli agiti violenti (15)-(17).
Sono stati distribuiti 200 questionari di cui 73 a psichiatri, tra i quali 28 erano indirizzati a medici specializzandi in psichiatria, 55 ad infermieri psichiatrici, 10 a O.T.A. e 90 a psicologi, che lavorano presso strutture pubbliche o in ambito privato. L’età dei soggetti era compresa tra i 24 e i 62 anni, con età media di 43 anni. Le diverse strutture di appartenenza erano S.P.D.C., Dipartimento di Neuroscienze, strutture intermedie/residenziali e studi privati.
L’indagine chiedeva ai compilatori di fornire informazioni relative ad eventuali aggressioni subite, in particolare di quantificarle, di dire se si trattava di minacce fisiche o verbali, oppure di lesioni personali (lievi, moderate o gravi), in che luogo erano avvenute (se sul lavoro, in spazi privati o per la strada), in quale fascia oraria, se si era trattato di un atto vendicativo e se erano presenti altre persone durante l’aggressione.
Venivano inoltre richieste informazioni sull’aggressore e sull’operatore stesso, utili a delineare i profili del paziente e del terapeuta più spesso coinvolti in episodi di tal genere (17).
Risultati
a. I questionari compilati restituiti sono stati 95: è stato cioè ottenuto un tasso di risposta del 47,5%; in dettaglio è risultato che ha risposto l’88,89% degli psichiatri, il 60,71% dei medici specializzandi in Psichiatria, il 63,63% degli infermieri e il 100% degli O.T.A., il 13,34% degli psicologi intervistati.
b. Tra i questionari raccolti 68, cioè il 71,57%, riferivano una o più aggressioni subite da parte di pazienti psichiatrici; essi erano stati compilati da 35 femmine e da 33 maschi.
c. In particolare la maggior parte delle femmine riferiva un’unica aggressione (20, cioè il 57,14%), mentre i maschi hanno perlopiù subito aggressioni multiple (24, cioè 72,72%) (grafico 1).
d. Per semplificare abbiamo creato quattro categorie di appartenenza, distinte per caratteristiche intrinseche alla professione: gli specializzandi sono stati inseriti nel gruppo degli psichiatri, in quanto assimilabili per tipo di lavoro svolto e tempo trascorso con i pazienti; con gli stessi criteri gli O.T.A. sono stati inglobati nella categoria degli infermieri. Per quanto riguarda le risposte ottenute suddivise per categoria di appartenenza dei soggetti, come si evince dal grafico 3, il gruppo più spesso coinvolto in agiti violenti da parte dei pazienti è quello degli infermieri, tra cui il 62,5% di questionari riferiva aggressioni multiple e il 17,50% un’unica aggressione (grafico 2).
Segue la categoria degli psichiatri in cui solo il 20% nega di essere mai stato coinvolto in episodi di violenza.
Al contrario gli psicologi riportano aggressioni solo nel 16,7% dei casi.
Nel grafico compare poi una categoria chiamata “altri”, in cui sono state inserite figure professionali come alcuni medici generici o specialisti geriatri, che da anni lavorano presso strutture residenziali psichiatriche, pur non avendo una preparazione specialistica per tali pazienti.
e. A questo punto ci sembra utile, nelle due categorie degli infermieri e degli psichiatri, riportare il dato relativo alle aggressioni subite in rapporto agli anni di attività lavorativa svolta. Per quanto riguarda gli infermieri (grafico 3), entro i primi dieci anni di attività, la maggior parte dei compilatori non riferivano aggressioni (42,90%), mentre il 28,55% ne riferisce una e altrettanti più di una.
Aumentando gli anni di lavoro diminuisce il numero di persone che non riportano aggressioni (rispettivamente 7,10%, 23,10%, 16,70%), mentre si fa più numeroso il gruppo di infermieri che riferisce aggressioni multiple (rispettivamente 78,60%, 53,80%, 83,30%, nelle categorie con 11-20, 21-30, 31-40 anni di attività lavorativa alle spalle).
