Key words: Borderline Personality Disorder • Psychobiology • Brain Dysfunctions • Pharmacotherapy • Drug abuse • Addictions • Dyshedonia
Correspondence: Dr. Vincenzo Manna, via Quintilio Varo 133 D2, 00174 Roma – Tel. +39 6 71584135 – Fax +39 178 2259805 – E mail: vi.manna@tiscali.it
Introduzione
Nelle società occidentali, secondo recenti studi epidemiologici, il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) presenta tassi di prevalenza, morbilità e mortalità in rapido aumento. Alcuni studi hanno evidenziato che la prevalenza del DBP, nella popolazione generale, raggiunge il 1,8%, superando la prevalenza della stessa schizofrenia (1). I pazienti con DBP rappresentano un’elevata percentuale dei soggetti per i quali sono richieste ed effettuate consulenze psichiatriche. Secondo alcuni studi osservazionali, essi rappresentano il 11% dei pazienti ambulatoriali e, in alcune strutture psichiatriche, il 23% dei pazienti ricoverati (2). In uno studio su pazienti con DBP, circa la metà del campione aveva fatto ricorso ad un servizio ambulatoriale di salute mentale, nei sei mesi precedenti l’indagine, e il 19,5% era stato ricoverato, in una struttura psichiatrica, nell’anno precedente (1). La sintomatologia psicopatologica manifestata dai soggetti con DBP, in genere, appare significativamente invalidante. In un campione di pazienti con DBP, ricoverati consecutivamente presso l’Università di Pittsburgh, il 62,2% aveva avuto, in passato, condotte suicidarie e circa il 50% aveva avuto altri comportamenti autolesivi. Il numero di pazienti con DBP che si era ucciso variava tra il 3% e il 9,5% della popolazione di pazienti trattati, una percentuale simile a quell’evidenziata nei soggetti affetti da disturbi depressivi o da disturbi psicotici (3). Nonostante l’evidente necessità di sviluppare trattamenti adeguati, a tutt’oggi, non è stata definita univocamente una terapia specifica ed efficace per la labilità affettiva o il comportamento impulsivo dei pazienti con DBP.
L’approccio interpretativo ai disturbi di personalità, nella storia della psichiatria, soprattutto di quella clinico-descrittiva, è stato caratterizzato da un implicito riconoscimento del prevalere, nella loro genesi, dei fattori costituzionali, con un conseguente atteggiamento non interventista, sul piano terapeutico (4). Dal punto di vista di Jaspers (5), che privilegiava la “singola diagnosi” e la “priorità diagnostica dei sintomi”, la diagnosi di “personalità psicopatica” poteva essere formulata solo in assenza di una psicosi funzionale o di una sindrome psico-organica. Schneider (6) ha ulteriormente stressato l’importanza etiologica dei fattori costituzionali, nella genesi dei disturbi di personalità, con una conseguente limitata potenzialità terapeutica dei trattamenti. Per decenni, perciò, poca attenzione è stata dedicata, da parte degli psichiatri clinici, ai disturbi di personalità. Negli ultimi tempi la diagnostica multiassiale, proposta dal DSM (7)-(9) che ha distinto le sindromi cliniche (Asse I) dai disturbi di personalità (Asse II), ha indotto la formulazione di diagnosi complesse, stimolando l’interesse di clinici e ricercatori, sul piano etiopatogenetico e terapeutico, per i disturbi di personalità (10)-(12).
Dopo un lungo dibattito teorico, protrattosi per decenni, la terapia farmacologica del DBP è entrata, solo di recente, a pieno titolo, nell’ambito della ricerca clinico-scientifica. L’ipotesi che il paziente con DBP presenti aspetti neurobiologici di vulnerabilità, soprattutto evidenti nelle aree della labilità affettiva e del comportamento impulsivo, è stata ripetutamente confermata da studi metodologicamente corretti, apparsi nella letteratura scientifica internazionale (4).
Sino a pochi anni fa, infatti, ai fattori ambientali e psicoeducazionali era data una forte rilevanza nell’etiopatogenesi del DBP e privilegiato, di conseguenza, l’approccio psicoterapeutico. Da un lato, numerosi e recenti studi hanno evidenziato, nella genesi del disturbo borderline, l’importanza del ruolo svolto da diversi fattori neurobiologici, dall’altro, numerose osservazioni cliniche hanno sottolineato le difficoltà, talora insuperabili, che il trattamento psicoterapeutico di questi pazienti presenta. Inoltre, considerata la gravità dei sintomi presentati dai pazienti borderline, non sorprende che un’alta percentuale di loro, in condizioni di ricovero (84-87%) (13) o durante i trattamenti ambulatoriali (63%) (14), assuma psicofarmaci.
Nella genesi dei sintomi disadattivi, propri del DBP, la ricerca neuro-biologica ha evidenziato il ruolo svolto dalla vulnerabilità connessa ad eventi traumatici precoci (abusi fisici e/o sessuali) (15), nonché dalla vulnerabilità correlata a specifiche alterazioni neurotrasmettitoriali e neuropeptidergiche centrali (10) (16) (17).
Nel DBP si possono evidenziare e distinguere dimensioni psicopatologiche e cluster sintomatologici maggiormente connessi ad aspetti interpersonali o maggiormente correlati a fattori neurobiologici. Sintomi quali relazioni instabili, disturbi dell’identità, sentimenti di vuoto e di noia, intolleranza alla solitudine, sembrano più facilmente trattabili mediante l’uso di strumenti terapeutici, di tipo psico-sociale. Alcune altre dimensioni psicopatologiche, maggiormente correlate ad alterazioni neurobiologiche, quali affettività instabile, discontrollo impulsivo, distorsioni cognitivo-percettive, sono più facilmente correggibili con l’utilizzo d’opportuni trattamenti psicofarmacologici. Naturalmente, questa correlazione lineare tra sintomi psicogeni e trattamento psico-terapeutico, così come la correlazione tra ruolo della neurobiologia nella genesi degli altri sintomi e la loro correzione farmacologica rappresenta solo un’ipersemplificazione del reale, utile esclusivamente a fini pragmatici. La concettualizzazione di una separazione netta tra aspetti psicopatologici psicologicamente e biologicamente determinati è, per sua natura, un’approssimazione molto grossolana alla realtà. Nell’ambito neuro-biologico, altrettanto semplicistico è considerare l’esistenza di una correlazione diretta e lineare tra le funzioni svolte da un determinato neurotrasmettitore e uno specifico quadro sintomatologico: la funzione dopaminergica correlata funzionalmente ai sintomi psicopatologici percettivo-cognitivo-ideativi; il tono noradrenergico e serotoninergico centrale direttamente coinvolto nella genesi dei disturbi affettivi; i sintomi impulsivo-aggressivi correlati funzionalmente al tono serotoninergico; i sintomi ansiosi correlati al tono GABAergico. Queste ipersemplificazioni hanno un valore prevalentemente comunicativo e pragmatico, pur basandosi su evidenze cliniche e sperimentali multiple.
La farmacoterapia del DBP, ma forse l’approccio psico-farmacologico alla psichiatria in toto, trova in queste correlazioni funzionali un importante strumento d’orientamento della prassi terapeutica, ma, anche un importante strumento di conoscenza dei meccanismi neurobiologici sottesi al comportamento umano, sano e patologico, spesso investigati proprio grazie all’interpretazione dei risultati clinici ottenuti col trattamento farmacologico. Non mancano, ovviamente, rilievi critici alla concettualizzazione di una diretta corrispondenza tra dimensioni psicobiologiche e risposte cliniche alla farmacoterapia. La farmacoterapia del DBP ha dei limiti intrinseci. Il trattamento psicofarmacologico ha effetti clinici di modesta entità, sebbene significativi sul piano statistico (18). Solo una minoranza di pazienti borderline (15%) presenta un miglioramento sensibile, dei sintomi nucleari del disturbo, dopo adeguato trattamento farmacologico. I pazienti ricoverati sono quelli più frequentemente trattati con farmaci, ma anche quelli che mostrano i miglioramenti più evidenti. Ciò è stato diversamente interpretato. L’uso più diffuso e incisivo di farmaci, in questi pazienti, può dipendere dalla maggior gravità ed acuzie della sintomatologia oppure dalla presenza di una comorbidità con altri disturbi d’Asse I (DSM-IV). I migliori effetti clinici della farmacoterapia possono derivare anche dal setting terapeutico maggiormente strutturato, anche in senso relazionale ed interpersonale, che il ricovero comporta. Nei pazienti ambulatoriali, spesso con sintomatologia meno invalidante e con minore comorbidità per disturbi d’Asse I gli effetti curativi della farmacoterapia sono meno evidenti.
Numerose e condivisibili critiche d’ordine metodologico sono state rivolte a molti degli studi presenti in letteratura scientifica, sulla farmacoterapia del DBP (14). In molti di questi studi non è stato adottato un gruppo di controllo, trattato con placebo. La mancata valutazione in cieco non autorizza ad interpretare gli effetti terapeutici registrati dopo il trattamento, come conseguenti all’azione del farmaco, anziché al contesto relazionale interpersonale, alla durata dello studio nel tempo o alla semplice e costante attenzione rivolta dai medici al paziente ed ai suoi sintomi. Non è agevole valutare criticamente, nei soggetti con DBP, la reale efficacia di un farmaco. Questi pazienti, infatti, tendono a riferire in modo strumentale gli effetti del trattamento, al fine di manipolare la comunicazione interpersonale, e, quindi, condizionare i vissuti e le risposte comportamentali del terapeuta. La scarsa numerosità dei campioni studiati e la loro eterogeneità sintomatologica, in parte conseguente all’adozione di criteri diagnostici diversi tra loro e non sovrapponibili, in parte secondaria alle caratteristiche polimorfe della stessa sintomatologia borderline, spesso non permette di generalizzare i risultati ottenuti nei diversi studi.
Il trattamento del disturbo borderline di personalità: significati e limiti
Le molteplici problematiche ancora aperte nella ricerca clinica di un trattamento efficace del disturbo borderline di personalità sono sostanzialmente analoghe a quelle presenti, in modo più o meno evidente, nel trattamento di qualsiasi altro quadro psicopatologico, in psichiatria.
Tra le principali questioni identificate e trattate in letteratura scientifica, meritano di essere evidenziate alcune, che riportiamo qui di seguito, sinteticamente.
La diagnosi in psichiatria, diversamente da ciò che avviene in ogni altra disciplina medica, è sempre una descrizione sindromica, convenzionalmente definita e condivisa. Le entità nosografiche, in psichiatria, anche quelle definite con criteri diagnostici chiari e rigorosi, in sistemi tassonomici largamente condivisi, come il DSM-IV, restano sindromi cliniche, sulla cui omogeneità etiopatogenetica e fisiopatologica poco è ancora conosciuto, in termini propriamente scientifici. Se ogni quadro patologico, in psichiatria, resta sempre e solo una descrizione sindromica, che senso ha parlare di comorbidità tra quadri clinici d’Asse I e quadri clinici d’Asse II? Il sovrapporsi di questi diversi quadri clinici potrebbe rappresentare non una comorbidità propriamente detta, la presenza in altre parole di quadri morbosi diversi, con diversa etiologia, patogenesi e fisiopatologia, ma semplicemente una diversa aggregazione di sintomi clinici semplici, in quadri sindromici diversi, convenzionalmente definiti. Nessuna descrizione sindromica tende ad essere per sua natura un’entità omogenea sul piano etiopatogenetico. Così, se il disturbo borderline non è un’entità omogenea ma è una sindrome, definita da criteri politetici che includono manifestazioni con sintomi multipli e diversi, lo stesso potrebbe dirsi d’ogni altra diagnosi psichiatrica (19).
