Diagnosi è un termine greco che significa “riconoscimento, discernimento, distinzione”, ma anche “valutazione, decisione”. Il padre della Medicina Ippocrate (V sec. a.C.) lo usava già col significato attuale nella definizione di quadri di malattia a partire dalle sofferenze riferite dal paziente e dalle osservazioni del medico per poter impostare il corretto regime terapeutico nei singoli casi.
Le fondamentali tappe della storia della medicina, costituite dalla differenziazione in discipline specialistiche del dopo rivoluzione francese e dalla evoluzione tecnologica in campo chirurgico, laboratoristico e di diagnostica per immagini di fine �800 inizio �900, hanno trovato la psichiatria in posizione arretrata, non in grado di fruire dei progressi conseguiti sul piano dell’operatività legata agli sviluppi scientifici. Tali progressi permettevano per la prima volta di legare la rilevazione di costellazioni di segni e sintomi ricorrenti a validatori esterni. La polmonite era tale se, oltre alla tosse, alla febbre elevata e alla profonda stanchezza lamentata dal paziente, alle alterazioni nella percussione e auscultazione del torace rilevate dal medico, si poteva associare la presenza del batterio nell�escreato e un quadro radiologico di opacità a livello di un lobo polmonare.
In un periodo di affermazione del positivismo filosofico veniva affermandosi in modo deciso un modello forte di malattia rappresentato da una causa rilevabile (es. germe), che produce effetti rilevabili sull’organismo (lesioni), le quali producono a loro volta alterazioni nel funzionamento psico-somatico (sintomi e segni) e un andamento caratteristico nel tempo (decorso).
Tale modello della unità morbosa risultava di facile applicazione alle malattie acute di natura infettiva. In situazioni, peraltro di sempre più frequente rilevazione, con caratteristiche di cronicità e in cui la natura infettiva non era di facile constatazione, tale modello presentava delle carenze, dei buchi da dover tappare. Nel diabete mellito, diagnosticato non solo per i disturbi accusati dal paziente (aumento della sete, minzione frequente, eccetera) e per la rilevazione di modificazioni di natura somatica (colorito della pelle, �) rilevate dal medico, ma anche per la conferma dal reperto laboratoristico di elevazione della concentrazione di glucosio nel sangue, rimaneva comunque oscura la causa e difficile l’individuazione di lesioni.
Modelli sempre più deboli di malattia, in cui all’oscurità della causa si affiancava l’assenza di lesioni dimostrabili, potevano prendere solamente in considerazione l’aspetto di sofferenza del paziente e la constatazione di alterazioni rispetto a una normalità di funzionamento prestabilita da parte dell’esperto.
Nell�ambito della nascente psichiatria, con il fallimento della linea di ricerca rappresentata da Meynert e Westphal, basata sul reperimento di alterazioni dimostrabili nel sistema nervoso centrale, dopo gli eccessivi entusiasmi scatenati sulla scia dei risultati nella neurosifilide e nella demenza alcolica, oltre che negli studi sulla afasia, non rimaneva che accantonare per il momento l’ambizione di poter perseguire il modello forte di malattia e ripiegare verso modelli deboli, che tuttavia potevano trovare la loro validazione nella attenta e scrupolosa osservazione di un elevato numero di sofferenti psichici nel contesto ambientale, al tempo stesso standardizzato e artefatto, dell�istituzione manicomiale. In tale ambito si affermava il costrutto teorico della forma morbosa secondo Kahlbaum, rappresentata da un quadro trasversale di segni e sintomi ricorrenti e da un quadro longitudinale configurante decorsi ed esiti caratteristici, specifici. Su questa falsariga prendeva l’avvio l’ambizioso programma di Emil Kraepelin, volto alla sistematizzazione di “quadri provvisori” tipici, con la consapevolezza della necessità di fondare una psicologia nuova che permettesse la fine indagine dei molteplici quadri clinici che si presentavano all’osservazione. Contrariamente alle sue aspettative nel senso di una psicologia oggettiva, l�evoluzione nel frattempo intervenuta in filosofia, con il prevalere delle teorie idealiste antipositiviste, portò Jaspers a fondare la psicopatologia come scienza umanistica, contrapposta alle scienze della natura, basandola su fondamenti quali l’immedesimazione del medico e l’adesione ai vissuti del paziente (1).