Gli psichiatri (grafico 4) con un massimo di cinque anni di esperienza lavorativa non riferiscono nel 28,57% dei casi alcuna aggressione, nel 50% ne riportano una e nel 21,42% più di una. Anche per la categoria professionale degli psichiatri si vede come diminuiscono con gli anni di lavoro i casi che non annoverano alcun episodio di violenza (fino all’11% di chi lavora da 31-40 anni) e contemporaneamente aumenta l’altezza della colonna delle aggressioni multiple (fino al 66% degli operatori con 31-40 anni di attività lavorativa).
Il gruppo di psichiatri con anni di attività compresi tra 6 e 10 non riporta nel 50% alcuna violenza e nella stessa percentuale riferisce aggressioni multiple, come chi lavora da 11-20 anni.
f. Per quanto riguarda il luogo dell’aggressione (grafico 5) la maggior parte degli episodi sono avvenuti nelle corsie di degenza (54 casi, ossia il 79,41%), 3 episodi sono capitati nell’ambulatorio (4,41%), 4 casi in Pronto Soccorso (5%), 2 (cioè il 2,34%) sono avvenuti nello spazio privato ed infine 5 aggressioni (7,35%) sono risultate per strada.
g. È stato poi chiesto ai compilatori di indicare l’orario dell’episodio, scegliendo tra tre fasce orarie, quella mattutina (08,00-13,00), quella pomeridiana (fino alle 20,00) e quella notturna. Le risposte fornite sono risultate piuttosto dubbie, nel senso che nella maggior parte dei casi erano state indicate più fasce orarie oppure nessuna.
h. Dal grafico 6 possiamo valutare i diversi tipi di aggressioni descritte: 15 questionari hanno riportato minacce verbali o fisiche (22,05%), 6 atti vandalici (8,82%), 3 aggressioni sono risultate essere lesioni gravi (4,41%), 9 erano lesioni moderate (13,23%), 35 lesioni lievi (51,47%).
Tra gli atti vandalici sono stati descritti: lancio e rottura di oggetti, secchiata d’acqua, distruzione dei locali del SERT, incendio all’autovettura del terapeuta.
Le lesioni personali lievi (prognosi di 1-3 giorni) comprendono schiaffi, calci, pugni, abrasioni, spinte, contusioni, tirate di capelli; tra le lesioni personali di grado moderato sono state elencate aggressioni fisiche o spinte con caduta con prognosi di 4-10 giorni; le lesioni gravi comprendo ferite o fratture che hanno determinato più di 11 giorni di prognosi.
Sottolineiamo che 7 episodi di violenza, tra quelli che hanno causato lesioni personali medie o gravi, hanno determinato la sospensione dell’attività da parte dell’operatore per alcuni giorni.
i. Una domanda del questionario chiedeva poi ai compilatori di indicare se la violenza subita risultava come atto vendicativo nei loro confronti: sono stai riportati 18 atti vendicativi, perlopiù relativi ad interventi terapeutici non condivisi dal paziente (es. rifiuto di permessi, interruzione della terapia, ricovero imposto con T.S.O. o rifiutato).
48 violenze riportate (cioè il 70,6%) non erano riconducibili a vendetta alcuna, mentre 2 compilatori non hanno saputo riferire un’eventuale vendetta.
l. Inoltre per quanto riguarda la diagnosi dei pazienti coinvolti sono state riportate (grafico 7): 33 tra Disturbi Deliranti, Psicosi e Schizofrenie, 6 Disturbi dell’Umore, 7 Disturbi correlati a sostanze, 10 Disturbi di Personalità (nella maggior parte dei casi Disturbo Borderline di Personalità), 4 tra Oligofrenie e Epilessie.