Nello stesso quadro sindromico, la risposta allo stesso trattamento farmacologico può variare sensibilmente, tra soggetti diversi, in base al pattern di sintomi clinici semplici presenti, indipendentemente dalla diagnosi nosografica. La “farmacoterapia del disturbo borderline” rappresenta, perciò, una dizione impropria, dato che non si tratta il disturbo in sé, sulla cui etiopatogenesi poco sappiamo, ma soltanto i sintomi clinici elementari disturbanti e la vulnerabilità relativa connessa (4).
Queste considerazioni diagnostiche e terapeutiche hanno indotto molti studiosi a proporre il passaggio da una nosografia categoriale, sostanzialmente convenzionale, ad una nosografia di spettro o di “continuum sindromico”, centrata sull’obiettività clinica sottesa alla sintomatologia elementare.
La comorbidità del disturbo borderline con i disturbi d’Asse I (DSM-IV) è ovviamente elevata. Talora è difficile distinguere la psicopatologia borderline dalle sindromi proprie dei disturbi affettivi, dei disturbi d’ansia e dei disturbi dell’ideazione riportati in Asse I. La coesistenza di disturbi affettivi e di disturbi da abuso di sostanze è particolarmente elevata, così com’è elevata l’incidenza d’eventi suicidari (3) (20). Il problema per il clinico resta sempre quello di determinare quale pattern di sintomi trattare e quale priorità riconoscere al trattamento di quelli di essi maggiormente invalidanti. Di solito sono trattati prima i sintomi nucleari dei disturbi d’Asse I, chiaramente diagnosticati. Purtroppo, il trattamento farmacologico dei disturbi d’Asse I, anziché avvantaggiare il trattamento degli altri sintomi propri del DBP, può essere paradossalmente controproducente, almeno in alcuni casi. Molti dei sintomi lamentati dai pazienti con DBP si presentano con caratteristiche fluttuanti nel tempo, risultano sensibili allo stress e transitori, con evidenti risposte al placebo, nelle prime 2-3 settimane di trattamento, anche, forse soprattutto, in un contesto controllato di trattamento farmacologico.
La bassa compliance terapeutica dei soggetti borderline apre un’altra importante problematica. I tassi d’abbandono raggiungono, in alcuni studi controllati, il 48% in 12 settimane (21) oppure il 77% in 22 settimane (22). Il numero di drop-out, riscontrato negli studi di valutazione dell’efficacia del trattamento farmacologico, può essere comparato a quello riscontrato in uno studio sull’efficacia della psicoterapia, nei pazienti borderline ricoverati (23), in cui il tasso d’abbandono raggiungeva il 43% in un periodo di sei mesi e a quello riscontrato in un campione di pazienti borderline ambulatoriali, in cui raggiungeva il 66%, in un periodo di tre mesi (14). Ne consegue che gli studi scientifici, a nostra disposizione in letteratura, sul trattamento del DBP, con farmacoterapia o psicoterapia, riguardano sostanzialmente i soli pazienti con più alta compliance terapeutica, che rappresentano, probabilmente, una minoranza del totale di soggetti affetti da DBP. Solo una parte dei soggetti con DBP, probabilmente, chiede un aiuto qualificato ed accetta un trattamento. Generalizzare i risultati di questi studi è metodologicamente discutibile. Tali obiezioni critiche sono ancora più evidenti, rispetto ai numerosissimi resoconti psicoanalitici sul disturbo borderline, in cui sono stati descritti casi clinici relativamente poco numerosi, con pazienti molto collaboranti e con capacità di funzionamento, relativamente conservate.
Ogni nostra interpretazione sulle basi etiopatogenetiche e fisiopatologiche del disturbo borderline, nonché sul relativo trattamento, deriva da fonti non sufficientemente attendibili (4).
La tendenza a non aderire al trattamento si associa all’abuso di sostanze illecite, all’abuso di farmaci con assunzioni incongrue, con dosaggi eccessivi o, a volte, all’overdose intenzionale a scopo autolesivo. L’overdose di farmaci prescritti, in particolare, è molto temuta dai terapeuti, ma raramente osservata in clinica. In otto anni, presso la Clinica di Ricerca per i Disturbi Borderline dell’Università di Pittsburgh, 225 pazienti borderline, selezionati con criteri diagnostici rigorosi e stabiliti, sono stati sottoposti a trattamenti farmacologici controllati senza che si siano verificate conseguenze mediche, in cui ci fosse pericolo di vita, relativo all’abuso di farmaci o a qualsiasi altra fatalità. Nessun paziente si è volontariamente indotto una crisi ipertensiva, seguendo un trattamento con IMAO, attraverso un’overdose di formaggio o cioccolata, com’è spesso temuto dai terapeuti. Questi dati sostengono la sicurezza dei trattamenti farmacoterapeutici condotti su pazienti borderline, e contraddicono alcuni clinici, che tendono ad evitare il trattamento farmacologico, sulla base di un falso pregiudizio, quello, cioè, per cui il trattamento farmacologico possa essere utilizzato a fini suicidari (24). In qualsiasi contesto terapeutico ed ambientale, il trattamento farmacologico dev’essere somministrato nell’ambito di un corretto e forte rapporto medico-paziente. In un tale tipo di rapporto interpersonale, volto al sostegno del paziente, i limiti imposti alla prescrizione farmacologica e il consenso informato riducono la tentazione da parte del paziente di abusare del trattamento stesso.
Aspetti pragmatici del trattamento farmacologico del DBP
Sulla base di quanto surriferito, le nostre conoscenze circa le risposte al trattamento farmacologico dei pazienti borderline sono ancora parziali e lacunose. Il trattamento resta ancora orientato in senso clinico ed empirico. Alcune direttive, condivise largamente sul piano clinico pragmatico da diversi autori, sono presentate in breve.
Un periodo di osservazione clinica, in wash out farmacologico, è fondamentale per formulare una diagnosi attendibile, con un’accurata descrizione qualitativa e quantitativa dei diversi sintomi presenti. Nei soggetti che presentano disturbi del comportamento, con perdita del controllo sugli impulsi, quindi particolarmente a rischio, è opportuno che tale valutazione sia condotta in condizioni di ricovero. Numerose osservazioni cliniche confermano che molti sintomi, inclusi quelli depressivi gravi, potrebbero migliorare parzialmente o completamente, entro 2-3 settimane dal ricovero, a prescindere dalla terapia eventualmente attuata, nei pazienti borderline.
Nei casi in cui l’intensità o la gravità dei sintomi è tale da rendere clinicamente urgente un intervento, è opportuno iniziare il trattamento con antipsicotici e/o neurolettici a basso dosaggio, soprattutto quando i sintomi prevalenti sono della serie schizotipica ed accompagnati da rabbia, violenza, sospetto, idee di riferimento. Questi farmaci possono essere somministrati, in emergenza, con una risposta clinica che è solitamente ad ampio spettro e relativamente rapida.
Quando la sintomatologia prevalente è di tipo depressivo, il trattamento può avvalersi d’antidepressivi serotoninergici e/o d’IMAO. I pazienti che presentano sintomi depressivi atipici, con estrema labilità dell’umore e intensi sintomi neurovegetativi, sembrano rispondere prima e meglio al trattamento con IMAO. La rabbia e l’ostilità sembrano rispondere meglio al trattamento con fenelzina, nei pazienti con evidente alterazione del tono dell’umore.
Il disturbo da perdita del controllo sugli impulsi, nei pazienti borderline, di solito, si accompagna ad alterazioni acute del tono dell’umore oppure a disturbi transitori del pensiero e della sfera cognitiva. L’esperienza clinica sostiene l’efficacia del trattamento con carbamazepina e/o sali di litio in questi pazienti, soprattutto quando l’impulsività non si attenua dopo un adeguato trattamento antidepressivo e/o neurolettico. I serotoninergici sembrano presentare un efficiente profilo terapeutico sul controllo degli impulsi in questi pazienti.
Molte delle osservazioni sperimentali di trattamento farmacologico del DBP, presenti in letteratura scientifica, derivano da trial clinici empirici e non sempre adeguatamente strutturati e controllati. Al fine di garantire l’efficacia di un trattamento vanno opportunamente ed accuratamente valutati gli outcome ed i tempi d’osservazione clinica. Qualsiasi terapia del DBP, per le caratteristiche stesse del disturbo, dovrebbe essere tendenzialmente somministrata per tempi relativamente lunghi. Una farmacoterapia continuativa, specialmente per quel che attiene l’uso d’antipsicotici, deve essere fondata su prove evidenti a sostegno della sua efficacia e sicurezza, in termini anche di vantaggioso rapporto tra costi clinici del trattamento e benefici. La durata del trattamento con i farmaci antimpulsivi come gli antidepressivi serotoninergici è ancora da definire. Infatti, un tale trattamento farmacologico prolungato potrebbe compensare un fondamentale tratto biologico di vulnerabilità. Nell’assenza d’indicazioni scientifiche il giudizio clinico dovrebbe prevalere, orientando verso l’uso di un trattamento utile al raggiungimento di un adeguato equilibrio psico-sociale del paziente, ma per i tempi e con i farmaci strettamente necessari, a perseguire tale obiettivo.
Modelli neurobiologici dei disturbi di personalità e loro impatto nella farmacoterapia del DBP
La farmacoterapia, per lunghi anni, è stata considerata, essenzialmente, un approccio sintomatico, talora solo contenitivo e secondario, ai disturbi mentali, in generale, ed ai disturbi di personalità, in particolare. Solo con l’impetuoso progresso delle neuroscienze, avvenuto negli ultimi anni, la psico-farmacoterapia ha assunto una nuova dignità, in rapporto ad un nuovo razionale d’uso dei farmaci, giustificato dalla strutturazione teoretica di veri modelli psicobiologici della malattia mentale, quali il “psychobiological model” di Siever e Davis (16) ed il “neurobiological learning model” di Cloninger (25)-(27). Secondo questi modelli i comportamenti pervasivi e ripetitivi, continuativi e stereotipati, tipici dei disturbi di personalità, vanno considerati alla stregua di dimensioni psicopatologiche, funzionalmente correlate a specifici fattori neurobiologici (temperamento) ed a fattori psicosociali e d’apprendimento (carattere). La base fisiopatologica delle dimensioni temperamentali e di spettro psicopatologico rappresentano il vero “rationale” per il trattamento psicofarmacologico dei disturbi di personalità. Storicamente l’approccio categoriale alle malattie mentali ha generato, indirettamente, un’omologa classificazione degli psicofarmaci (depressione-antidepressivi, psicosi-antipsicotici, ansia-ansiolitici). L’avvento di un’interpretazione della malattia mentale in termini di “continuum sindromico” e di spettro psicopatologico ha modificato l’obiettivo stesso dell’approccio farmacoterapeutico. La terapia farmacologica, in psichiatria oggigiorno, non è più indirizzata al trattamento della categoria nosografica, ma è orientata, più selettivamente, al trattamento delle singole dimensioni, che caratterizzano la sintomatologia clinica del paziente. Gli obiettivi della terapia psicofarmacologica sono, perciò, rappresentati dalle dimensioni psicopatologiche e dalle disfunzioni neurobiologiche sottese all’affettività instabile, all’impulsività comportamentale ed ai disturbi percettivo/cognitivi, considerati come condizioni di vulnerabilità di tratto o fattori di scompenso psicopatologico acuto, nei soggetti con DBP (28) (29).
