Key words: Schizophrenia • Prefrontal Cortex • Dopamine • Working Memory • Partial Dopamine Agonists
Correspondence: Dr. Alessandro Bertolino, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari, piazza Giulio Cesare 9, 70124 Bari, Italia – Tel. +39 080 5478572 – Fax: +39 080 5593204 – E-mail: bertolia@psichiat.uniba.it
Sin dalla scoperta che i farmaci antipsicotici bloccano i recettori della dopamina (DA), la gran parte della ricerca sulla patofisiologia e sul trattamento della schizofrenia ha focalizzato la sua attenzione su tale neurotrasmettitore. Di pari passo con le speculazioni e le dimostrazioni delle strutture e dei sistemi neurotrasmettitoriali coinvolti nel disturbo, è diventato sempre più evidente che i farmaci antipsicotici esercitano i loro effetti con meccanismi molto più complessi che il semplice blocco recettoriale dopaminergico. Ormai molteplici evidenze sperimentali e cliniche hanno suggerito la possibilità che, nella fisiopatologia della schizofrenia, l’alterazione fondamentale della dopamina sia una disregolazione del suo rilascio, postulando l’esistenza di ipodopaminergia prefrontale ed iperdopaminergia sottocorticale in reciproca relazione. Sebbene questa rivisitazione dell’ipotesi dopaminergica sia essa stessa, probabilmente, riduzionistica ed assolutamente non in grado di spiegare la complessità dei circuiti neurali associati al disturbo, essa ha tuttavia il merito di aver dato impulso alla ricerca di nuovi approcci farmacologici che tenessero conto di tale complessità recettoriale, neurotrasmettitoriale e neurale.
Rilascio tonico e fasico della dopamina
È stato proposto che la trasmissione dopaminergica a livello dello striato si realizzi in due differenti modalità temporali (1) (2). Un rilascio fasico, che consiste nella liberazione di dopamina (DA) a livello delle terminazioni sinaptiche durante un potenziale d’azione (ed associato all’entrata di calcio nel terminale sinaptico), che è transitorio ed influenza selettivamente i recettori che sono all’interno o vicino la sinapsi (3) (4) e sembra essere associato a stimoli a rilevanza comportamentale. Il livello della dopamina fasica, che si stima raggiungere concentrazioni sinaptiche dell’ordine di un basso range millimolare (1,6 mmol/L nel nucleo accumbens) (5), dipende primariamente dall’attività delle cellule dopaminergiche ed aumenta in maniera significativa quando i neuroni dopaminergici si attivano. La dopamina fasica rilasciata si lega rapidamente ai recettori localizzati in prossimità del sito di rilascio e poi viene rapidamente inattivata per uptake o per diffusione. La durata del rilascio di DA e la sua azione a livello delle sinapsi sono molto brevi, ed in normali condizioni di riposo, il rilascio fasico si verifica poco frequentemente ed in maniera asincrona tra gli assoni che innervano le regioni del prosencefalo. Inoltre, sembra che, anche in condizioni normali, i terminali dopaminergici abbiano una riserva di trasmettitore che potrebbe essere potenzialmente rilasciato in condizioni di stimolo. La presenza di questa riserva è coerente con la capacità della DA intracellulare di essere rilasciata in vivo da sostanze quali l’amfetamina. Il rilascio di tale “riserva” di DA può essere richiesto per una trasmissione fasica.
Laddove il rilascio fasico della DA è un evento transitorio circoscritto (che avviene nello spazio sinaptico), i livelli tonici di DA nello spazio extracellulare sono relativamente costanti e strettamente regolati (1) (2). Ciò è evidenziato dal mantenimento di livelli tonici di dopamina extracellulare anche dopo una perdita dell’80% o più dell’innervazione dopaminergica allo striato indotta da tossine dopaminergiche (6) (7). Si ritiene che il glutammato (proveniente soprattutto dalle proiezioni prefrontali) promuova il rilascio tonico di DA nell’ambito dello striato dorsale e del nucleo accumbens (1) (2) (8). Sebbene i livelli tonici di DA nei fluidi extracellulari siano probabilmente troppo bassi (nell’ordine del nanomolare e cioè 4 nmol/L nel nucleo accumbens) (9) per agire in maniera simile alla DA rilasciata dai potenziali d’azione intrasinaptici, tali concentrazioni sono ciononostante adeguate a stimolare recettori presinaptici altamente sensibili in tale regione. Questi includono i recettori D2 presinaptici localizzati sui terminali cortico-accumbens, così come gli autorecettori dopaminergici localizzati presinapticamente sui terminali dopaminergici.