Prendeva campo in questo contesto l’affermazione in psichiatria di paradigmi confinanti (2) (3) che si ponevano in alternativa al modello medico, quali la antropoanalisi, la psicoanalisi e il modello socio-relazionale nelle sue varianti moderate ed estreme, come i moderni movimenti della antipsichiatria. Al loro riguardo occorre considerare che, quando si dichiarano alternativi al modello medico, essi si riferiscono al già citato modello forte dell�unità morbosa e non già all’originario modello medico ippocratico, in quanto orientamento empirico-terapeutico, di cui fanno parte integrante, come ebbe a riconoscere lo stesso Freud, i trattamenti psichici. Questi modelli si polarizzarono sul significato personale dei sintomi, valorizzando biografie irripetibili piuttosto che quadri clinici ricorrenti e trascurando la forma (e quindi la psicopatologia e la diagnosi) per il contenuto, senza tener conto che il contenuto potrebbe essere solo casuale, non potendo la forma psicopatologica avere altra scelta che attingere ai vissuti di quel particolare soggetto per fornirsi appunto di un contenuto. I modelli alternativi tendevano inoltre, come conseguenza di quanto appena affermato, a stemperare il confine tra normalità e patologia, secondo la logica del “siamo tutti un po� pazzi”, rifuggendo da verifiche sperimentali e dando l’illusoria impressione di offrire certezze laddove le criticate ricerche biologiche avrebbero portato contraddizioni ed evidenziato i loro limiti.
Questo è stato il contesto del recente periodo, fondato sulla lotta all�istituzione manicomiale e sulla ricerca di ambiti alternativi di trattamento: nella comunità, sul territorio.
Accanto ad aspetti innovativi e alla sperimentazione di nuovi contesti osservativi in cui potesse generarsi una nuova clinica vi sono state delle innegabili rigidità ideologiche, nella visione in primo luogo della diagnosi psichiatrica comunque come “etichetta totalizzante”, “stigma sociale”, “distanziamento dal paziente”, fino al rifiuto totale di ammetterne una qualche validità esplicativa e una consistenza oggettiva con l�attribuzione da parte dei più estremisti di termini alla Cambronne.
C�è da considerare che in questi eccessi dialettici si tendeva a dimenticare che è di fatto impossibile non fare diagnosi, nel senso greco del termine, in quanto per nostra natura siamo comunque obbligati ad appoggiarci su sistemi di riferimento che possano classificare le nostre conoscenze acquisite. Coloro che negano l�utilità della diagnosi fanno comunque diagnosi utilizzando sistemi di riferimento diversi. In questo senso gli psicoanalisti hanno teso, ad esempio, a privilegiare la diagnosi di tratti di personalità conformi alle teorie freudiane (v. “personalità narcisistica”, “perverso”), i socio-relazionali moderati, rifiutando la diagnosi del “paziente designato”, hanno diagnosticato la “cattiveria” del contesto familiare (v. “madre schizofrenogena”), quelli estremi (i cosiddetti antipsichiatri) la “cattiveria” della società capitalistica etichettante tendente a “normalizzare” i “diversi”.
La rinuncia effettiva a fare diagnosi può solo avere, come conseguenza, la rinuncia ad imparare dall�esperienza classificando le acquisizioni fatte secondo affinità riconosciute (così funziona il nostro sistema nervoso centrale!) ed arrendendosi al principio dell�inconoscibilità dell�universo e dell�impossibilità di modificare situazioni negative e quindi di fare medicina.