Il modello psicobiologico di Siever e Davis (16) riconduce i disturbi d’Asse I e d’Asse II ad una stessa matrice neuro-funzionale. In quest’ottica, le alterazioni neurobiologiche correlate all’organizzazione cognitivo-percettiva, alla regolazione affettiva, al controllo degli impulsi e dell’aggressività, alla regolazione dell’ansia e dell’inibizione, rappresentano le dimensioni psicobiologiche di base. Tali dimensioni costituiscono uno spettro psicopatologico, un continuum sindromico, ai cui estremi si collocano da un lato i disturbi psicopatologici più gravi, classificati nel DSM-IV in Asse I quali: schizofrenia, disturbi dell’umore, disturbi del controllo degli impulsi e disturbi ansiosi; dall’altro le pervasive, lievi e persistenti alterazioni sottese alle disfunzioni sociali, occupazionali ed interpersonali, proprie dei disturbi di personalità, classificate nel DSM-IV in Asse II.
Il tono dopaminergico cerebrale sembra modulare funzionalmente la dimensione cognitivo/percettiva, che delinea un continuum tra i disturbi psicotici e i disturbi patogeneticamente correlati, sottesi alle alterazioni dell’information processing, presenti nei disturbi di personalità del Cluster A, soprattutto nei disturbi schizoide e schizotipico (30) (31). La dimensione impulsività/aggressività sembra essere funzionalmente correlata ad una riduzione del tono serotoninergico cerebrale. Tale dimensione può esprimersi come tratto di personalità, con comportamenti impulsivi, nell’ambito di vari disturbi di personalità, in particolare del DBP e negli altri disturbi del Cluster B oppure come disturbo del controllo degli impulsi, quando appare maggiormente rilevante sul piano psicopatologico (DSM-IV – Asse I). L’instabilità affettiva sembra essere funzionalmente correlata al tono serotoninergico, colinergico e noradrenergico cerebrale. Tale instabilità rappresenta la dimensione psicopatologica, che caratterizza i disturbi affettivi maggiori (DSM-IV – Asse I), ma anche alcuni disturbi di personalità, in particolare il DBP e quell’istrionico (DSM-IV – Asse II). La dimensione ansia/inibizione è funzionalmente connessa alle attività neurobiologiche modulate dal GABA e dalla noradrenalina. Tale dimensione connota i disturbi d’ansia (DSM-IV – Asse I), ma anche alcuni disturbi di personalità, in particolare i disturbi del cluster C (DSM-IV – Asse II).
La teorizzazione di Siever e Davis (16) non manca di una sua intrinseca persuasività, tuttavia questo modello psicobiologico è stato correttamente ed acutamente criticato da Widiger (32), che lo considera applicabile solo ad alcuni disturbi di personalità, in particolare al disturbo schizotipico, paranoide e borderline, perché non tutti i disturbi di personalità possono essere considerati aspetti di continuum spettrale, rispetto a disturbi d’Asse I.
Il modello neurobiologico d’apprendimento, proposto da Cloninger (25)-(27), è basato su studi psicometrici e genetici, studi neurofarmacologici e neurocomportamentali, svolti sulla popolazione generale. Esso riconosce alla base della struttura di personalità, normale e patologica, tre fondamentali dimensioni temperamentali:
1. novelty seeking;
2. harm avoidance;
3. reward dependence.
Secondo questa prima modellistica tridimensionale, di Cloninger, ognuna di queste dimensioni sarebbe correlata, funzionalmente, ad un sistema neurobiologico, modulato da uno specifico neurotrasmettitore. In particolare, il “sistema d’attivazione comportamentale” sarebbe sotto il controllo funzionale della dopamina, il “sistema d’inibizione comportamentale” della serotonina ed il “sistema di perseverazione comportamentale” della noradrenalina. Le variazioni, in eccesso o in difetto, di queste dimensioni temperamentali possono configurare coerentemente diversi disturbi di personalità, classificati secondo i criteri del DSM, ma non si adeguano sufficientemente a questo modello il disturbo schizotipico ed il disturbo paranoide, che Cloninger correla funzionalmente ad alterazioni dell’information processing (33). La dimensione temperamentale, “novelty seeking”, identifica il bisogno d’eccitamento, in risposta a nuovi stimoli o a fonti di potenziale ricompensa. La dimensione “harm avoidance” rappresenta la tendenza a rispondere intensamente agli stimoli avversivi, ad apprendere l’inibizione dei comportamenti, che possono indurre pericolo, ad evitare, perciò, novità, punizioni e frustrazioni. La dimensione “reward dependance” rappresenta la tendenza a rispondere, intensamente, agli stimoli gratificanti, ai segnali di ricompensa, ai segnali di approvazione sociale, ritardando l’estinzione dei comportamenti, correlati alla ricompensa e/o all’evitamento della punizione.
Il modello neurobiologico di Cloninger (25)-(27) si è in seguito arricchito con l’inclusione di una quarta dimensione temperamentale, la perseveranza (“persistence“), in rapporto a fatica e frustrazione, in parte estratta dalla reward dependence (four dimensional model).
Il modello neurobiologico di Cloninger è stato ulteriormente implementato (seven factors model) con l’introduzione di tre dimensioni caratteriali: “self-directedness“, “cooperativeness“, “self-trascendence” (34). La presenza di alterazioni funzionali delle tre dimensioni caratteriali induce l’insorgere di un disturbo di personalità. Infatti, le dimensioni caratteriali bassa “self-directedness” e bassa “cooperativeness” rappresentano aspetti nucleari, di tutti i disturbi di personalità. La presenza d’alterazioni funzionali delle dimensioni temperamentali condiziona il determinarsi di uno specifico tipo di disturbo. I clusters in cui solitamente sono raggruppati i disturbi di personalità del DSM presentano specifici aspetti temperamentali. I soggetti con disturbi di personalità di Cluster A presentano una bassa “reward dependence” quelli con disturbi di cluster B un alto “novelty seeking“ e, quelli con disturbi di cluster C, un’alta “harm avoidance“. Le dimensioni temperamentali sembrerebbero correlate e specifici neurotrasmettitori, mentre, le dimensioni caratteriali sarebbero maggiormente correlate a specifici assetti socio-psicologici. Ciò ha avallato, tra l’altro, anche in senso teorico, il trattamento integrato multimodale, che sostiene la complementarità fra trattamenti psicoterapeutici e psico-farmacologici, correttamente combinati, nel trattamento dei pazienti con disturbi di personalità (35).
Il modello psicobiologico di Siever e Davis e quello neurobiologico di Cloninger non sono sovrapponibili. Non è possibile, in altre parole, sovrapporre le dimensioni della personalità normale, proprie del modello di Cloninger, con le dimensioni psicopatologiche, proprie del modello di Siever e Davis. Sono state cercate utili correlazioni tra i due modelli, che restano tuttora incompatibili reciprocamente. Per esempio, la dimensione ansia/inibizione del modello di Siever e Davis, si correla con l’alta “harm avoidance” del modello di Cloninger. La dimensione impulsività/aggressività si correla con una bassa “harm avoidance” ed un’alta “novelty seeking“. La dimensione instabilità affettiva sembra correlarsi, significativamente, con un’alta “reward dependence“.
L’attuale modellistica personologica va considerata fortemente condizionata dalle nostre attuali conoscenze in ambito neurobiologico. Scarso rilievo è dato, per esempio, in questi modelli interpretativi, al ruolo svolto dalla neuromodulazione peptidergica cerebrale, nel determinismo biologico dei tratti di personalità. È verosimile che alterazioni funzionali dei meccanismi centrali di controllo dell’omeostasi edonica (disedonia) possano giocare un ruolo fondamentale nella vulnerabilità e/o nell’insorgenza di specifici quadri psicopatologici (36).
Linee guida del trattamento farmacologico del DBP
La farmacoterapia, nell’ambito del trattamento dei disturbi di personalità, può trattare:
– il disturbo di personalità in sé, considerato alla stregua di qualsiasi altro quadro clinico, identificato sul piano categoriale;
– la vulnerabilità di tratto o i clusters di sintomi nucleari;
– la comorbidità d’Asse I (37).
Storicamente, la farmacoterapia è passata dal trattare i soli disturbi d’Asse I, al trattare i disturbi di personalità, in quanto tali, al riconoscere come obiettivo privilegiato del trattamento farmacologico i sintomi nucleari, espressione di specifiche dimensioni psicopatologiche. In realtà le dimensioni psicopatologiche, lungi dall’essere ipersemplificazioni interpretative, restano per loro natura complesse, derivando dall’interazione di vari fattori neurobiologici, temperamentali e di spettro, che coinvolgono molteplici meccanismi fisiopatologici.
Il razionale del trattamento farmacologico del DBP, oggigiorno, da sempre più clinici, è cercato nelle basi neurobiologiche sottese alle dimensioni temperamentali di Cloninger e sottese alle dimensioni psicobiologiche di spettro, del modello di Siever e Davis. L’obiettivo prioritario della farmacoterapia del DBP, in questa prospettiva, diventa, perciò, la correzione funzionale del tono neurotrasmettitoriale principalmente coinvolto nella modulazione d’ogni dimensione psicopatologica (10) (12).
Nel modello di Cloninger, per esempio, l’impulsività può correlarsi sia ad un’alta “novelty seeking”, sia ad una bassa “harm avoidance”, con correlati funzionali neurobiologici non necessariamente sovrapponibili, nei due casi. Nel modello di Siever e Davis, per esempio, i comportamenti di rabbia e d’ostilità, ma anche il comportamento impulsivo, possono essere funzionalmente correlati sia ai meccanismi che regolano il controllo affettivo, sia ai meccanismi che regolano il controllo cognitivo-percettivo.
Alla base delle diverse dimensioni psicopatologiche e dei correlati sintomi nucleari, degni d’attenzione clinica, in quanto target privilegiati della farmacoterapia, possono esserci, perciò, diversi meccanismi fisiopatologici.
La scelta degli obiettivi della terapia farmacologica e degli strumenti da utilizzare razionalmente, in relazione ai più verosimili correlati neurobiologici di fondo, resta, ancora, in larga parte, affidata all’intuizione ed all’esperienza del clinico. Anche in quest’ambito, apparentemente più rigoroso in termini metodologici e di controllo razionale dei trattamenti, l’arte medica ancora prevale sulle indicazioni obiettive, teoretiche e/o più strettamente tecnico-decisionali. Il trattamento farmacologico del DBP, nella prassi clinica, non può conseguire a semplicistici modelli di riferimento. Al contrario, il trattamento farmacologico, effettuato in ottica dimensionalistica, richiede una forte attenzione semeiologica, nella raccolta dei dati sintomatologici, un’accurata analisi del contesto clinico, in cui tali sintomi si esprimono, nonché un’attenta analisi psicopatologica. Ad oggi, solo una lunga esperienza clinica ed un’adeguata formazione specifica possono permettere di correlare intuitivamente un cluster sintomatologico nucleare ad un determinato meccanismo neurobiologico di base, la cui correzione può modificare, a volte notevolmente e stabilmente, aspetti di vulnerabilità o aspetti clinici rilevanti, nell’insorgenza e nell’espressione clinica del disturbo borderline di personalità.
Di là dai limiti insiti nei modelli teoretici, sui quali si fonda il trattamento farmacologico del DBP, molte altre ragioni rendono la farmacoterapia del DBP ancora empirica (37). Innanzitutto i dati clinici ed osservazionali di cui disponiamo, derivano quasi esclusivamente da studi condotti in soggetti con disturbo borderline e schizotipico, in condizione di relativo scompenso sintomatologico. Non ci risulta siano stati effettuati studi farmacoterapeutici sulla vulnerabilità di tratto, in questi pazienti, a tutt’oggi. I dati empirici, inoltre, riguardano casistiche cliniche, spesso considerate omogenee, ma di cui non sempre è esplicitata la comorbidità d’Asse I e/o d’Asse II, correlabile ad una grande variabilità, sintomatologica e fisiopatologica, quindi, ad una diversa risposta al trattamento (16) (37). Insufficientemente rigorose ed adeguate risultano essere, inoltre, alcune procedure metodologiche adottate da molti studi psicofarmacologici (38) come la mancata adozione di un gruppo di controllo trattato con placebo e/o di valutazioni in cieco, la non randomizzazione dei campioni studiati, l’insufficiente periodo d’osservazione clinica (13) (14) (26)-(28). Ciò rende le conclusioni cui giungono questi studi poco attendibili e, di conseguenza, rende incerta la prassi farmacoterapeutica nel trattamento del DBP.