13 pazienti (19,11%) erano al momento dell’aggressione in regime di trattamento sanitario obbligatorio e il 77,94% (54 pazienti) erano noti per precedenti di violenza. Per 8 pazienti (11,76%) si sa che erano sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
Dato interessante è quello relativo al rapporto tra il curante e il paziente: nel 72% delle aggressioni è risultato che il terapeuta conosceva il paziente.
m. Il questionario chiedeva poi di indicare l’eventuale presenza di altre persone al momento dell’aggressione, che è stata confermata nell’80,88% dei casi (grafico 8).
n. Inoltre il 60,29% dei compilatori che sono stati vittima di aggressione hanno riferito di aver avuto un qualche sentore di ciò che stava per accadere e di aver avuto paura, mentre solo l’11,76% ha affermato di essersi sentito in pericolo di vita.
Discussione
a. Il tasso di risposta percentuale ottenuto alla somministrazione del questionario indica probabilmente la diversa sensibilità al problema nelle differenti categorie intervistate. Vero è infatti che tra psichiatri o infermieri si è avuto un alto tasso di risposta, ad indicare forse in tali operatori una certa consapevolezza e sensibilizzazione al rischio di violenza con pazienti psichiatrici. In questo senso potremmo ipotizzare che una percentuale dei questionari non compilati sia da leggersi in termini ideologici o difensivi.
Possiamo affermare che gli psicologi, che rappresentano il gruppo con minor tasso di risposta, sono forse figure professionali che lavorano nella maggior parte dei casi in studio privato o in ambulatori e perciò probabilmente non vengono a contatto con i pazienti più gravi, che abbiamo detto essere quelli più spesso coinvolti in episodi di violenza. A conferma di ciò sottolineiamo che solo il 20% degli psicologi ha affermato di essere stato vittima di un qualche episodio aggressivo da parte di pazienti psichiatrici (cfr. punto d dei risultati, grafico 2).
b. Dalla nostra indagine è poi risultata una percentuale di compilatori aggrediti praticamente uguale nei due sessi, il che non sembra confermato dalle ricerche di vittimologia, che genericamente indicano invece le femmine come più spesso colpite.
c. I dati evidenziano inoltre che la maggior parte degli uomini (72,72%) sono stati più volte coinvolti in episodi di violenza, mentre le donne riferiscono perlopiù un’aggressione unica. Ciò concorda con alcuni studi trovati in letteratura (18) (19).
d. Dai dati della letteratura la maggior parte delle violenze denunciate sono a danno del personale infermieristico (19)-(22). I risultati ottenuti dimostrano che l’80% degli infermieri e la stessa percentuale tra gli psichiatri riferisce violenze. Haim et al. (23) sostengono a questo proposito che psichiatri e infermieri psichiatrici sono in grado di predire accuratamente la violenza nello stesso modo.
L’unica differenza è che gli psichiatri perlopiù una volta sola, mentre gli infermieri più volte. Il fatto che gli infermieri siano un bersaglio più frequente può essere spiegato da due ipotesi:
1) è possibile che la continuità e qualità di rapporto (24), intesa come il particolare tipo di accudimento anche fisico (25), mettano a maggior repentaglio l’infermiere, così come la mancanza di preparazione specifica (quasi nessuno dei compilanti ha avuto una formazione specialistica come infermiere psichiatrico);
2) l’apparente mancanza di autorità dello stesso: lo psichiatra infatti può essere “punitivo” nell’immediato molto più facilmente dell’infermiere, il che potrebbe funzionare da deterrente alla minaccia.
e. Dall’osservazione dei grafici 4 e 5 emerge chiaramente che con l’aumentare degli anni di lavoro alle spalle vi è un cumulo di esperienze violente.
A questo proposito si può ipotizzare che gli “anziani” abbiamo accumulato esperienze violente in un periodo in cui la psicofarmacologia era meno efficace e la contenzione meccanica era inevitabilmente più frequente. Molti degli insulti fisici denunciati sono infatti avvenuti durante le colluttazioni con il paziente reticente alla misura contenitiva.