Coerentemente all’esistenza di questi due tipi di rilascio della dopamina, il fulcro centrale dell’ipotesi della disregolazione dopaminergica è che i livelli di DA tonici mediano una inibizione del rilascio di DA spike-dipendente (1) (10). In tale modello, è stato proposto che un evento comportamentale significativo agiscano da stimolo sul burst firing (potenziali d’azione in successione ripetuta) delle cellule DA (11) (12), che poi determinano il rapido ed ampio rilascio fasico di DA nello spazio sinaptico. Al contrario, il basso livello tonico di DA presente nei fluidi extracellulari si pensa sia regolato dalle afferenze glutamatergiche (1) (13), provenienti dalla corteccia prefrontale (PFC), dall’amigdala, e dall’ippocampo (13) (14). Nel suo modello, Grace (15) propone che una distruzione patologica in uno dei sistemi glutamatergici afferenti che innervano l’accumbens (e cioè dall’ippocampo, dall’amigdala, o dalla PFC) possa causare una riduzione dei livelli tonici di DA. Come conseguenza si avrebbe un fallimento del sistema glutamatergico corticale nel regolare la dopamina tonica, con conseguente eccesso di risposta del sistema della dopamina fasica, portando il sistema a rispondere in maniera inappropriata a qualsiasi stimolo anche insignificante. Sebbene sia controversa l’evidenza di una regolazione presinaptica glutamatergica del rilascio della DA (16), studi più recenti (17) suggeriscono che il rilascio di tale neurotrasmettitore possa avvenire attraverso recettori metabotropici glutamatergici. In sintesi, una interruzione patologica degli input glutamatergici da afferenze dei sistemi corticali (e cioè PFC, amigdala, ippocampo) potrebbe essere responsabile di una riduzione della dopamina tonica e di un aumento della responsività del sistema dopaminergico nella schizofrenia (15). Si avrebbe, in definitiva, una potente disinibizione del rilascio fasico di DA e quindi la iperresponsività del sistema DA riportata nella schizofrenia (18)-(22).
È stato quindi ipotizzato che gli insulti ai sistemi corticali responsabili di tale mantenimento omeostatico dei livelli di dopamina tonica, possano comportare un inappropriato processing dell’informazione sensoriale nelle regioni sottocorticali, e di conseguenza, contribuire o essere alla base, di alcuni deficit comportamentali osservati in alcuni disturbi psichiatrici come appunto la schizofrenia (2) (23).
Le basi neuronali della disfunzione corticale prefrontale ed i modelli sperimentali animali di schizofrenia
Ormai una mole considerevole di evidenze, fornite da studi sulle funzioni cognitive (24)-(34), da studi di neuroimaging (35)-(48) e di elettrofisiologia (49)-(53), ha dimostrato che la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) rappresenta un’area principalmente coinvolta nell’alterato funzionamento cerebrale della schizofrenia (54). Le anomalie della DLPFC nella schizofrenia sono associate a ridotta performance in compiti neuropsicologici che valutino la working memory (WM, un costrutto neuropsicologico che descrive un insieme di processi cognitivi coinvolti nel mantenimento e nella manipolazione di un’informazione utile all’esecuzione di uno specifico compito) (55) (56). Studi di imaging funzionale durante l’espletamento di queste funzioni cognitive hanno inoltre dimostrato una riduzione dell’attivazione fisiologica della corteccia prefrontale durante l’espletamento di alcuni compiti neuropsicologici o, al contrario, un’eccessiva attivazione, rispettivamente spiegabili con ridotta capacità di focalizzare il compito neuropsicologico o con una ridotta efficienza ed automaticità del processing dell’informazione.