Dopo aver messo in luce la cornice di modelli alternativi che circonda la psichiatria, con concezioni quasi sempre tese quantomeno a ridefinire se non ad eliminare il problema della diagnosi, soffermiamoci sui problemi di consistenza interna dell�approccio medico. È da considerare che tuttora in psichiatria la quasi totalità delle malattie è descritta a livello sindromico (insieme correlato di sintomi). Più esattamente i livelli descrittivi sono (non sempre consapevolmente) molteplici: sintomatico (es. tricotillomania), sindromico di stato (es. disturbo ossessivo compulsivo), sindromico di decorso (forma morbosa secondo Kraepelin; es. disturbo bipolare), malattia (es. alcune psicosi da causa medica conosciuta). Anche nel resto della medicina, per la verità, convivono questi vari livelli descrittivi e la differenza dalla psichiatria è al più quantitativa (una maggior quantità di diagnosi a livello di malattia). Quello che peraltro pesa per la psichiatria è la sostanziale mancanza di validatori esterni per la diagnosi (esami diagnostici e di laboratorio), che invece sono spesso utilizzabili in altre branche della medicina anche in occasione di malattie a patogenesi sconosciuta. Questa carenza accentua la convenzionalità delle diagnosi in psichiatria e il rischio di tautologie nelle definizioni: non è, ad esempio, una grande scoperta appurare che la schizofrenia ha una cattiva prognosi se per definizione includiamo nella schizofrenia le forme a cattiva prognosi!
Per la verità potrebbe venire in mente che un validatore esterno ci sarebbe: gli psicofarmaci (le famose dissezioni farmacologiche �). Ma si tratta di un validatore al momento quanto mai debole: ad esempio il litio contribuì a delimitare il disturbo bipolare da altre psicosi, salvo poi scoprire successivamente che il litio ha una qualche efficacia anche in altre psicosi �; considerazioni analoghe valgono per gli antidepressivi (in particolare per gli SSRI, con indicazioni ormai trasversali a un numero imprecisato di diagnosi categoriali) e recentemente per gli antipsicotici atipici.
Si deve, in sostanza, ammettere che il settore che più ha rivoluzionato la psichiatria, sia sul piano concettuale (modelli recettoriali dei disturbi mentali, neurotrasmettitori) che sul piano clinico (psicofarmaci), non ha prodotto a tutt�oggi validatori esterni affidabili e utilizzabili nella routine. Sono tramontate, ad esempio, le speranze che i livelli di MHPG urinario possano costituire marker biologici per differenziare varie forme di depressione, come pure test cutanei di screening possano identificare l�appropriata categoria di farmaci da utilizzare nei casi specifici.
Così pure le promettenti ricerche di tipo genetico e le tecniche di neuroimaging (TC, RMN, PET …), oltre agli sviluppi dell�EEG, non hanno prodotto dati incontrovertibili che ne incoraggino, al di là di altri tipi di ostacoli, l�impiego per valutazioni cliniche.
Ne consegue che, allo stato attuale, la definizione diagnostica in psichiatria si basa ancora largamente sulla rilevazione dei sintomi psicopatologici oltre che sulla valutazione delle varie componenti del quadro clinico (familiarità, decorso …).
Nel frattempo siamo passati dalle diagnosi tipologiche dei padri fondatori, che definivano con insuperata capacità osservativa e descrittiva quadri clinici ideali da cui si potevano discostare più o meno i quadri clinici reali, dotate di buona validità clinica ma di scarsa affidabilità nella ripetibilità tra valutatori diversi, a quelle convenzionali dei vari DSM dell�APA che, per favorire appunto l�affidabile comunicazione tra operatori diversi, operano di fatto una scomposizione e un frastagliamento della clinica psichiatrica in innumerevoli quadri definiti da “criteri operativi” di dubbia validità (4). Lo slittamento dei termini al 2010 nella preparazione del DSM-V può farci pensare, a questo proposito, a un ripensamento sulla giustezza, nel lungo periodo, di questo modo di operare (5).