Le linee guida condivise, del trattamento farmacologico dei disturbi di personalità, indicano due obiettivi diversi ma complementari: il trattamento dei disturbi d’Asse I in comorbidità psichiatrica ed il trattamento dei sintomi critici e dei clusters sintomatologici nucleari del DBP.
Secondo alcuni autori vale anche una condizione di priorità, in cui la rimozione dei disturbi d’Asse I è l’obiettivo principale della farmacoterapia, con l’implicita considerazione che un miglioramento del disturbo d’Asse I induce un miglioramento del disturbo di personalità, eventualmente presente (39) (40).
Dopo la remissione del disturbo psichiatrico di Asse I in comorbidità, o in sua assenza, il trattamento farmacologico trova il suo obiettivo prioritario nella correzione dei sintomi critici e del pattern sintomatologico, prevalente nella psicopatologia di Asse II, cioè i “targets symptoms” o ai “clusters” sintomatologici rappresentati, nel DBP da:
– discontrollo affettivo;
– discontrollo impulsivo/comportamentale;
– discontrollo percettivo/cognitivo (10)-(12) (28).
Per ognuno di questi clusters sintomatologici sono state proposte specifiche linee guida d’intervento farmacologico (12) (29). Sulla base di dati empirici e di ricerca, sono stati proposti persino algoritmi, che facilitano l’aspetto decisionale, nel trattamento farmacologico di questi clusters sintomatologici. Nel trattamento del DBP, l’aspetto decisionale riguarda, soprattutto, la scelta dei farmaci, che va, ovviamente, effettuata dando la preferenza alle sostanze con provata efficacia, con rapidità d’effetto, con basso rischio d’intossicazione acuta, con basso rischio d’abuso e con basso rischio di non-compliance. Ovviamente gli alberi decisionali proposti hanno il valore di schemi di riferimento, che vanno interpretati ed adattati al trattamento del singolo paziente, nel rispetto delle sue peculiarità sindromiche.
Sulla base d’evidenze scientifiche e cliniche, nei soggetti con DBP e nei soggetti schizotipici, si può affermare, in sintesi estrema, che è stata dimostrata l’efficacia terapeutica:
– degli antipsicotici nel discontrollo percettivo-cognitivo;
– di IMAO, SSRI, carbamazepina, valproato e litio nel discontrollo affettivo;
– degli anticonvulsivanti, SSRI e litio nella disregolazione degli impulsi, inclusi i comportamenti autolesivi e l’abuso di sostanze (41).
Il disturbo psichiatrico, in comorbidità d’Asse I, più frequentemente riscontrato nel DBP è rappresentato, verosimilmente, dalla depressione, dall’umore, seguito dall’abuso di sostanze.
La depressione di questi pazienti risponde poco al trattamento farmacologico specifico, rispetto alla depressione maggiore propriamente detta, senza comorbidità d’Asse II. Questa resistenza alla terapia è stata interpretata, considerando l’effetto d’altri fattori correlati quali: basso supporto sociale, elevato numero di separazioni e divorzi, eventi di vita stressanti, bassa compliance terapeutica, difficoltà nel mantenere una sufficiente alleanza terapeutica, reazioni controtransferali negative del terapeuta. Gli antidepressivi triciclici risultano essere poco efficaci. I farmaci di prima scelta sono rappresentati, perciò, dagli inibitori del reuptake della serotonina (SSRI) che sono efficaci anche su altri sintomi della psicopatologia della personalità, quali impulsività e rabbia, per l’effetto esercitato da questi farmaci sugli aspetti più propriamente temperamentali.
Il trattamento dell’abuso di sostanze, a tutt’oggi, si avvale di strumenti terapeutici, in ambito farmacologico, molto limitati. L’uso d’agonisti ed antagonisti degli oppiacei risulta prezioso nel trattamento della “addiction” all’eroina. Minori risorse abbiamo a disposizione nel trattamento della dipendenza da cocaina e dalle numerose altre sostanze d’abuso, sebbene alcune osservazioni cliniche abbiano evidenziato apprezzabili effetti anti-craving d’alcuni SSRI (42)-(45).
Il trattamento degli altri quadri psicopatologici, in comorbidità con il DBP, si avvale degli stessi strumenti terapeutici, ben conosciuti e largamente utilizzati, efficaci nella terapia dei disturbi d’Asse I.
Trattamento dei sintomi nucleari dello spettro affettivo nei pazienti con DBP
I sintomi affettivi nucleari del DBP sono rappresentati da labilità affettiva, disforia, rabbia immotivata, depressione. Questo quadro sintomatologico è presente anche negli altri pazienti con i disturbi di personalità inclusi nel Cluster B. Nei soggetti con i disturbi di personalità inclusi nel Cluster A prevalgono gli stati affettivi “negativi” come anedonia ed appiattimento affettivo. I pazienti con disturbi di personalità del Cluster C presentano più evidenti i sintomi d’ansia, che non mancano, ovviamente, negli altri disturbi di personalità (27)-(28).
I sintomi che esprimono clinicamente la disregolazione affettiva, nei soggetti con DBP, sono funzionalmente correlati a deficit del tono centrale serotoninergico, ma anche ad alterazioni funzionali dei sistemi noradrenergico, colinergico e gabaergico. Il loro trattamento si avvantaggia dell’utilizzo degli antidepressivi, soprattutto degli inibitori selettivi del reuptake di serotonina (29). Rispetto a depressione e rabbia, in questi pazienti, l’efficacia degli SSRI (fluoxetina, sertralina, paroxetina e citalopram) è stata documentata in studi in doppio cieco controllati contro placebo (46)-(49). Questi farmaci sono efficaci anche nel controllo della labilità e reattività dell’umore, dell’impulsività e dell’autolesività, nonché nel controllo degli stati d’ansia. Il trattamento con SSRI si caratterizza per la notevole maneggevolezza clinica dei farmaci, che hanno margini di sicurezza, in caso di sovradosaggio, molto più ampi dei triciclici e degli IMAO. Questi farmaci, inoltre, presentano scarsi effetti collaterali. Ciò facilita l’adesione al trattamento, migliorando la compliance terapeutica, nei soggetti borderline. La fluoxetina si è dimostrata efficace nel controllo della rabbia e dell’impulsività, in questi pazienti, indipendentemente dall’effetto antidepressivo (39). L’effetto antimpulsivo di questo farmaco, nei soggetti con DBP, sembra manifestarsi prima di quello antidepressivo. Naturalmente la rabbia, non funzionalmente correlata alla disregolazione affettiva, ma associata ai sintomi disfunzionali cognitivo-percettivi, risponde meglio ai nuovi antipsicotici, ma anche ai neurolettici a basse dosi (49) (50).
Gli antidepressivi triciclici presentano scarsi effetti terapeutici sull’umore depresso dei soggetti borderline (18) (51) (52). Ciò, in aggiunta alla frequente transitorietà di questo stato d’animo, spesso reattivo ad eventi stressanti, non giustifica oggigiorno il loro uso, anche in considerazione del lungo tempo di latenza del loro effetto terapeutico. È però opportuno ricorrere a questi farmaci quando i sintomi depressivi si presentano intensi e duraturi (52). Va sempre ricordato che, nei soggetti borderline, l’amitriptilina può indurre o peggiorare l’aggressività, facilitando l’insorgere di disturbi formali o di contenuto del pensiero, nonché, di pulsioni autolesive (53).
Nel caso di risposta clinica insufficiente al trattamento con un farmaco SSRI, alcune osservazioni (10)-(12) suggeriscono l’utilizzo di un altro farmaco della stessa classe. In alcuni studi su pazienti borderline i soggetti “non responders” alla fluoxetina rispondevano alla sertralina (28) (29) (54). In alternativa e più razionalmente, in caso di mancata risposta terapeutica agli SSRI potrebbe essere utile somministrare i nuovi antidepressivi con meccanismo d’azione multi-trasmettitoriale (NA + 5HT) come nefazodone e venlafaxina (48) (55) (56).
In caso d’intensa e prolungata sintomatologia ansiosa gli SSRI possono risultare insufficienti. Solo in questi casi può essere preso in considerazione un trattamento con benzodiazepine, di cui non va sottovalutato il potenziale rischio d’abuso. È noto che le benzodiazepine a breve emivita possono, infatti, indurre discontrollo e comportamenti d’abuso (57) (58). Ciò rende preferibile l’uso clinico di benzodiazepine a lunga emivita come il clonazepam (36) (58). Questo farmaco, inoltre, per i suoi effetti serotoninergici, presenta una qualche efficacia anche nel controllo degli stati d’agitazione e degli impulsi (59).
Non esistono studi specifici sull’uso del buspirone nel trattamento dell’ansia dei pazienti con DBP. Ciò nonostante il suo uso clinico, nei pazienti con DBP, potrebbe essere utile, per lo scarso rischio d’abuso proprio del farmaco. L’assenza d’effetti acuti, però, ne indica l’utilizzo solo nei trattamenti prolungati nel tempo (60). Questo farmaco presenta effetti serotoninergici, potenzialmente efficaci nel controllo dell’aggressività e dell’impulsività, soprattutto, se utilizzato in associazione con gli SSRI.
Nei soggetti, con forte discontrollo affettivo, può essere opportuna l’associazione alla terapia di un nuovo antipsicotico e/o di un neurolettico a basse dosi. Tale terapia aggiuntiva, spesso è efficace nel ridurre l’espressione e la gravità dei sintomi affettivi.
L’utilizzo clinico degli IMAO, nei soggetti con DBP, richiede molta attenzione da parte del terapeuta, ma anche una buona collaborazione ed una buona compliance terapeutica da parte del paziente (12). Oggigiorno, gli IMAO vanno considerati farmaci di seconda scelta rispetto agli SSRI per la loro minor maneggevolezza clinica, per la loro minore sicurezza e per il tipo e l’incidenza degli effetti collaterali, ma, soprattutto, per l’elevata attenzione dietetica, che la loro somministrazione richiede. Inoltre, l’assunzione di un IMAO può avvenire solo 15 giorni dopo la sospensione di un SSRI a emivita breve, come sertralina o paroxetina, mentre, è necessario un wash-out di 45 giorni, dopo un SSRI ad emivita lunga, come la fluoxetina. È noto, comunque, che gli IMAO, nei soggetti borderline, hanno apprezzabili effetti terapeutici nel controllo di: instabilità dell’umore, impulsività, rabbia e ostilità (61) (62). Nei casi di scarsa risposta agli SSRI e/o d’inefficacia o inutilizzabilità degli IMAO è opportuno prescrivere uno stabilizzatore dell’umore, come litio carbonato, carbamazepina e/o valproato. Va ricordato che ai farmaci IMAO può essere associato uno stabilizzatore dell’umore, soprattutto il carbonato di litio, che è stato testato in numerosi studi controllati, in doppio cieco contro placebo.
I sali di litio presentano buoni effetti sul discontrollo degli impulsi, sulla labilità dell’umore, sulla rabbia e sulle pulsioni autolesive (63) (64). Il loro uso clinico, nei soggetti con DBP, è limitato, però, dagli stretti margini di sicurezza, dal rischio d’ipotiroidismo dopo assunzione cronica e dalla necessità di un monitoraggio continuo dei loro livelli ematici.