È naturale chiedersi quale sia il motivo della compromissione di tali funzioni neuropsicologiche, in particolare della WM. Una serie di studi (57) effettuati con spettroscopia con risonanza magnetica (1H-MRS) ha rilevato una riduzione di un marker di integrità neuronale, N-acetil-aspartato (NAA), selettivamente a livello della corteccia prefrontale e dell’ippocampo. Grazie poi alla capacità di questa tecnica di valutare in vivo il significato e la rilevanza che la riduzione di tale marker d’integrità neuronale potrebbe avere, sono emerse una serie di evidenze: in primo luogo, che la capacità di attivare il network corticale di WM era direttamente correlato alle concentrazioni di NAA a livello della DLPFC (ciò vale a dire che minori concentrazioni di NAA sono associate ad una minore attivazione della corteccia prefrontale, parietale e del cingolo, il network corticale sotteso alla WM). In secondo luogo, che le concentrazioni di NAA a livello della DLPFC, avevano un valore predittivo anche sull’iperattivazione a tale livello, così come sulla performance di WM (39) (vale a dire più basso NAA nella DLPFC maggiore iperattivazione della stessa e minore performance). Nell’insieme, tali risultati hanno rappresentato la prima dimostrazione della potenziale origine cellulare neuronale delle anomalie del network di WM, sia in termini di capacità che di efficienza, riscontrato nei pazienti con schizofrenia. In tal senso, i neuroni in DLPFC potrebbero essere considerati gli effettori dei fenomeni riscontrati.
I deficit cognitivi prefrontali, soprattutto di WM, sono stati correlati anche con i sintomi negativi (58) e, forse, sono parzialmente associati con la compromissione delle funzioni prefrontali (28) (59). Infatti Callicott et al. (60) hanno riscontrato che l’NAA a livello della DLPFC correla inversamente con i sintomi negativi (e cioè minori concentrazioni di NAA sono associate a più marcati sintomi negativi).
Ma se la patologia dei neuroni prefrontali può essere associata a disfunzioni del network corticale di WM, qual è il suo effetto sulla putativa disregolazione dopaminergica? Studi in animali hanno chiaramente dimostrato che i neuroni prefrontali glutamatergici inviano proiezioni eccitatorie ai neuroni dopaminergici dell’area ventrale tegmentale del mesencefalo. A loro volta, questi stessi neuroni mandano proiezioni dopaminergiche inibitorie sugli stessi neuroni prefrontali, costituendo in tal modo un circuito a feedback che si autoregola (61). Una serie di studi sugli animali ha anche poi mostrato che la stimolazione o l’inibizione del funzionamento della corteccia prefrontale modula la frequenza di scarica del firing dei neuroni subcorticali, così come il rilascio di dopamina (4) (62). Il meccanismo di regolazione è complesso, coinvolge proiezioni dirette ed indirette dalla corteccia al mesencefalo ed allo striato. Tale feedback è esercitato principalmente attraverso efferenze glutamatergiche dalla PFC (63). Coerentemente a questi studi, anche nell’uomo, una alterazione della neurotrasmissione glutamatergica indotta con ketamina (che induce blocco dei recettori glutamatergici NMDA), determina un aumentato rilascio di dopamina indotto da amfetamina a livello dello striato (64).
Il fatto, quindi, che le anomalie della fisiologia corticale e la disregolazione dopaminergica siano state studiate per decenni come fenomeni fisiopatologici separati e non come potenzialmente legati ad un “cuore” neuropatologico cellulare ha rallentato la comprensione dei fenomeni fisiopatologici associati alla schizofrenia. Negli animali da esperimento, tale possibilità ha trovato anche un suo sviluppo in un modello di alterato neurosviluppo della corteccia prefrontale basato su una disconnessione con l’ippocampo ventrale. Un danno operato a tale livello, in epoca neonatale, causa un’alterazione del neurosviluppo della corteccia prefrontale. Alcune delle modificazioni cellulari e comportamentali che ne conseguono, incluso una compromissione sociale (65) e deficit di WM (66), mimano quelli riscontrati in pazienti con schizofrenia. Analoghe alterazioni non si riscontrano in animali con lesione ippocampale indotta in età adulta, a dimostrazione che la conseguenza di un danno provocato in età neonatale non determina una semplice perdita di input, ma piuttosto un cambiamento nella plasticità dello sviluppo della corteccia prefrontale.