La letteratura indica che più spesso gli acting aggressivi da parte dei pazienti psichiatrici coinvolgono giovani operatori, in particolare medici specializzandi (26) o infermieri nuovi assunti (21), sottolineando come tali soggetti siano impreparati o comunque si sentano tali nei confronti dei pazienti violenti (18) (27)-(29). Per contro nell’ambito del nostro studio i dati non confermano tali tesi. Diciamo a questo proposito che gli allievi o i nuovi assunti tra gli infermieri, così come i giovani specializzandi, vengono nei primi anni di lavoro assistiti dai colleghi e difficilmente potrebbero ritrovarsi in situazioni pericolose con il paziente. Inoltre, nel caso degli infermieri, è raro che vengano assegnati ai reparti psichiatrici persone con un’anzianità di servizio, anche se in altra specialità, inferiore ai dieci anni.
Alla base delle discrepanze tra i dati in questione supponiamo che giochino un ruolo non indifferente le diversità nella consapevolezza o nella memoria della violenza tra soggetto e soggetto, ed anche la diversa propensione di ogni individuo ad imbattersi in simili episodi (29).
Non siamo in grado di confermare il frequente dato presente in letteratura che i giovani psichiatri o specializzandi sono il gruppo più spesso coinvolto (29) (30), ma ciò è probabilmente da mettersi in relazione con il fatto che nel nostro questionario non veniva richiesta l’epoca dell’aggressione e pertanto non possiamo escludere che molte violenze riportate siano avvenute nei primi anni di attività lavorativa.
f. Per quanto riguarda il luogo delle aggressioni è risultato che i reparti di degenza sono più spesso teatro di episodi di violenza, il che non trova conferma specifica in letteratura, se non riflettendo con modalità deduttiva: tutti gli studi trovati sono stati effettuati in unità operative psichiatriche di degenza.
Inoltre non è difficile credere che in un Pronto Soccorso si sia in qualche modo più attenti e forse più preparati ed “attrezzati” ad affrontare le situazioni di urgenza.
g. I dati riguardanti la fascia oraria in cui più spesso si verificano acting violenti da parte dei pazienti non sembrano significativi dal punto di vista statistico. Possiamo genericamente affermare che la maggior parte degli episodi denunciati è avvenuta in orario diurno, in cui presumibilmente è più numeroso il personale presente in corsia e l’atmosfera può essere sicuramente più stimolante e confusiva per il paziente sofferente, che si trova a ricevere un maggior numero di stimoli di diversa natura (25).
h. Le risposte alla domanda sul tipo di atto violento subito hanno evidenziato che nella maggior parte dei casi si è trattato di lesioni personali lievi, seguite dalle minacce verbali o fisiche. Più rari risultano le lesioni moderate, gli atti vandalici, e le lesioni gravi.
La prevalenza di lesioni personali lievi, confermata anche dalla letteratura, (31) indica che lo scopo e la spinta all’acting sono in un certo senso moderati, cioè non si evidenzia un’intenzione a menomare o addirittura uccidere. Solo pochi studi contrastano questo trend (19), il che è plausibile se l’indice di gravità richiesto fosse soggettivo. Nel presente lavoro esso era da mettersi in correlazione con i giorni di prognosi previsti.
Il che ci viene ulteriormente confermato dal fatto che solo l’11,76% dei compilatori ha affermato di essersi sentito in reale pericolo di vita (punto n dei risultati).
Le lesioni gravi sono tre: avvenute a danno di 2 donne e un uomo, con 40 di esperienza, da pazienti schizofrenici. E comunque raramente è stata determinata la sospensione dell’attività da parte dell’operatore (e anche nel caso, per pochi giorni).
i. A proposito dell’opinione del compilatore circa la possibilità di un’intenzionalità vendicativa nell’atto violento, nel 70,6% dei casi il curante non riteneva plausibile l’ipotesi di una vendetta.