Gli psichiatri europei, negli ultimi decenni, hanno decisamente perso iniziativa e sono stati ridotti in pratica al ruolo di spettatori impotenti di quanto avveniva oltre oceano, accettando di fatto tutto quanto veniva proposto. Il concetto di nevrosi è stato così accantonato, al pari dell�isteria, della nevrastenia, delle parafrenie, della psicosi allucinatoria, della psicosi cicloide e della bouffée delirante in nome della difficoltà di ripetere tali diagnosi tra operatori diversi e senza domandarsi troppo se tali quadri avessero comunque un potere esplicativo maggiore o corrispondessero a condizioni di fatto diverse dalle altre che sono state accettate ed incluse nei DSM. Si è teso a svalutare l�intuito, l�abilità dell�arte clinica in nome della pedissequa rilevazione di una noiosa serie di criteri, teoricamente applicabile da parte di tutti, che portano di fatto all�ampliamento a dismisura di certe attribuzioni diagnostiche (v., ad es., nel campo della depressione e dei disturbi di personalità) con conseguenze molteplici e disparate (sia, ad es., nella definizione della necessità di impostare un trattamento che nella attribuzione o meno di infermità mentale in contesti forensi (6)).
La debolezza diagnostica della psichiatria sembra ogni tanto trarre respiro da nuovi concetti che cercano di spezzare la rigidità della nosografia categoriale convenzionale dei DSM. Molto in voga sono attualmente i concetti di comorbidità e di spettro. La comorbidità, concetto mutuato dalla medicina internistica, se da un lato appare indicato a rendere ragione di casi con sintomatologia “sporca” e interpretabili come risultante di sovrapposizione di quadri clinici diversi, dall�altro non sembra preoccuparsi troppo del fatto che i disturbi concomitanti di cui si tratta sono convenzionali e non reali, confermabili cioè da validatori esterni. Studi sulla comorbidità psichiatrica, che riferiscono percentuali di associazione tra i vari disturbi, non possono cioè essere in alcun modo considerati alla stregua di studi sulla comorbidità in medicina (ad es., comorbidità tra polmonite ed epatite). Si potrebbe inoltre insinuare che una eccessiva enfasi sulla comorbidità (in effetti co-sindromicità) potrebbe in alcuni casi essere di ostacolo alla individuazione di reali complessi eziopatogenetici (malattie) in quanto tale modello porta a trattare le varie “morbidità” come eventi indipendenti. Il concetto di spettro consente di recuperare i confini sfumati ai bordi di ogni malattia, di rivalutare sintomi e patologie sottosoglia, subsindromiche; consente inoltre di fornire uno schema teorico per collegare patologie eterogenee (es. certi disturbi o tratti di personalità come espressione sottosoglia di patologie maggiori). Come controparte, il concetto di spettro si trascina inevitabilmente dietro la mancanza di validatori esterni della nosografia psichiatrica, per di più in un terreno infido e paludoso quale quello dei sintomi sottosoglia (7).
Riassumiamo alcuni punti che ci sembrano qualificanti:
1. la diagnosi, dai tempi di Ippocrate ad oggi, è una forma sintetica di conoscenza clinica, che non ha pretesa di essere totalizzante, ma di essere utile per fare previsioni sull�evoluzione futura del quadro e per stabilire i trattamenti specifici con più probabilità di successo;
2. in psichiatria, visto che i modelli di malattia utilizzabili sono ancora deboli (ma non per questo artificiosi!), il processo diagnostico non può ancora avvalersi di validatori esterni e consiste tuttora nella rilevazione di manifestazioni psicopatologiche attraverso il colloquio clinico e l�eventuale ausilio di test psicodiagnostici;