La relazione tra la patologia neuronale prefrontale e l’attività dopaminergica a livello del troncoencefalo è stata ulteriormente studiata in un modello di scimmie con patologia dello sviluppo prefrontale dorsolaterale, indotta dalla rimozione della corteccia temporolimbica mesiale (incluso l’ippocampo). Rispetto ad animali di controllo, senza lesione o con lesione indotta in età adulta, il gruppo sperimentale aveva una riduzione dell’NAA, valutata con 1H-MRS soltanto a livello della DLPFC e non in altre regioni. Inoltre, il segnale di NAA solo a livello della DLPFC prediceva, a livello dello striato, sia il rilascio basale che il rilascio indotto da stimolo della DA, e la direzione della relazione era invertita (e cioè in condizioni di steady-state, più bassi livelli di NAA in DLPFC predicevano un minore rilascio di DA, laddove dopo stimolazione prefrontale con amfetamina, più bassi livelli di NAA predicevano un più elevato rilascio di DA sempre a livello dello striato) (67).
Negli animali adulti si producono, quindi, cambiamenti coerenti con un’aumentata attività del sistema dopaminergico del nucleo accumbens-striato e disfunzioni della corteccia prefrontale (68). Coerentemente con l’esagerata reazione comportamentale degli animali con la lesione dell’ippocampo esposti a farmaci dopamino-agonisti e a stress, i risultati di recenti studi elettrofisiologici in ratti adulti con lesione neonatale dell’ippocampo ventrale hanno dimostrato che i neuroni del nucleo accumbens e della corteccia prefrontale rispondono ad una attivazione dell’area ventrotegmentale (VTA) con un anomalo firing (69) (70). Quindi, i cambiamenti comportamentali associati con la lesione neonatale dell’ippocampo ventrale, e la reversibilità degli stessi dopo la somministrazione di antipsicotici suggeriscono che il sistema dopaminergico subcorticale è iperattivo negli animali adulti che hanno subito tale lesione, che il sistema dopaminergico corticale (soprattutto prefrontale) è ipoattivo, e che la corteccia prefrontale contribuisce in maniera determinante a questa disregolazione.
La disregolazione dopaminergica corticale e sottocorticale
L’importanza del sistema dopaminergico nella patofisiologia della schizofrenia è stata suggerita dal legame che si è riscontrato tra l’efficacia antipsicotica dei neurolettici e la loro affinità per il recettore dopaminergico D2. Inoltre, come abbiamo già accennato, le disfunzioni della corteccia prefrontale in tale disturbo sono state postulate ormai da lungo tempo, sin da quando si è giunti ad una più moderna concettualizzazione della patofisiologia della schizofrenia. Gli studi di neuroimaging e le ricerche di base hanno fornito quindi, ampie evidenze circa le disfunzioni intuite in entrambi i sistemi coinvolti nella patofisiologia del disturbo.
Una questione cruciale è stata, ed è, se e come tali fenomeni patofisiologici interagiscano.
Per una migliore comprensione delle correlazioni anatomiche e funzionali esistenti tra i due sistemi, ricordiamo, molto brevemente e schematicamente, che esistono delle correlazioni tra i terminali della PFC e tra le proiezioni mesoprefrontali, meso accumbens e dei neuroni dell’area ventrotegmentale (VTA). Più in dettaglio, una piccola popolazione di terminali della PFC instaura contatti sinaptici con i neuroni dopaminergici che proiettano a loro volta alla PFC, finendo per costituire un circuito in cui i due sistemi si regolano a vicenda. Altri terminali, sempre a partenza dalla PFC, formano sinapsi su neuroni GABAergici che proiettano al nucleo accumbens. La gran parte poi dei terminali della PFC che arrivano alla VTA pare che abbiano come loro bersaglio neuroni dopaminergici e GABAergici che proiettano a loro volta su siti di bersaglio ancora sconosciuti. È anche possibile, però, che i terminali della PFC proiettino su neuroni della VTA che non siano né di tipo dopaminergico né di tipo GABAergico (61).