Se viene interrogato il paziente sulla motivazione di un agito violento (8), è facilmente identificabile un “movente”, vuoi di natura clinica vuoi di origine relazionale. Al contrario questo è difficilmente indicato se viene intervistato il curante. Il che confermerebbe il senso di insuccesso legato all’atto violento e alla conseguente rimozione o sottovalutazione del nesso di causalità.
l. Per quanto riguarda la diagnosi dell’aggressore il presente studio conferma i dati della letteratura: il maggior numero di atti violenti valutati è stato compiuto da pazienti psicotiche e perlopiù schizofreniche e pazienti affette da sindromi affettive (8)-(10), sebbene la maggior parte degli studi (tranne quello di Eronen M., 1996) (32) sia concorde nel sostenere che gli schizofrenici non commettano atti violenti se non nella stessa misura dei soggetti normali (33).
Altre categorie diagnostiche frequentemente coinvolte sono quelle dei disturbi di personalità e quelle in cui è clinicamente marcata la componente eccitatoria e la tendenza all’acting-out (Episodio maniacale e Disturbo Borderline di Personalità) (8)-(11).
Teniamo presente che comportamenti violenti possono manifestarsi oltre che in pazienti con tratti di personalità antisociale ben noti, altresì in soggetti che non hanno una storia di atteggiamento distruttivo né di tendenze omicide/suicide manifeste e che dunque diventano violenti in occasione della psicopatologia conclamata (5).
Va inoltre sottolineato che la maggior parte degli episodi riferiti sono avvenuti in corsie di degenza (punto f), luogo in cui più spesso si trovano ricoverati psicotici gravi. Rimane dunque ancora incerto se esistano gruppi identificabili all’interno di tutti i malati psichici in cui il rischio di violenza futura sia aumentato (34).
Lo studio conferma, inoltre, come l’acting non possa essere messo in relazione matematica con l’uso di sostanze psicoattive (8).
Il nostro dato rispetto ad un deficit intellettivo non appare oggi di per sé significativo, se non a sottolineare come un tale deficit possa contribuire ad un ulteriore difficoltà nel trattenere gli impulsi di qualsiasi natura.
Nella maggior parte dei casi le violenze avvengono ad opera di pazienti noti già per precedenti aggressivi.
Non risulta significativo statisticamente il dato relativo al regime di ricovero: forse possiamo dire al riguardo che quando il paziente è in T.S.O. siamo più in allarme e mettiamo in atto più misure per prevenire eventuali violenze (punto f).
m. Collegato al punto g, appare il dato relativo alla presenza o meno di altre persone (35): è emerso che nel 80,88% dei casi il curante non si trovava da solo con il paziente. Anche in questo senso si può affermare che lo scopo è dunque più spesso limitato e non forse l’omicidio (punto h). Questo fa pensare ad atti dimostrativi più che vendicativi.
n. Quel 60,29% di compilatori che hanno riferito di aver avuto un qualche sentore di ciò che stava per accadere ci invita a riflettere sulla possibilità di prevedere e quindi prevenire le aggressioni da parte dei pazienti.
Considerazioni sui fattori predittivi di rischio e sulle ipotesi preventive
Il primo dato che balza agli occhi quando si ricerchino dati relativi alle aggressioni da parte di pazienti psichiatrici nei confronti di curanti è anzitutto la relativa scarsità degli studi in letteratura.
La maggior parte degli autori, infatti, descrive episodi di violenza avvenuti in contesti particolari come gli ospedali psichiatrici giudiziari, dove evidentemente non si fatica ad immaginare i maggiori rischi.
In generale gli episodi di violenza in ambiente psichiatrico sono indipendentemente dalla frequenza e gravità spesso misconosciuti (14)-(41), al punto che la serietà delle conseguenze non garantisce che vengano denunciati.