3. i cosiddetti modelli alternativi costituiscono un tentativo di ampliamento del modello medico, potendo fornire elementi per meglio comprendere aspetti extra clinici dei disturbi (conflitti intra psichici, patologia nelle relazioni esterne …), che gettino luce su aspetti di solito trascurati nell�iter clinico di routine. Possono essere utilizzati per integrare e approfondire aspetti collaterali, ma non costituire alternative effettive al modello medico inteso in senso originario. È indubbio poi che, nella pratica, la scarsa considerazione attribuita in teoria alla diagnosi da questi modelli si traduca paradossalmente in un ampliamento a dismisura di etichettatura psichiatrica e di attribuzione di infermità mentale a condizioni scarsamente consistenti sul piano clinico con conseguenze importanti (ad es., scarcerazione di criminali giudicati affetti da disturbo di personalità);
4. il passaggio dalle diagnosi tipologiche a quelle convenzionali (soddisfazione di una serie di criteri operativi) nella società della comunicazione di massa, con l�implicita omologazione � equiparazione di ogni operatore che consulta i criteri del manuale, può far sottovalutare il peso di aspetti personali, legati all�intuito e alla personalità del clinico di eccellenza, e di aspetti culturali-formativi, nel percorrere le insidiose fasi del processo diagnostico. Siamo poi sicuri che le diagnosi vengano nella pratica effettuate scorrendo tutti i criteri di inclusione ed esclusione dei DSM? Non ci si deve tuttora rifare alle geniali intuizioni di Kraepelin, di Schneider e di Jaspers per dare il giusto peso a quanto ci riferisce il paziente e a quello che stiamo osservando in modo partecipe? Dopo l�effetto “rinfrescante” e francamente innovativo del DSM-III (oltre 20 anni fa), assistiamo a una certa involuzione “verbigerante” di tanta psichiatria degli ultimi anni, dalle edizioni successive del DSM ai continui dibattiti, in convegni e letteratura, su capziose sottotipizzazioni cliniche, quasi sempre prive di un ubi consistam (validatori esterni alla clinica);
5. l�eliminazione “americana” di alcune categorie diagnostiche tradizionali, in nome della presunta facilità d�uso, può lasciare perplessi. Diagnosi quali “isteria”, “nevrosi”, “nevrastenia”, “parafrenia”, avevano indubbiamente un sintetico potere esplicativo. È opinabile che una diagnosi di “comorbidità tra disturbo d�ansia generalizzato, disturbo somatoforme e distimia” risultino maggiormente convincenti e gravide di risultati pratici;
6. questa visione pessimistica sullo stato della nosografia psichiatrica attuale è stemperata da una considerazione culturale e da alcune prospettive future. Sul piano culturale è evidente che le particolari difficoltà della psichiatria inducono i professionisti di questa disciplina, molto più che altri specialisti, a una riflessione consapevole sui problemi di metodo ed epistemologici connessi alla diagnosi medica. Non è paradossale pensare che questi approfondimenti su metodo ed epistemologia della ricerca clinica, sollecitati dalle difficoltà della psichiatria, possano avere ricadute positive anche per il resto della medicina. Sul piano delle prospettive future a medio termine alcuni settori in pieno sviluppo potrebbero contribuire a colmare il gap con le altre discipline mediche: a) nuovi farmaci psicotropi sempre più selettivi; b) nuove indagini, in particolare di neuroimaging, sempre più vicine a cogliere l�attività del cervello e non solo la morfologia; c) lo studio del genoma umano.
Bibliografia
1 Pichot P. Un siècle de Psychiatrie. Neuilly sur Seine: Produits Roche S.A. 1983.
2 Poli E, Cioni P. Modelli di malattia e operatività in psichiatria. Roma: CIC Edizioni Internazionali 1991.
3 Poli E, Cioni P. Modelli di malattia in psichiatria. In: Cassano GB, Pancheri P, Pavan L, Pazzagli A, Ravizza L, Rossi R, et al., eds. Trattato Italiano di Psichiatria. 2� Edizione. Milano: Masson 1999.
4 Blashfield RK. The Classification of Psychopathology. New York-London: Plenum Press 1984.
5 Pancheri P. Editoriale. Ital J Psychopathol 2003;1:1-2.
6 Cioni P, Poli E. Come differenti concezioni di malattia mentale possono influenzare la perizia psichiatrica. Riv Psicol Giurid 2003;1:95-104.
7 Magruder KM, Calderone GE. Public Health consequences of different thresholds for the diagnosis of Mental Disorders. Compr Psychiatry 2000;2(Suppl 1):14-8.