In animali in condizioni sperimentali, un ridotto signaling dopaminergico nella corteccia prefrontale conduce ad un’aumentata risposta a stimoli quali lo stress a livello delle proiezioni subcorticali dei neuroni dopaminergici mesencefalici (71)-(73). La tesi, quindi, che neuroni mesencefalici dopaminergici iperattivati potrebbero rappresentare un effetto “a valle” di anomalie della funzione prefrontale, è stata proposta come spiegazione per la coesistenza di alterazioni dopaminergiche sia a livello corticale che subcorticale (15) (47) (59) (71).
Coerentemente a questi studi nell’animale, Bertolino et al. (74) (75), sempre con l’utilizzo della 1H-MRS, hanno evidenziato che la patologia dei neuroni che inviano proiezioni dalla corteccia prefrontale ha un effetto sull’attività dei neuroni dopaminergici del troncoencefalo e può determinare l’anomala risposta dei neuroni dopaminergici sia in condizioni basali che in seguito a stimoli quali l’amfetamina. In particolare, più i neuroni prefrontali erano patologici, minore era il rilascio basale di dopamina, ma maggiore quello in seguito a stimolo farmacologico con anfetamina. Questi studi sono coerenti con l’ipotesi che i neuroni prefrontali possano essere gli effettori della disregolazione bidirezionale della dopamina (ridotta in corteccia prefrontale in condizioni basali ed esagerata in aree sottocorticali successivamente a stimolazione). Ancora, Meyer-Lindenberg et al. (76), in uno studio PET in pazienti con schizofrenia ed in soggetti sani di controllo, hanno dimostrato che la misurazione di un indice dell’attivazione neuronale, e cioè l’aumento del flusso ematico cerebrale durante l’espletamento di un task che coinvolge circuiti prefrontali quali il Wisconsin Card Sorting Test (WCST), è strettamente associato con la costante di uptake della dopamina (Ki) a livello dello striato nei pazienti, ma non nei controlli. Quindi, come previsto, la minore attivazione riscontrata in DLPFC, e l’aumentato incremento anomalo della Ki hanno dimostrato una stretta associazione tra la disfunzione corticale e quella dopaminergica nella schizofrenia. La stretta correlazione osservata fornisce ulteriori evidenze che l’esistenza di una disfunzione primaria della corteccia prefrontale conduce ad una disregolazione dopaminergica bidirezionale.
I contributi della genetica
Gli approcci utilizzati per studiare le determinanti poligeniche della risposta farmacologica nei maggiori disturbi psichiatrici includono la ricerca a tappeto di SNPs (Single Nucleotide Polymorphism) sull’intero genoma, oppure la strategia dei geni candidati (che si basa sulla conoscenza del meccanismo d’azione di un farmaco e dei pathway del metabolismo e della disponibilità dello stesso) nell’ambito dello studio dei fenotipi intermedi. Questi ultimi sono anomalie biologiche misurabili e stabili, che hanno una chiara base patofisiologica e che sono rappresentati da tratti biologici cognitivi, di neuroimaging ed elettrofisiologici e che costituiscono, in definitiva, un passo biologico intermedio nel percorso eziologico che conduce dalla suscettibilità genetica ai fenomeni patofisiologici che sottendono le sindromi cliniche.