Le ragioni per cui ciò avvenga non sono chiare, ma possiamo affermare che per gran parte siano dovute a sentimenti controtransferali e alla consapevolezza dell’errore terapeutico.
Dai dati raccolti dalla somministrazione del questionario, pur con i limiti definiti dall’esiguità numerica e dalla particolarità del campione esaminato, si evince come sia invece frequente nella pratica clinica trovarsi in situazioni in cui il paziente agisce l’aggressività (37) (38). Pertanto ci pare d’interesse attuale riflettere sui maggiori indicatori di rischio da prendere in considerazione qualora si voglia formulare ipotesi preventive della violenza.
In prima istanza consideriamo utile dividere i fattori di rischio in acuti e cronici e considerare a questo livello variabili relative al paziente (39) e variabili relative al curante (40).
Fattori cronici:
• anamnesi positiva per episodi di violenza o per altro tipo di comportamento impulsivo;
• abuso infantile;
• diagnosi (punto l);
• comorbilità;
• tratti di personalità;
• lunga ospedalizzazione (41) (42).
A proposito della diagnosi psicopatologica a maggior rischio di acting, particolare attenzione va posta sui Disturbi di Personalità del gruppo B secondo il DSM IV-TR, ossia il cluster cd Dramatic Cluster che potremmo tradurre come iperemotivo ed imprevedibile (11) (punto n).
Nel ICD 10 corrisponde al Disturbo di personalità emotivamente instabile i cui criteri sono sovrapponibili a quelli del DBP del DSM IV-TR: “compresenza di marcata tendenza ad agire compulsivamente senza considerare le conseguenze, insieme ad instabilità affettività.
La capacità di fare progetti per il futuro è minima e le esplosioni di collera intensa possono spesso condurre a violenza o ad esplosioni comportamentali. Sono specificati due tipi di questo disturbo ed entrambi includono l’aspetto generale dell’impulsività e della mancanza di autocontrollo: il tipo impulsivo e quello borderline“.
In questo senso potremmo estendere il campo ai soggetti che manifestano i cosiddetti “attacchi di rabbia” (anger attacks) (43), non lontani dagli attacchi di panico se non per l’assenza della tipica ansia associata.
Secondo Nestor (2002) la dimensione dell’asse II del DSM IV-TR può essere valido strumento di valutazione di rischio cronico di agiti violenti. In questo senso si possono considerare quattro dimensioni di personalità: il controllo degli impulsi, la regolazione degli affetti, il narcisismo e lo stile di personalità cognitivo paranoide (41).
Fattori acuti:
• lo stato psicopatologico attuale, in particolare la presenza di sintomi positivi soprattutto disturbi dispercettivi;
• e sintomi più genericamente acuti come alterazioni dello stato di coscienza (del campo e del fuoco) ed alterazioni dell’affettività (8);
• repentine e frequenti modifiche della farmacoterapia;
• elevato uso di psicofarmaci sedativi (42);
Tutti i fattori acuti e cronici fin qui elencati possono essere considerati relativi al paziente, a differenza di quelle caratteristiche correlate al rischio di violenza che consideriamo legate all’ambiente esterno (23) e quindi di pertinenza del terapeuta (21) (37) (punto d).
Fattori legati al terapeuta:
• ambivalenza del terapeuta;
• aspetti perversi non riconosciuti nella relazione;
• imperizia.
Spesso i curanti sono dibattuti tra da un lato la rabbia e la paura del paziente e dall’altro l’imperativo professionale di comprendere il comportamento violento/aggressivo. Questo conflitto si manifesta clinicamente con la tendenza contemporanea a punire e a intervenire terapeuticamente (13).