Il trattamento con carbamazepina si è dimostrato efficace sul controllo della labilità affettiva, della rabbia, della pulsione suicidaria e sull’ansia nei soggetti borderline con “disforia isteroide” (65). In altri studi, in soggetti borderline senza disforia isteroide, però, il trattamento con carbamazepina non è stato superiore al placebo (66) (67). Inoltre, la carbamazepina nei pazienti borderline con anamnesi positiva per la depressione maggiore può indurre melanconia (65).
Il trattamento con valproato, in soggetti con DBP, è stato efficace su labilità affettiva, ansia, rabbia, e impulsività (68) (69). A tutt’oggi i dati relativi all’uso di carbamazepina e di valproato nei pazienti con DBP sono poco numerosi e scarsamente rappresentativi. I pazienti con personalità borderline presentano, inoltre, una bassa compliance terapeutica, con correlate difficoltà nel monitoraggio dei parametri ematologici e dei livelli plasmatici che l’uso di questi farmaci richiede.
Non esistono linee guida condivise, circa la durata dei trattamenti farmacologici, utili nel controllo dei sintomi disfunzionali affettivi, nei pazienti con DBP. Tale durata deve essere definita, clinicamente, in relazione al miglioramento dei sintomi, nonché in rapporto alle capacità di relazione interpersonale indotte nel paziente.
Trattamento dei sintomi nucleari dello spettro impulsivo-comportamentale nei pazienti con DBP
Caratteristici del DBP sono i sintomi impulsivi e l’aggressività autodiretta come: ripetuti tentativi di suicidio, autolesionismo, automutilazioni, abbuffate di cibo, sesso e sostanze d’abuso; ma anche l’aggressività eterodiretta, come: rabbia, comportamenti esplosivi, accessi d’ira, comportamenti spericolati, scarsa tolleranza alle frustrazioni, aggressività verbale e fisica. Numerosi dati clinici e scientifici documentano la relazione di questi sintomi con un deficit della neurotrasmissione serotoninergica, soprattutto a livello della corteccia prefrontale (66) (70)-(73). Queste considerazioni hanno avvalorato l’utilizzo dei farmaci serotoninergici, in particolare degli SSRI, che sono considerati da numerosi autori, farmaci di prima scelta.
Numerosi studi hanno documentato che fluoxetina, sertralina e paroxetina sono efficaci nel controllo dei sintomi impulsivo-aggressivi, a prescindere dagli effetti antidepressivi di questi farmaci (74)-(81). Gli effetti antimpulsivi si manifestano entro pochi giorni, dall’inizio del trattamento, e si attenuano altrettanto rapidamente alla sua sospensione. In caso di scarsa efficacia clinica di un farmaco SSRI è stato suggerito di passare ad un diverso SSRI. In caso d’efficacia parziale del trattamento con un SSRI, è stato suggerito di associare in terapia un antipsicotico atipico e/o un neurolettico a basse dosi (39) (61) (62). I neurolettici agiscono in poche ore, inducendo un rapido controllo dell’aggressività impulsiva. Alcuni autori hanno suggerito l’utilizzo di sali di litio in rapporto agli effetti antimpulsivi, verosimilmente correlati all’azione serotoninergica, di queste sostanze (63) (82) (83).
In caso di scarso effetto clinico di un SSRI, in alternativa, si potrebbe prescrivere un IMAO e/o un anticonvulsivante. È stata evidenziata una significativa efficacia della tranilcipromina sul comportamento impulsivo, in donne borderline, con disforia isteroide (51) (65). Anche la fenelzina è efficace nei soggetti borderline, con impulsività e irritabilità (61) (62). Il trattamento con IMAO, in caso di scarsa risposta terapeutica, potrebbe essere associato ai sali di litio e/o ad un anticonvulsivante, sebbene studi specifici in questo campo non sono stati ancora effettuati.
I soggetti impulsivi spesso sono trattati con carbamazepina e/o valproato. Alcuni studiosi (51) (67) (84) hanno evidenziato l’efficacia della carbamazepina nel controllo dei sintomi impulsivi. Altri autori (66) non hanno confermato queste osservazioni. Alcuni studi suggeriscono l’uso del valproato nel trattamento dell’impulsività (68) (69) (85) della labilità emotiva e del comportamento autodistruttivo (86).
Nei soggetti che manifestano aggressività impulsiva resistente al trattamento, come automutilazioni e impulsività su base cognitivo-dispercettiva, in rapporto a sintomi della serie psicotica, possono essere utilmente prescritti gli antipsicotici atipici (87)-(89). I rischi connessi all’uso di clozapina ne giustificano l’uso solo in casi estremi, mentre utili ed efficaci sono risultati gli altri antipsicotici atipici come risperidone, olanzapina e quetiapina (50) (90) (91).
I comportamenti ripetitivi impulsivi e/o autolesivi hanno risposto al trattamento con il naltrexone. Ciò avalla l’ipotesi del coinvolgimento funzionale di questi neuropeptidi nella genesi del comportamento autolesivo. I dati clinici che sostengono questo trattamento sono, però, preliminari e non controllati (92) (93). Nei soggetti in cui il DBP consegue ad un disturbo dell’attenzione con iperattività (ADHD), insorto in epoca infantile, è stato razionalmente utilizzato, con qualche successo terapeutico, uno psicostimolante, come il metilfenidato (94). Va, però, considerato attentamente il rischio d’abuso dello psicostimolante nei soggetti con DBP. Ciò ha suggerito, per il trattamento di questi pazienti, l’uso del bupropione, che ha effetti dopaminergici e risulta efficace nel trattamento del ADHD (29), ma che risulta registrato in Italia solo per la disassuefazione da nicotina (sic!).
Il trattamento farmacologico dei sintomi impulsivo-aggressivi va proseguito per un tempo variabile secondo lo stato clinico del paziente, vale a dire in rapporto alla presenza di stressors, alle capacità d’adattamento e di “coping“, ma anche, e soprattutto, in relazione alla collocazione del “locus of control“. Naturalmente, quando lo scopo del trattamento è modulare la vulnerabilità di tratto, diventa impossibile definire “a priori” la durata del trattamento.
Trattamento dei sintomi nucleari dello spettro percettivo-cognitivo nei pazienti con DBP
I sintomi percettivo-cognitivi, frequenti nei soggetti con DBP, includono derealizzazione, depersonalizzazione, illusioni, ideazione paranoide e idee di riferimento. Tali sintomi sono spesso transitori e sono manifestati solo in situazioni di stress soggettivo. Alcuni aspetti di tratto come sospettosità, pensiero eccentrico, bizzarrie sono disturbi del pensiero frequenti nei soggetti con disturbi di personalità paranoide e/o schizotipico, ma sono prevalentemente reazioni a stati affettivi, nei soggetti borderline.
Alla luce di numerosi studi, controllati in doppio cieco, nonché di studi in aperto, condotti sui pazienti borderline e schizotipici, i neurolettici sono considerati il trattamento elettivo di questi sintomi (21) (22) (51). Alcuni autori preferiscono, però, i neurolettici ad alta potenza come aloperidolo, pimozide e trifluoroperazina, mentre altri privilegiano i farmaci a bassa potenza come tioridazina, promazina e clorpromazina (10) (11).
I neurolettici hanno effetti terapeutici anche sull’impulsività e sulla rabbia (51) (53) (95). I loro effetti sul piano clinico sono apprezzabili già dopo tempi brevi. I pazienti con disturbi formali e di contenuto del pensiero rispondono meglio al trattamento neurolettico, di quelli con disturbi dispercettivo-cognitivi secondari a slivellamento del tono dell’umore. Quando gli effetti terapeutici del trattamento neurolettico non sono evidenti dopo 4-6 settimane, può essere aumentato il loro dosaggio, solitamente inferiore a quello usato nei soggetti psicotici (21) (96) (97). Quando la risposta terapeutica è insufficiente deve essere rivalutata l’etiopatogenesi dei sintomi cognitivo-dispercettivi. Se viene esclusa una rilevante natura affettiva di questi sintomi può essere opportuna la terapia con antipsicotici atipici, soprattutto in presenza di rilevanti sintomi “negativi”. Alcuni studi e diverse osservazioni cliniche confermano l’efficacia della clozapina (98) (99), del risperidone (88) (89), dell’olanzapina e della quetiapina (49) (50) (90) (91). I pazienti con DBP possono presentare, inoltre, una reazione avversa da neurolettici, la psicosi atropino-simile, caratterizzata da agitazione psicomotoria, disorganizzazione cognitiva, deliri paranoici, depersonalizzazione e derealizzazione (100).
La durata del trattamento è arbitrariamente definita, sulla base dei trial terapeutici, in 4-12 settimane. L’uso prolungato di neurolettici tipici induce la comparsa di sintomi depressivi e d’effetti collaterali nei pazienti borderline, con alto rischio di drop-out e bassa compliance terapeutica (101). Nonostante ciò, studi a lungo termine con flupentixolo depot in soggetti con disturbi di personalità istrionica o borderline (81) (102) hanno evidenziato analoghi livelli di drop-out nei gruppi trattati ed in quelli di confronto che assumevano placebo. L’uso prolungato nel tempo di neurolettici può indurre discinesia tardiva e tale rischio non va sottovalutato. I disturbi cognitivo-percettivi olotimici, che riconoscono un’etiologia affettiva, possono avvantaggiarsi dell’associazione al trattamento neurolettico di basse dosi di IMAO o di SSRI. Questi farmaci sono, inoltre, utili nel controllo dei sintomi d’irritabilità, rabbia ed impulsività spesso concomitanti (47) (51) (55), (61) (62) (78).
Condotta farmacoterapeutica
I dati sperimentali e clinici, a nostra disposizione, sulla farmacoterapia del DBP, sono, a tutt’oggi, lacunosi, poco controllati o insufficienti. In quest’ottica, qualsiasi conclusione clinica va considerata preliminare. Si possono però trarre alcune considerazioni conclusive dalla letteratura scientifica internazionale. La farmacoterapia del disturbo borderline di personalità andrebbe, così, orientata, non al quadro nosografico in sé, ma alla sintomatologia psicopatologica nucleare presentata dallo specifico paziente. L’eterogeneità sintomatologica del disturbo borderline rende molto improbabile che ci possa essere un solo specifico trattamento farmacologico, efficace e sicuro, per tutti i pazienti con DBP.
I trattamenti farmacologici tendono ad essere scarsamente incisivi sull’insieme della sintomatologia psicopatologica del paziente con DBP, perciò la loro efficacia complessiva risulta, comunque, modesta e la presenza di sintomi residui normale. Gli effetti farmacologici riducono l’intensità d’alcuni sintomi attenuando la vulnerabilità sottesa a specifici fattori biologici.
Il trattamento farmacologico, a tutt’oggi, incide limitatamente sugli aspetti temperamentali e sintomatologici senza agire sugli aspetti propriamente caratteriali del paziente con DBP. Un approccio integrato multimodale con l’uso di un’opportuna farmacoterapia orientata al controllo sintomatologico e dei tratti di vulnerabilità, insieme con un opportuno trattamento psicoterapeutico, sembra essere, a tutt’oggi, la scelta terapeutica più razionale e con maggiore probabilità di successo, nel trattamento dei pazienti borderline.
Le aspettative nei confronti del trattamento integrato, farmacologico e psicoterapeutico, dovrebbero essere razionali e realistiche. Il trattamento integrato deve prevedere, ove opportuno e possibile, attività continuative e strutturate di tipo socio-riabilitativo, tendenti al reinserimento dei soggetti con DBP nel mondo del lavoro, in modo da fornire loro utili ancoraggi alla realtà ed espliciti segnali di limite, così disperatamente necessari per questi pazienti.