Un fenotipo ormai ampiamente utilizzato nello studio della schizofrenia è proprio la WM. Come abbiamo più volte ricordato, la corteccia prefrontale, poi, ha un ruolo chiave nelle performance di un task di WM sia negli animali che negli uomini (56) (77). Una serie di studi ha anche evidenziato che esiste un intervallo fisiologico di dopamina sinaptica che regola l’attività dei neuroni prefrontali corticali durante la WM (78) (79). L’eccessiva facilitazione o inibizione del signaling della dopamina sembra determinare performance di WM ridotte (78). Quindi, se la modulazione dell’attività neuronale corticale prefrontale rappresenta un fattore importante nel processing dell’informazione a tale livello, è ragionevole ipotizzare che un polimorfismo genetico, che potrebbe avere un impatto sui livelli della dopamina a livello della corteccia prefrontale, possa avere un effetto sulla fisiologia della stessa (54). Tale ipotesi è stata testata nei termini del gene che codifica la Catecol-O-Metil-Transferasi (COMT), l’enzima postsinaptico che catabolizza la dopamina a livello della corteccia prefrontale, determinando la metilazione della dopamina nell’ambito della cascata metabolica che produce il metabolita terminale inattivo acido omovanillico. Recenti evidenze (54) suggeriscono che la COMT rappresenti un interessante gene candidato proprio per il suo impatto sulla funzione dopaminica prefrontale. Infatti, un polimorfismo funzionale del gene COMT modula i livelli sinaptici di dopamina a tale livello, per cui gli individui omozigoti per l’allele val, caratterizzato dalla presenza di valina in una specifica posizione della sequenza peptidica, inattivano più velocemente la dopamina (inattivatori rapidi), mentre gli omozigoti per l’allele met, meno rapidamente (inattivatori lenti), con maggiore disponibilità del neurotrasmettitore a livello prefrontale, gli eterozigoti val/met in maniera intermedia. Diverse evidenze hanno rilevato l’impatto del polimorfismo sulle performance neuropsicologiche di WM nei pazienti con schizofrenia (80). Coerentemente a questo studio ampiamente replicato da diversi gruppi di ricerca, è stato recentemente dimostrato in campioni autoptici di soggetti sani (81) che il genotipo COMT influenza l’espressione del gene Tirosina idrossilasi (TH: l’enzima limitante della biosintesi della dopamina) nei neuroni mesencefalici dopaminergici e presumibilmente la biosintesi di dopamina a tale livello. Tali risultati, sulla base dell’evidenza che i livelli di dopamina nella corteccia prefrontale e nello striato sono inversamente correlati, hanno condotto gli Autori ad ipotizzare un affascinante modello in cui un ridotto signaling dopaminergico, causato dall’allele val, (che implica una minore disponibilità di dopamina a livello prefrontale) determinerebbe, viste le connessioni anatomico-funzionali, un minore feedback corticofugale e quindi una minore inibizione tonica, attraverso proiezioni prefrontali indirette mediate da vie gabaergiche ad attività inibitoria, dei neuroni mesencefalici dopaminergici che poi proiettano allo striato (visto che si riscontra un aumento dell’mRNA della TH a livello mesencefalico), e quindi una upregulation dell’attività dopaminergica striatale. Ovviamente è tutta da dimostrare la presenza ed il funzionamento di tali neuroni GABA.
Di recente, sono stati introdotti nella farmacoterapia della schizofrenia dei nuovi antipsicotici, i cosiddetti “atipici”, che sembrano essere più efficaci nel trattamento dei sintomi negativi e dei deficit cognitivi. L’atipicità di questi farmaci potrebbe risiedere in diverse loro proprietà farmacodinamiche, che comprendono la possibilità di aumentare il rilascio di dopamina nella corteccia prefrontale (82). Se il rilascio di DA è influenzato dal polimorfismo COMT, è possibile ipotizzare che effetti terapeutici differenziali del trattamento con un antipsicotico di seconda generazione potrebbero essere associati con tale polimorfismo.
Utilizzando un approccio simile, abbiamo recentemente condotto uno studio in pazienti con schizofrenia per valutare gli effetti del genotipo COMT sulle variazioni nella sintomatologia, nelle performance di WM, e sulla fisiologia della corteccia prefrontale in risposta al trattamento con olanzapina (83). I pazienti sono stati inclusi in uno studio prospettico della durata di otto settimane di trattamento con olanzapina e genotipizzati per le varianti val/met del genotipo COMT. Si è riscontrata una interazione significativa tra il genotipo COMT e l’effetto dell’olanzapina sulla funzione della corteccia prefrontale, nel senso che il carico dell’allele met prediceva il miglioramento delle performance di WM, della fisiologia della corteccia prefrontale e dei sintomi negativi dopo otto settimane di trattamento. Lo studio ha dimostrato che una variazione geneticamente determinata nel catabolismo prefrontale della dopamina influenza il profilo terapeutico dell’olanzapina. L’effetto del genotipo COMT potrebbe influenzare la risposta a tutti gli antipsicotici che agiscono con questo meccanismo d’azione.