In un clima terapeutico in cui esistono controrisposte a corto circuito o ideologicamente programmate, e comunque difficilmente mediate dalla comprensione (T.S.O., farmaci depot, contenzione meccanica) (44) (45), le variabili legate al terapeuta sono indubbiamente complesse ed ognuna apre un capitolo a sé. Tutte sono però riconducibili ad un principio generale: nella pratica psichiatrica non può venir meno la regola del gnosci te ipsum, e del consequenziale cura te ipsum.
A questo punto riteniamo utile la presentazione di due casi tanto estremi ed emblematici quanto rari di violenza accaduta a due psichiatri e conosciuti l’uno attraverso la cronaca cittadina, l’altro per passaparola tra addetti ai lavori.
1� caso
Psichiatra donna, 29 anni (un anno di anzianità di servizio, appena specializzata). Il paziente è un usciere del tribunale con precedenti ricoveri in regime di T.S.O., affetto da Schizofrenia paranoide con deliri persecutori.
Luogo: ambulatorio del C.S.M.
Antefatto: Visita I. Paziente inquieto emergono spunti persecutori; segnalazione del fatto che il paziente ha scagliato un portapenne a terra e ha rotto sfondandola una porta a vetri (ferendosi superficialmente).
Visita II. lo psichiatra propone un ricovero volontario o T.S.O. il paziente chiede di poter pensare, di andare a casa a prendere alcuni effetti personali. La psichiatra acconsente probabilmente sicura del rapporto terapeutico esistente.
Dopo quattro ore il paziente si presenta per il ricovero con un coltello nascosto nel calzino. Uccide a coltellate la psichiatra.
2� caso
Psichiatra donna, di 45 anni; paziente di 60 anni, affetto da Disturbo Borderline di Personalità con abuso di alcool.
Nell’ambulatorio di un C.S.M. alla imposizione di una somministrazione di farmaco depot picchia selvaggiamente la psichiatra, che viene ricoverata in coma; esito in cecità monolaterale permanente e afasia.
Conclusioni
Il nostro scopo era affrontare lo spinoso problema del rischio professionale di chi opera in ambito psichiatrico, valutarne senza pregiudizi la consistenza e le possibili prospettive rispetto alla prevenzione.
Il rilievo epidemiologico e i due casi riportati ci hanno portato ad individuare alcuni fattori di rischio di pendenti dal paziente, altri dipendenti dal terapeuta (punto i), altri ancora dalla sicurezza del luogo dell’intervento.
Crediamo che un’azione preventiva efficace debba tenere conto di tutti questi fattori riconoscendo la necessità di luoghi pensati ed attrezzati per la psichiatria, di una formazione specifica rispetto all’urgenza e agli atti violenti (26) (42) ma soprattutto di una preparazione tecnica all’operare psichiatrico, imprescindibile da una formazione personale e culturale che permetta a chi cura e accudisce di prendere le distanze dal formalismo scientifizzante o ablativo, inevitabile causa di errori terapeutici, e lo avvicini alle proprie istanze aggressive permettendo di superarne il disagio che da esse deriva.
Fig. 1. Aggressioni subite.
Number of aggressions suffered.
Fig. 2. Aggressioni nelle diverse figure professionali.
Aggression suffered by different kind of mental health professionals.
Fig. 3. Aggressione agli psichiatri secondo gli anni di attività.
Number of aggressions suffered by psychiatrists in different age classes.
Fig. 4. Aggressione agli psichiatri secondo gli anni di attività.
Number of aggressions suffered by psychiatrists in different age classes.
Fig. 5. Luogo dell�aggressione.
Place where the aggression has been suffered.
Fig. 6. Tipologia dell�aggressione.
Type of aggression.
Fig. 7. Diagnosi dell�aggressore.
Diagnosis of patients who made aggressions.
Fig. 8. Erano presenti altre persone?
Were other people present?
1 Katzenbach J. L�analista. Milano: Mondadori 2003.
2 Andreoli V. La psichiatria è morta. Io donna-Corriere della Sera 03/05/03, pag.278.
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