L’approccio psicoterapeutico al paziente borderline esula dagli scopi di questa rassegna. Si può, comunque, notare come resti a tutt’oggi un trattamento scarsamente definito. Nonostante decenni di dibattito e la mole di letteratura clinica, esistono pochissimi studi, effettuati con sufficiente rigore scientifico, che dimostrino l’efficacia terapeutica della psicoterapia nel DBP. Inoltre, mancano prove scientifiche evidenti sull’efficacia di uno specifico approccio psicoterapeutico, per questi pazienti, rispetto ad una diversa modalità di trattamento psicoterapeutico. Mancano, ancora, rilievi clinici obiettivi che permettano di indirizzare il paziente borderline con specifici sintomi prevalenti (impulsivi, affettivi, ideativi, cognitivi, ecc.) verso una specifica psicoterapia. Il vero vantaggio della psicoterapia è sicuramente quello d’essere “antidemoralizzante” (103) e di fornire un’interpretazione esplicativa del disturbo, offrendo, altresì, opportunità di insight e di ristrutturazione delle dinamiche interpersonali e degli stili disfunzionali di comportamento. Qualsiasi trattamento, anche quello farmacologico, non dà risultati apprezzabili ed è sostanzialmente incerto, se non riveste il ruolo di comunicazione interpersonale forte tra terapeuta e paziente. Ogni atto medico, anche la semplice prescrizione di farmaci, può sortire effetti clinici, sostanzialmente diversi o diametralmente opposti, in relazione al tipo di comunicazione interpersonale che viene a stabilirsi tra medico e paziente. Ulteriori ricerche saranno indispensabili sia in ambito psicofarmacologico sia in ambito psicoterapeutico per dare più forti indicazioni terapeutiche nel trattamento del paziente borderline, di quelle sin qui passate in rassegna.
Alcuni aspetti particolari della farmacoterapia del disturbo borderline meritano d’essere valutati con particolare attenzione. I soggetti con DBP hanno la tendenza a presentare scarsa compliance terapeutica associata spesso, paradossalmente, a comportamenti d’abuso di farmaci.
Il soggetto con DBP è un paziente difficile che, per la sua instabilità affettiva e relazionale, non riesce a dare seguito a programmi terapeutici strutturati e sufficientemente prolungati nel tempo. Per le sue difficoltà nella relazione interpersonale è, inoltre, incapace di cooperare attivamente nel rapporto medico-paziente.
I dati emergenti dagli studi di psicofarmacologia sostengono l’efficacia terapeutica dell’uso, a breve termine, di farmaci mirati al contenimento dei sintomi acuti ed invalidanti del DBP. Scarsi sono i dati scientifici circa l’efficacia e l’utilità dei trattamenti a lungo termine. Alcuni studi di follow-up hanno evidenziato che la psicopatologia borderline tende spontaneamente a migliorare negli anni (104)-(107). Ciò induce a valutare con prudenza l’efficacia di trattamenti farmacologici troppo prolungati nel tempo. Massima cautela va esercitata nell’uso dei farmaci per il trattamento intensivo dei sintomi nucleari invalidanti, se si considera che alcuni farmaci possono peggiorare sintomi particolari ed altri possono indurre reazioni paradosse (14) (57) (58).
Nei soggetti instabili, fortemente impulsivi, dediti all’abuso di sostanze, con comportamenti autolesivi, soprattutto quando manca un sufficiente supporto sociale e/o familiare, l’approccio farmacoterapeutico va limitato al controllo dei sintomi invalidanti ed attuato in un ambiente protetto. Il ricorso al trattamento in ambiente ospedaliero o in altra condizione di ricovero va limitato nel tempo. Ricoveri prolungati possono indurre, in soggetti borderline predisposti, atteggiamenti regressivi, acting-out e comportamenti abnormi, con l’induzione d’effetti controtransferali nel personale con compiti assistenziali.
Il trattamento ambulatoriale è più efficace nei pazienti meno gravi, con maggiore compliance terapeutica, meno probabili comportamenti autolesivi e con maggiore supporto familiare e socio-relazionale diretto.
Il trattamento farmacologico va illustrato al paziente circa le sue modalità (posologia e durata del trattamento), le sue finalità (controllo dei sintomi), la possibile insorgenza d’effetti collaterali e le aspettative realistiche, che il trattamento può perseguire, nel controllo dei sintomi più invalidanti (108).
La mancata risposta al trattamento farmacologico è la regola più che l’eccezione. Nella valutazione di questa mancata risposta va valutato con attenzione il livello di compliance terapeutica esibito dal paziente. I soggetti con DBP sono spesso insoddisfatti ed insofferenti. Tale bassa compliance può essere giustificata, dal paziente borderline, con la presenza d’effetti collaterali, talora drammatizzati per fini manipolativi. Una scarsa compliance terapeutica può conseguire ad un mancato effetto terapeutico, immediato e completo, del trattamento farmacologico, che può indurre nel paziente borderline una profonda delusione delle aspettative non realistiche di guarigione immediata, precedentemente nutrite. Una bassa compliance deriva dalle particolari dinamiche transferali e controtransferali, tipiche del paziente borderline, in rapporto alla relazione medico-paziente, con atteggiamenti di iperidealizzazione, manipolazione e svalutazione del terapeuta.
La non-compliance può indurre tanto all’interruzione del trattamento quanto all’abuso dei farmaci nell’aspettativa di indurre immediati effetti di sedazione dell’ansia o d’eccitazione. Ciò può facilitare l’abuso di droghe, di farmaci e d’alcolici, sino a portare all’assunzione massiccia, impulsiva e caotica di sostanze che possono esitare in un suicidio.
La farmacoterapia del DBP ha effetti positivi, solo su alcuni specifici pattem sintomatologici, limitati nel tempo e di modesta entità. Il trattamento esclusivamente farmacologico del paziente con DBP, perciò, può essere estremamente frustrante sia per lo psichiatra sia per il paziente (105). D’altronde la documentata modesta efficacia del ricorso esclusivo alla psicoterapia sembra rafforzare la convinzione che queste due modalità terapeutiche debbano essere utilizzate in sinergia, nel trattamento dei pazienti borderline. Il trattamento integrato multimodale, ripetutamente proposto anche in altri ambiti clinici, trova nella cura dei pazienti borderline il suo terreno d’elezione (109)-(111).
La farmacoterapia può attenuare, infatti, i sintomi disturbanti cognitivi, affettivi e impulsivi. Può migliorare il rapporto interpersonale, facilitando l’emergere di meccanismi di difesa più maturi e meno disadattativi. Può, perciò, permettere l’instaurarsi di una sufficiente alleanza terapeutica e facilitare il ricorso alla psicoterapia. La presenza di continue crisi affettive, cognitive ed impulsive può impedire l’inizio e la prosecuzione d’ogni attività psicoterapeutica. Tali crisi possono essere validamente contenute da un adeguato trattamento farmacologico, che facilita, di fatto, la prosecuzione di un trattamento psicoterapeutico. Il trattamento psicoterapeutico può, di contro, migliorare la compliance al trattamento farmacologico, consentendo di individuare e correggere le distorsioni cognitive, affettive e relazionali, che il paziente borderline, con meccanismo transferale, tende a proiettare sui farmaci (20) (23) (112)-(114).
Il trattamento farmacologico, infatti, può essere vissuto dal paziente come segno d’accudimento e donazione, ma può evocare intense paure fantasmatiche di controllo da parte del terapeuta e di perdita del controllo su se stessi, con l’insorgere di convinzioni deliranti sulla gravità della propria malattia e/o identificazioni deliranti tra farmaco e terapeuta, spesso oggetto di transfert negativo. Ogni trattamento farmacologico entra, comunque e sempre, in una più complessa interazione tra medico e paziente, con tutti gli aspetti transferali e controtransferali, facilmente intuibili. Il trattamento integrato multimodale s’inscrive in una visione della malattia mentale come disturbo multifattoriale bio-psico-sociale (114). Il trattamento integrato multimodale che include psicoterapia, farmacoterapia ed adeguato sostegno sociale costituisce il trattamento d’elezione del DBP (109)-(114). La complessità etiopatogenetica del DBP esclude l’indicazione di un trattamento, specifico, semplice e standardizzato, suggerendo invece l’adozione di un approccio integrato, con un’eventuale personalizzazione degli interventi (113) (114).
Indicazioni operative
Alla luce degli studi presenti in letteratura scientifica e sulla base delle casistiche cliniche e delle esperienze raccolte si può sostenere che l’efficacia della farmacoterapia del DBP è limitata al controllo di specifici cluster sintomatologici, soprattutto nelle fasi di acuzie sintomatologica. Gli effetti farmacologici sulle vulnerabilità di tratto, nella prospettiva di una loro forte determinazione neurobiologica, restano ancora da esplorare.
La farmacoterapia non ha significativi effetti su alcune dimensioni psicopatologiche quali: “cognitive style“, “self-domain“, “internal object relations“, “defences“ (114) su cui la psicoterapia resta il trattamento elettivo. Per molti anni si è considerata la farmacoterapia un intervento complementare alla psicoterapia nel trattamento dei pazienti con DBP (10) (106) (107).
L’approccio dimensionale, nella farmacoterapia dei disturbi di personalità, prevale ormai su quello categoriale. In questa prospettiva, i farmaci possono essere utili nel controllo dei sintomi nucleari sottesi ai disturbi di personalità, mediate azioni sui correlati neurotrasmettitoriali specifici (106).
Molti farmaci come SSRI, antipsicotici atipici e stabilizzatori dell’umore presentano effetti clinici su più dimensioni psicopatologiche. Ciò protegge dal semplicistico riduzionismo neuro-biologico in ambito clinico-terapeutico ed apre più ampie prospettive di ricerca.
La farmacoterapia del disturbo borderline di personalità è efficace, necessaria, e, spesso, indispensabile nel trattamento dell’acuzie sintomatologiche, con trattamenti di breve durata. Il trattamento farmacologico della vulnerabilità di tratto, che dovrebbe prolungarsi per tempi più lunghi, anche se razionale e supportato dalle recenti acquisizioni sulle basi neurobiologiche del comportamento umano, non ha avuto, a tutt’oggi, sufficienti conferme sperimentali, circa efficacia e sicurezza. Le valutazioni, circa l’efficacia dei trattamenti farmacologici prolungati, sono rese difficili dalla constatazione che la psicopatologia di personalità tende spontaneamente ad attenuarsi nei tempi lunghi (104). Non è raro, inoltre, il rischio di reazioni paradosse o avverse ai farmaci, nei trattamenti prolungati (58).
L’approccio farmacoterapeutico ai disturbi di personalità deve avvalersi di una dettagliata ed attenta valutazione psicopatologica dimensionale, con l’instaurarsi di una buona alleanza terapeutica, premessa indispensabile ad una sufficiente compliance terapeutica, che ponga nella giusta prospettiva il significato psicologico che il paziente conferisce al trattamento con farmaci (35). Ciò facilita un’obiettiva valutazione dell’efficacia del trattamento, prevenendo i fenomeni di tossicità e d’abuso, ma anche più complesse e pericolose dinamiche transferali e controtransferali, nell’utilizzo dei farmaci (37).
Una definizione obiettiva e realistica dei sintomi target e delle aspettative di miglioramento atteso proteggono il paziente e il terapeuta da delusioni e “burn-out“, forieri d’ulteriori difficoltà terapeutiche. Una realistica valutazione dell’efficacia del trattamento farmacologico dove considerare l’alta responsività al placebo dei soggetti con DBP, soprattutto nel breve termine, ma deve considerare anche le obiettive difficoltà derivanti dal valutare effetti farmacologici su condizioni di stato e/o condizioni di tratto, senza adeguati strumenti obiettivi di misurazione e senza sufficiente affidabilità soggettiva dei pazienti per problemi di dissociazione cognitiva (37).