Il profilo degli antipsicotici di nuova generazione
La condizione di iperdopaminergia, ritenuta responsabile nell’ambito mesolimbico, almeno in parte (e certamente in maniera riduttiva), della sintomatologia positiva, costituisce il razionale dell’utilizzo degli antipsicotici di prima generazione. Infatti, il blocco dei recettori dopaminergici (prevalentemente di tipo D2), sebbene sia ritenuto l’evento cruciale per l’efficacia antipsicotica, è tuttavia responsabile degli effetti collaterali. L’introduzione degli antipsicotici di seconda generazione (i cosiddetti “atipici”) ha costituito sicuramente un progresso nel trattamento farmacologico della schizofrenia. Questi farmaci si caratterizzano per una minore comparsa di effetti collaterali di tipo extrapiramidale e per un minor rischio di comparsa di discinesie tardive in confronto agli antipsicotici di prima generazione o tipici. Alcuni studi hanno attribuito il miglior profilo di tollerabilità degli atipici all’azione antagonista sui recettori serotoninergici 5HT2A-2C ed all’azione antagonista o di parziale agonismo sui recettori 5HT1A (84). Alcuni autori hanno anche proposto che la costante di dissociazione di questi antagonisti sui recettori dopaminergici possa determinare la fondamentale “atipicità” di tali molecole, sottolineando che, durante il blocco recettoriale, maggiore è il tempo in cui il recettore può essere stimolato dalla DA endogena, minore è il rischio di effetti collaterali (85). Fondamentale poi, per il trattamento dei deficit cognitivi e dei sintomi negativi, sembra essere la loro capacità di aumentare il rilascio di DA a livello della PFC (83) (86) (87) in confronto ad i vecchi antipsicotici.
Un nuovo approccio farmacologico alla disregolazione dopaminergica della schizofrenia è rappresentato dall’utilizzo di molecole con attività di agonismo parziale dopaminergico. A tal proposito, è utile chiarire alcuni concetti teorici alla base di questi nuovi farmaci.
Ruolo degli autorecettori
I neuroni dopaminergici contengono dei recettori D2e D3 che sono sensibili al neurotrasmettitore endogeno DA e ad i suoi agonisti, la cui funzione è quella di regolare la sintesi e la liberazione di DA (88). Tali autorecettori dopaminergici, quando stimolati, riducono l’attività della tirosina idrossilasi e modulano la liberazione di DA nello spazio sinaptico, diminuendo, di conseguenza, l’attività elettrica del neurone dopaminergico (89)-(91).
AffinitÀ ed attività intrinseca
L’affinità è la probabilità di una sostanza farmacologica di legarsi ad un recettore libero ad ogni istante. L’efficacia intrinseca di un farmaco è quella proprietà, intrinseca appunto, che impartisce un segnale biologico al recettore del farmaco (ed alla sua cellula) tale da provocare una risposta biologica. Quindi, l’affinità condiziona il legame del farmaco con il recettore, mentre l’efficacia (o attività) intrinseca determina che cosa fa quel farmaco una volta legato a quel recettore (92).
Agonisti parziali
La strategia di utilizzare un agonista parziale come agente antipsicotico, si basa su una serie di aspetti farmacologici. I recettori della DA posseggono, come abbiamo già accennato, degli autorecettori, sensibili alla stessa DA e ad i suoi agonisti e questi funzionano in maniera tale da ridurre la sintesi ed il rilascio di DA nonché nel ridurre il firing neuronale in determinate condizioni.
Si definiscono agonisti completi i composti con un’elevata attività intrinseca, che quindi si comportano come agonisti su tutti i recettori, sia su quelli postsinaptici che sugli autorecettori (93) (94). In tal caso, la discriminante può essere solo la diversa affinità per gli autorecettori ed i recettori postsinaptici che, grazie all’uso di dosi differenti, può consentire un’azione selettiva. Invece vengono definiti agonisti parziali quei farmaci che hanno un’affinità elevata, ma una limitata attività intrinseca.