Un limite obiettivo e formidabile alla farmacoterapia del DBP resta il rischio d’abuso farmacologico, soprattutto d’ingestione massiccia ed impulsiva di farmaci (overdose) spesso a scopo suicidario. Il rischio di overdose letale deve essere attentamente valutato nella scelta del farmaco. I farmaci non sono una scorciatoia terapeutica. Essi non possono surrogare un’opportuna alleanza terapeutica, né migliorare di per sé il rapporto medico-paziente. Essi non possono sostituire il necessario coinvolgimento empatico del medico. I propri pregiudizi possono influire sull’efficacia prescrittiva della terapia. I pazienti dovrebbero sempre sapere quali sono i segni ed i sintomi bersaglio che il farmaco deve controllare, la durata di tempo in cui assumeranno il farmaco, gli effetti indesiderati attesi ed il piano terapeutico da seguire, nel caso che la terapia risulti inefficace o non tollerata.Una sincera presentazione di questi dati spesso suscita minori ansie delle fantasie dei pazienti sul trattamento farmacologico.È opportuno che il medico avverta anche quale si suppone dovrà essere l’intervallo di tempo necessario per avvertire i primi effetti benefici della terapia.
Alcuni autori hanno evidenziato aspetti transferali e controtransferali, nella prescrizione ed assunzione di farmaci, giungendo ad ipotizzare una “psicodinamica della farmacoterapia”. In quest’ottica, sono state evidenziate “resistenze” in cui: la malattia viene vissuta come una meritata punizione; la malattia è negata a causa della stigmatizzazione sociale; la malattia viene rifiutata per l’identificazione inconscia con parenti portatori di disturbi; l’autostima del paziente viene incrinata dalla necessità di instaurare una terapia farmacologica; alcuni pazienti possono sentirsi più gravemente malati di quanto pensassero; reazioni emotive possono rivelare paure o sentimenti di inadeguatezza non sempre consci; la prescrizione viene vissuta come accudimento da parte di una madre protettiva; la prescrizione viene vissuta come controllo coercitivo da parte di un padre autoritario (112)-(118).
I “meccanismi” sottostanti questa psicodinamica sono caratterizzati dallo spostamento dei sentimenti dal terapeuta alla terapia. In questo caso, è più facilmente raggiungibile il necessario livello d’esame, interpretazione e consapevolezza. Come in ogni forma di psicoterapia, anche nella prescrizione di farmaci, il terapeuta dovrebbe sempre essere consapevole delle proprie reazioni, consce ed inconsce, nei confronti del paziente, note in psicoanalisi come controtransfert. Di fronte ad un paziente che non segue le prescrizioni ci si può sentire adirati, frustrati, delusi, rifiutati ed offesi. Se non si è consapevoli delle proprie reazioni emotive si possono esprimere comportamenti punitivi, autoritari o di rifiuto del rapporto, con effetti negativi sulla terapia. Andrebbero invece ricercati ed interpretati i motivi della “non-compliance” e delle resistenze offerte alla terapia. Il terapeuta dovrebbe essere consapevole anche dei propri atteggiamenti emotivi nei confronti dei farmaci (112) (113).
Un corretto utilizzo della farmacoterapia richiede, nel trattamento dei soggetti con DBP, una specifica formazione alla relazione terapeutica, solo valido strumento per il raggiungimento di una sufficiente alleanza terapeutica, in grado di influenzare la compliance e la risposta al trattamento in modo sensibile.
L’attuale forte attenzione al ruolo svolto da fattori psicobiologici nell’etiopatogenesi del DBP non può scotomizzare il ruolo svolto, nella genesi del disturbo, da precoci eventi traumatici, fattori intrapsichici e socio-ambientali connessi allo sviluppo (119). Anche in questa prospettiva va, in ogni modo, stressata la diversa vulnerabilità soggettiva a fattori stressanti ambientali, probabilmente correlata ad aspetti neuro-biologici predisponenti.
La limitata efficacia della farmacoterapia trova una condizione largamente speculare nella scarsa efficacia terapeutica dei diversi approcci psicoterapeutici (18) (psicodinamico e cognitivo-comportamentale), ma anche nella bassa compliance e nell’alto tasso d’abbandono dei trattamenti (120). Maggiore efficacia risulta avere un approccio terapeutico integrato e multimodale, in cui le modalità terapeutiche, su base biologica, psicologica e sociale possano utilmente combinarsi (121). La farmacoterapia, riducendo ed attenuando i sintomi cognitivi, affettivi e impulsivi, può consentire al paziente di accettare e proseguire un trattamento psicoterapeutico, facilitando il ricorso a meccanismi difensivi più maturi ed adattativi. Il trattamento psicoterapeutico, d’altronde, può aiutare il paziente ad accettare una necessaria farmacoterapia, comprendendo natura e significato delle resistenze transferali, all’assunzione di farmaci, responsabili di “non-compliance“, e migliorando, così, l’alleanza terapeutica e l’adesione al trattamento farmacologico.
Un trattamento combinato farmacoterapeutico e psicoterapeutico è, perciò, il trattamento d’elezione del DBP. Mentre la psicoterapia, attraverso cambiamenti psicodinamici o con la modificazione degli schemi cognitivi, porta ad una ristrutturazione delle caratteristiche comportamentali del paziente, massimizzandone l’adattamento sociale, la farmacoterapia di breve o lunga durata tende a modulare la vulnerabilità di tratto, controllando l’emergere di specifici ed invalidanti sintomi psicopatologici (122). Manca ancora un’evidenza scientifica, controllata sperimentalmente, della maggiore efficacia del trattamento combinato. La sua proposizione resta teorica ed indotta da impressioni cliniche. Risultano, inoltre, carenti anche studi di confronto tra farmacoterapia e/o psicoterapia rispetto al trattamento combinato (123). Il trattamento combinato può essere effettuato da un solo terapeuta, che conduce la psicoterapia e prescrive i farmaci, oppure da due diversi clinici, di cui uno prescrive il farmaco e l’altro conduce la psicoterapia. Il trattamento farmacologico presuppone un atteggiamento oggettivo-descrittivo, mentre il trattamento psicoterapeutico necessita di un approccio empatico-introspettivo. La gestione d’entrambi i trattamenti da parte di uno stesso clinico competente risulta, perciò, più impegnativo, ma offre il vantaggio di facilitare l’analisi del transfert e delle resistenze alla terapia farmacologica, migliorando formidabilmente i problemi di compliance (124).
Considerazioni conclusive
Le nostre conoscenze sull’etiopatogenesi del disturbo borderline di personalità (DBP) sono, a tutt’oggi, incerte e lacunose, ciò nonostante resta compito del clinico curare i pazienti borderline. Questi pazienti sono stati considerati sempre difficili, spesso inguaribili, talvolta incurabili. Ciò non è vero per tutti i pazienti. Chi ha lavorato, in quest’ambito clinico, può aver ottenuto risultati, propriamente terapeutici, in pochi casi, ma miglioramenti clinici evidenti, in numerosi pazienti. In una prospettiva clinica e scientifica, non ha senso, fondare una terapia su particolari e soggettive esperienze terapeutiche, per quanto entusiasmanti e suggestive. Come in qualsiasi altro ambito clinico, lo studio scientifico e sistematico dei diversi approcci terapeutici è d’importanza cruciale. Purtroppo studi clinici controllati, disegnati per lo studio della risposta terapeutica di questi pazienti, che di sovente richiedono un trattamento articolato e prolungato nel tempo, sono relativamente difficili da realizzarsi e comprensibilmente rari. Per questa ragione, nella letteratura scientifica internazionale, sono reperibili, sino ad oggi, pochi riferimenti relativi al trattamento rispetto, per esempio, alla ricerca etiopatogenetica del DBP. Nella nostra epoca, orientata ad una corretta gestione delle risorse in ambito sanitario, è sempre più necessario sapere se esiste un trattamento efficace del DBP e quale ne sia il rapporto costi/benefici. Il trattamento del DBP rappresenta a tutt’oggi una sfida in ambito clinico, ma anche per la ricerca. Come per gli altri disturbi di personalità, il DBP si presenta con una sintomatologia psicopatologica tendenzialmente cronica, talora associata a cambiamenti lenti, se e quando presenti. La valutazione dell’outcome, dopo una terapia, in questi pazienti, richiede tempi così lunghi, che ogni studio controllato randomizzato potrebbe diventare estremamente dispendioso, in termini non solo economici. Non va sottovalutato, inoltre, l’effetto indotto sulla sintomatologia dall’evoluzione naturale del DBP. Lo studio dei risultati del trattamento è alla base d’ogni ulteriore approfondimento teoretico. È, inoltre, possibile trarre utili conclusioni cliniche dall’osservazione dell’evoluzione spontanea del quadro sindromico presentato da questi pazienti. Il funzionamento complessivo del paziente borderline può presentare, a dispetto della gravità d’alcuni aspetti psicopatologici, aree relativamente conservate, in cui essi sembrano in grado di funzionare, accanto ad aree, in cui sussistono gravissimi deficit. Tali aspetti qualitativi del funzionamento borderline possono non essere evidenziati all’esame di punteggi medi di valutazione dell’outcome. In tal senso, sul piano della prassi clinica, secondo alcuni autori, il trattamento dovrebbe essere intermittente, continuo, eclettico e personalizzato. In un’ottica bio-psico-sociale, il trattamento di questo disturbo di personalità non può che essere integrato e multimodale (121). La delusione di chi è coinvolto nella cura e nell’assistenza del paziente borderline, nasce da aspettative terapeutiche e salvifiche sbagliate, legate alla difficoltà d’accettare e comprendere la sostanziale cronicità del disturbo. In questa prospettiva, un approccio clinico articolato, multi-disciplinare, integrato ed intermittente è più realistico, economico e, verosimilmente, anche vantaggioso in termini di outcome, rispetto a modalità d’intervento più intensive, per le quali si osserva una bassissima compliance.
Alcune osservazioni e diversi studi di follow-up (125) hanno rilevato che numerosi sintomi psicopatologici, presenti nei pazienti borderline, tendono a migliorare spontaneamente e gradualmente negli anni. In tal senso, interventi prolungati nel tempo, di qualsiasi tipo, che abbiano fornito sufficiente e costante sostegno finiscono con l’essere, solo apparentemente, efficaci. Quest’osservazione rappresenta un ulteriore “bias” nella valutazione dell’esito degli interventi terapeutici. A lungo termine, infatti, la storia naturale e gli effetti terapeutici tendono a confondersi. I segni di miglioramento, che si presentano in una storia clinica, dopo molti anni di terapia, vanno interpretati come una regressione spontanea del disturbo oppure come il risultato degli interventi terapeutici, spesso onerosi e costanti, che sono stati effettuati nel tempo? Questo tipo di considerazione va fatta, soprattutto, nella valutazione degli esiti, dopo terapia psicoanalitica. Nei pazienti con DBP un miglioramento spontaneo dei sintomi psicopatologici è osservato, in genere, dopo quindici anni dall’esordio sindromico. Al contrario, nella maggior parte dei soggetti borderline, non vi sono sostanziali mutamenti, durante i primi cinque anni di storia clinica (126). Ha senso, quindi, considerare un successo terapeutico un miglioramento dei sintomi del DBP entro i primi cinque anni dall’inizio del trattamento. Maggiore prudenza va esercitata, perciò, nella valutazione critica dell’efficacia terapeutica di trattamenti più lunghi. Un ulteriore problema, nella valutazione degli esiti del trattamento dei pazienti con BPD, è rappresentato dall’eterogeneità dei criteri di selezione, dei campioni clinici, negli studi presenti in letteratura psichiatrica. I criteri d’inclusione nei diversi studi dei pazienti con DBP, sottoposti a terapia psicoanalitica, a terapia cognitiva, o a trattamento farmacologico sono, spesso, solo parzialmente sovrapponibili. Ne consegue che non sempre è corretto generalizzare gli esiti positivi osservati su un campione ad un altro diverso campione. Diventa, quindi, praticamente impossibile, in ambito clinico, selezionare, in modo razionale, il trattamento potenzialmente più efficace, per un nostro specifico paziente. Vanno, perciò, interpretati con cautela anche i risultati provenienti da studi svolti con opportuno rigore metodologico.
Sebbene la psicoterapia di lungo termine orientata analiticamente sia una delle cure raccomandate con maggiore frequenza per il BPD, tale approccio terapeutico non è stato valutato sistematicamente sul piano clinico sperimentale. La letteratura clinica suggerisce, però, che solo una minoranza di pazienti borderline può essere candidata ad una psicoterapia a lungo termine, orientata in senso psicoanalitico, sostanzialmente gravosa sia per il paziente sia per il terapeuta (127) (128). Un’alternativa concreta, in ambito psicoterapeutico, è rappresentata dalla “terapia dialettica comportamentale” (129) (TDC) di Linehan, un nuovo approccio, impostato sul diretto confronto con i comportamenti borderline più disturbanti, quali suicidarietà ed automutilazioni. In tale approccio terapeutico è data grande importanza al controllo dei comportamenti, che possono minare l’alleanza terapeutica. In tal senso, il confronto è utilizzato nel contesto di una relazione positiva col paziente. Ciò che è inteso con il termine “dialettica” è rappresentato dal preciso equilibrio tra accettazione e autonomia all’interno del trattamento, due aspetti che sono stati considerati cruciali nello sviluppo della personalità borderline (130).
I dati preliminari sull’efficacia, a breve termine, della TDC forniti da Shearin e Linehan (182) sono incoraggianti. Una questione cruciale è rappresentata dalla considerazione critica che i soggetti capaci di negoziare una TDC non sono, nel complesso, tipicamente borderline. La questione concernente la selezione e la rappresentatività dei campioni studiati, al fine di generalizzare i dati sull’efficacia dei diversi tipi di trattamento, può essere posta per tutte le forme di terapia, oggi raccomandate, per il BPD.
Rimane irrisolto il problema della valutazione degli esiti e della sua generalizzazione. Il successo spesso riportato in letteratura, in realtà, riguarda solo i pazienti con DBP che hanno accettano di utilizzare una specifica modalità di trattamento e che sono restati in cura abbastanza a lungo da fornire risultati clinici valutabili. Inoltre, i trial clinici non sono generalmente strutturati per confrontare l’efficacia relativa di trattamenti diversi. A tutt’oggi non esistono studi comparativi, pubblicati in letteratura scientifica, che orientino tra le diverse opzioni terapeutiche. La scelta del trattamento, perciò, resta più arte che scienza. Nella scelta tra le diverse possibili terapie va, inoltre, sottolineato che pazienti borderline diversi possono avere differenti necessità (132). La controversia tra psicoterapia e farmacoterapia del paziente con DBP e quella che contrappone la psicoterapia intensiva a quella supportiva potrebbe essere solo il riflesso dell’esistenza di sottogruppi di pazienti, dei quali alcuni possono beneficiare di uno specifico trattamento ed altri no. Inoltre, se è vero che il DBP tende ad esprimersi in termini di cronicità (29), la maggior parte di tali pazienti non tollera una terapia continuativa e prolungata e la maggioranza finisce con l’abbandonarla. L’abbandono è molto frequente quando il paziente è sottoposto ad una psicoterapia a lungo termine (133). Alcuni specifici aspetti sindromici del disturbo potrebbero interferire con la capacità di tollerare la dipendenza e l’intensità di un rapporto terapeutico continuativo. Silver (134) e Perry (135) hanno suggerito, perciò, partendo da una terapia continua, di giungere ad un trattamento intermittente. Tuttavia, nei loro modelli, una terapia intensiva diviene intermittente quando la necessità del paziente, di separazione ed autonomia, esprime il bisogno di un cambiamento, in senso terapeutico.
Alcuni pazienti borderline non iniziano mai una terapia propriamente detta, ma cercano aiuto, in modo saltuario, nei momenti di crisi. Molti di questi pazienti sono trattati con interventi ripetuti e specifici centrati sulla gestione delle crisi. Lo studio dei risultati indica che la maggior parte di questi pazienti con DBP può migliorare sul piano clinico, se non arriva al suicidio. In quest’ambito di considerazioni, il lavoro spesso frustrante, svolto sui pazienti borderline nelle sale di pronto soccorso degli ospedali, ha un’importanza non secondaria, nella gestione di questo sottogruppo di pazienti.
Molti pazienti borderline cercano e trovano un paradossale e problematico “aiuto” nell’uso di sostanze, nell’abuso d’alcolici e nei comportamenti di dipendenza da droghe. Molti di loro (e dei loro terapeuti occasionali) confondono le cause con gli effetti, circa il loro disagio soggettivo, invertendo il vettore causale tra disturbo mentale ed uso di sostanze. In questa prospettiva, è indispensabile che ogni tossicodipendente sia sottoposto routinariamente ad un’adeguata diagnosi psichiatrica (136).
Alcuni pazienti rifiutano la psicoterapia. Non abbiamo sufficienti motivazioni scientifiche per ritenere errata tale decisione.
Sembra esserci una popolazione di pazienti borderline che si trova più a suo agio con un approccio terapeutico meno coinvolgente e continuativo, sia farmacologico sia psicoterapeutico. Al contrario (137), ce ne sono alcuni che tendono a diventare “pazienti a vita”. Inoltre, alcuni pazienti borderline, candidabili o no alla psicoterapia, presentano sintomi così gravi che non possono non essere affrontati farmacologicamente. Molti altri pazienti borderline, nel corso del trattamento psicoterapeutico, necessitano ripetutamente di farmaci, per contenere la loro impulsività, la loro disforia ed i loro disturbi cognitivo-comportamentali. Molti dati scientifici, inoltre, confortano l’ipotesi di un diretto coinvolgimento di diversi fattori neuro-biologici nell’etiopatogenesi del DBP (4). In prospettiva, la correzione dei correlati neurobiologici sottesi a comportamenti disfunzionali, costanti e continuativi, può rappresentare un approccio terapeutico tutt’altro che ancillare e sintomatico. Tuttavia (23), chi svolge un lavoro essenzialmente clinico deve essere consapevole del fatto che ogni paziente borderline rappresenta un problema unico e che il trattamento più efficace può essere quello integrato multimodale personalizzato (121). Pertanto, ci sono pazienti borderline che si avvantaggiano prevalentemente del trattamento farmacologico, altri che traggono beneficio soprattutto da interventi psicoterapeutici. Alcuni pazienti preferiscono trattamenti intermittenti o limitati alla gestione delle crisi, altri tendono a cronicizzare nella loro condizione di “pazienti a vita”. Probabilmente, alcuni pazienti borderline raggiungono risultati migliori se non sono curati affatto (138)-(140).
Da quanto premesso, sebbene sia impossibile affermare se i pazienti borderline migliorano a causa o nonostante le nostre cure, il loro trattamento può in alcuni casi giungere al recupero completo. Nell’esperienza di molti terapeuti si può annoverare qualche caso clinico di paziente borderline che ha risposto completamente alle cure, per quanto, spesso, in modo imprevedibile. Quest’osservazione può derivare dall’eterogeneità intrinseca del disturbo stesso. Se fosse possibile prevedere razionalmente a quali pazienti specifici offrire cure specifiche, sulla base di valutazioni cliniche razionali, potremmo risparmiare ai nostri pazienti ed a noi stessi molto stress, nonché i forti costi connessi alla gestione di un disturbo pervasivo, quasi sempre, invalidante.
L’evidenza empirica e la valutazione sistematica del trattamento dei pazienti borderline è ancora agli albori. Gli studi più attendibili, sinora disponibili in letteratura scientifica, sono quelli svolti in ambito psicofarmacologico, un campo che storicamente è stato considerato un trattamento secondario e/o aggiuntivo, nella terapia del DBP, ma che lo sviluppo della ricerca, in ambito neurobiologico, sta ricollocando in ben diversa prospettiva. Il disturbo borderline di personalità si situa sulla linea di confine ideale tra aspetti biologici, psicologici e sociali, ed è tutt’oggi necessario un certo eclettismo per gestire efficacemente pazienti affetti da tale disturbo (141)-(144). Il paziente borderline è un soggetto tanto più difficile da curare quanto maggiore è la rigidità introdotta nella relazione terapeutica e quanto maggiori sono le aspettative non realistiche del terapeuta stesso. Costruita una sufficiente alleanza terapeutica, tra medico e paziente, non è raro ottenere sufficienti livelli di compliance alla farmacoterapia e risultati clinici proporzionali alla nostra capacità di interagire sui substrati neurobiologici del comportamento psicopatologico.
Tab. I. Linee guida per il trattamento dei sintomi da disregolazione affettiva nei pazienti affetti da DBP. Guidelines for the treatment of symptoms related to affective dysregulation in DBP patients (modificata da APA 2001).
Classe farmacologica |
Farmaco specifico |
Sintomi target |
S.S.R.I. � Antidepressivi |
Fluoxetina, sertralina, venlafaxina |
Umore depresso, labilità dell�umore, sensibilità al rifiuto, ansia |
I.M.A.O. |
Fenelzina, Tranilcipromina |
Reattività dell�umore, disforia isteroide, depressione atipica |
Stabilizzatori dell�umore |
Litio, carbamazepina, valproato |
Labilità dell�umore, oscillazioni ciclotimiche, tentativi di suicidio |
Benzodiazepine |
Clonazepam, alprazolam |
Ansia, agitazione psicomotoria |
Tab. II. Linee guida per il trattamento dei sintomi di discontrollo degli impulsi nei pazienti affetti da DBP. Guidelines for the treatment of symptoms related to impulse dyscontrol in BPD patients (modificata da APA 2001).
Classe farmacologica |
Farmaco specifico |
Sintomi target |
S.S.R.I. |
Fluoxetina, sertralina |
Irritabilità, aggressività rabbia, impulsività |
I.M.A.O. |
Fenelzina, tranilcipromina |
Impulsività in disforia isteroide, irritabilità, rabbia |
Stabilizzatori dell�umore |
Litio, carbamazepina, valproato |
Impulsività, aggressività |
Antipsicotici atipici |
Clozapina, quetiapina, olanzapina, risperidone |
Psicoticismo, autolesionismo |
Neurolettici |
Aloperidolo |
Ostilità, rabbia acuta, aggressività |
Tab. III. Linee guida per il trattamento dei disturbi cognitivo-percettivi nei pazienti affetti da DBP. Guidelines for the treatment of cognitive-perceptual disturbances in BPD patients (modificata da APA 2001).
Classe farmacologica |
Farmaco specifico |
Sintomi target |
Neurolettici (bassa dose) |
Aloperidolo, fenotiazine, tioxanteni |
Disturbi formali e/o di contenuto del pensiero, idee prevalenti di riferimento, deliri persecutori, impulsività |
Antipsicotici atipici |
Clozapina, quetiapina, olanzapina, risperidone |
Disturbi formali e/o di contenuto del pensiero, idee prevalenti di riferimento, deliri persecutori, psicoticismo, autolesionismo |
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