Gli agonisti parziali manifestano una variabile attività intrinseca a livello delle differenti popolazioni di recettori. Carlsson (95) ha proposto che il grado di attività intrinseca, mostrato da un agonista parziale a livello di una specifica popolazione recettoriale, dipende dal grado di occupazione da parte dell’agonista usuale sul recettore (ad es. del recettore dopaminergico) proprio in quella sede. Quindi, diversamente dagli agonisti completi, gli agonisti parziali possono comportarsi sia da agonisti che da antagonisti, in relazione al tipo di recettore ed alla concentrazione locale del neurotrasmettitore endogeno. Laddove un agonista completo riduce i livelli, la sintesi ed il rilascio di DA in condizioni basali, l’agonista parziale riduce soltanto la sintesi ed il rilascio di DA in condizioni di concentrazioni basali elevate. A livello del recettore postsinaptico, soprattutto in quei siti in cui le concentrazioni endogene di DA sono elevate, l’agonista parziale si comporta caratteristicamente come un antagonista e cioè si lega al recettore postsinaptico, senza però avere la piena attività intrinseca della DA, ma inducendo un minore segnale post-sinaptico.
Ricapitolando, gli agonisti parziali hanno completa affinità, ma ridotta attività intrinseca a livello dei recettori postsinaptici della DA, di conseguenza esercitano una stimolazione relativamente più bassa in confronto al neurotrasmettitore naturale, comportandosi perciò da antagonisti. In conclusione, possono comportarsi da agonisti a livello degli autorecettori e possono comportarsi da antagonisti a livello postsinaptico bloccando la DA a seconda della concentrazione del neurotrasmettitore endogeno.
Aripiprazolo
Aripiprazolo è un nuovo antipsicotico che possiede un’unica combinazione di affinità di legame e di attività (96). Studi preclinici hanno evidenziato un’attività di agonista parziale a livello dei recettori D2 (97) (98). Studi preclinici hanno anche dimostrato che aripiprazolo ha un’attività D2 antagonista in condizioni di iperdopaminergia, che è probabilmente associata al controllo dei sintomi psicotici positivi, mentre ha attività D2 agonista in condizioni di ipodopaminergia, attività che è probabilmente responsabile del miglioramento dei sintomi negativi e cognitivi, ed è probabilmente in grado di minimizzare i sintomi extrapiramidali (EPS) e le modificazioni della prolattinemia. Si ritiene che l’attività di agonismo parziale a livello dei recettori D2 stabilizzi il sistema dopaminergico evitando di incorrere in una situazione di ipodopaminergia che può limitare la tollerabilità degli attuali antipsicotici (99)-(101). Aripiprazolo è anche un potente agonista parziale a livello dei recettori serotoninergici 5-HT1A (102) ed un antagonista a livello del recettore 5HT2A. L’agonismo parziale sui 5-HT1A è stato legato all’azione ansiolitica (103), e può anche essere associato al miglioramento della sintomatologia depressiva, cognitiva e negativa riscontrabile nei pazienti con schizofrenia (104) (105), con il miglioramento della sfera cognitiva, nonché con il controllo dell’agitazione e dell’aggressività (106) (107) e con la scarsa suscettibilità alla comparsa degli EPS (108). Negli studi clinici il farmaco si è dimostrato efficace nel trattamento dei pazienti con episodio psicotico acuto sia con diagnosi di schizofrenia che di disturbo schizoaffettivo. È stato dimostrato che aripiprazolo è in grado di migliorare sia i sintomi positivi che negativi della schizofrenia, ha manifestato un profilo di sicurezza e tollerabilità con una bassa suscettibilità alla comparsa di EPS, di discinesia tardiva, di incremento di peso, di sedazione, di iperprolattinemia, di prolungamento del QTc ed un’assenza di effetti avversi sui livelli del glucosio e dei lipidi (109)-(112).
In base alle considerazioni finora esposte, l’utilizzo di composti dopamino-agonisti parziali appare un’ulteriore risorsa terapeutica nel trattamento farmacologico della schizofrenia ed eventualmente in altri disturbi nei quali una disregolazione del sistema dopaminergico è stata ipotizzata, ed almeno in parte documentata. I meccanismi patofisiologici di iper- e ipo-dopaminergia che sarebbero alla base della schizofrenia, sebbene non completamente in grado di spiegare la complessità del disturbo, sembrerebbero giustificare il ricorso a tale nuovo composto farmacologico.
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