Parole chiave: Disturbo di Ansia Generalizzata (GAD) • Farmaci antidepressivi • Paroxetina • Inibitori della captazione della serotonina • Rassegna
Key words: Generalised Anxiety disorder (GAD) • Antidepressive agents • Paroxetine • Serotonin uptake inhibitors • Seview
Il termine “ansia” indica un raggruppamento di sintomi, considerati caratteristici di uno stato aspecifico di attivazione di tipo comportamentale, cognitivo ed emozionale.
L’evoluzione delle classificazioni finora proposte per l’area diagnostica dei disturbi d’ansia segnala il passaggio da una categoria unitaria e vagamente definita, la nevrosi d’ansia, ad una serie di quadri sindromici specifici, nei quali l’ansia si presenta con modalità espressive caratterizzate da fenomeniche di volta in volta differenti. Infatti le categorie raggruppate nell’area diagnostica dei disturbi d’ansia condividono la presenza di questo sintomo, che però può manifestarsi in forma di panico, di evitamento fobico, di esperienze cognitive intrusive, oppure di schemi cognitivi che conducono ad una esagerata valutazione del significato di minaccia, associato all’interazione con determinati contesti sociali o altri ambiti espositivi specifici.
È comunque importante tener presente che, tuttavia, il sintomo ansia non è presente solamente nei disturbi riferibili a quest’area diagnostica. Infatti, ad esempio, la maggior parte dei pazienti con depressione maggiore avverte l’ansia come sintomo. Oltre a questo tipo di sovrapposizione sintomatologica, è anche possibile che si verifichi una sovrapposizione sindromica. Il National Comorbidity Survey riporta infatti che il 58% dei pazienti con depressione maggiore soffre, o ha sofferto in passato, di sintomi ansiosi in grado di soddisfare i criteri diagnostici per un disturbo d’ansia (disturbo di panico, fobia sociale, disturbo di ansia generalizzata, disturbo ossessivo-compulsivo, ecc.) (1). Nel 68% di questi pazienti, l’insorgenza del disturbo d’ansia era precedente a quella del disturbo dell’umore e l’intervallo medio tra l’inizio delle due patologie era di 11 anni.
Sembra quindi che la comorbidità, sia di sintomi che di sindromi, tra i disturbi d’ansia e quelli dell’umore sia più una regola che un’eccezione. Sul piano clinico ciò implica che nella scelta dei trattamenti da somministrare a questi pazienti, si dovrebbe far ricorso a composti in grado di creare un adeguato contenimento per entrambe queste componenti dimensionali della loro sintomatologia.
Inquadramento dell’ansia nei sistemi categoriali
Dal momento che questi quadri di attivazione centrale possono essere associati ad una serie di cause e meccanismi patogenetici tra loro molto differenti, è molto importante disporre di criteri validi per operare una loro diagnosi differenziale, in modo di poter stabilire quali condizioni sintomatologiche possono essere definite “ansia”, quali condizioni di attivazione vadano attribuite ad altri disturbi e, soprattutto, quali terapie specifiche vanno utilizzate per ogni differente condizione di attivazione.
È questo fondamentalmente, lo scopo più importante dei sistemi diagnostici definiti “categoriali” finora impiegati per la classificazione dei disturbi psichiatrici.
Il loro impiego regolare mette a disposizione del clinico una serie di vantaggi. Tra questi, il fatto di poter disporre di una serie di quadri sindromici discreti, relativamente indipendenti tra di loro e con confini diagnostici ben definiti, crea uno scenario simile a quello che caratterizza le “malattie” descritte in medicina generale. Ognuna delle categorie diagnostiche è infatti, almeno teoricamente, associabile in modo specifico ad un suo quadro clinico, una sua etiopatogenesi, prognosi e terapia.
Ad esempio, nell’applicare questi criteri al settore dei disturbi d’ansia, si rileva che quanto maggiore è il numero delle categorie diagnostiche e quanto più dettagliata è la descrizione dei caratteri specifici di ogni singola categoria, tanto più semplice sembra inquadrare ogni singolo caso.
Quindi, nell’ambito dei sistemi di classificazione categoriale, l’ansia non è più un sintomo o uno “stato”, ma diventa uno spettro di disturbi, di entità nosografiche precise, di “malattie”.
Il fatto di aver definito un certo numero di categorie diagnostico-nosografiche, inoltre, ha reso più chiara la comunicazione tra i clinici. Nell’ambito del fenomeno “ansia”, ad esempio, fino a poco più di venti anni fa, prima dell’introduzione dei sistemi diagnostici categoriali, i termini utilizzati (“nevrosi d’ansia”, “stati d’ansia”, ecc.), per la loro aspecificità e genericità, non rendevano disponibili dei punti di riferimento comuni, favorendo invece lo sviluppo di una certa disomogeneità di linguaggi e di definizioni.
Attualmente, il sistema classificatorio categoriale dei disturbi psichiatrici più diffuso è rappresentato dal DSM-IV (2). Relativamente all’ansia è interessante seguire l’evoluzione dei criteri classificatori che hanno portato alla versione attuale attraverso le edizioni successive del DSM.
Il DSM-II, nel 1968, influenzato dalla nosografia accettata fino a quel momento, suddivideva i disturbi d’ansia in “nevrosi d’ansia” e “nevrosi fobiche” (3). Questa dicotomia rifletteva la differenza clinica tra condizioni d’ansia collegate ad una condizione-stimolo specifica e condizioni d’ansia più generali, senza causa specifica apparente.
Il DSM-III (4), nel 1980, cambia questa impostazione nosografica. Mantiene ancora questa dicotomia tradizionale tra “Disturbi Fobici” (o Nevrosi Fobiche) e “Stati d’Ansia” (o Nevrosi d’Ansia) ma introduce una divisione in sotto categorie diagnostiche specifiche nell’ambito di ciascun gruppo.
In particolare viene esplicitamente definita la categoria diagnostica del GAD come entità sindromica indipendente dagli altri disturbi d’ansia.
Il DSM-III-R (5), uscito nel 1988, elimina la dicotomia tra Disturbi Fobici e Stati d’Ansia e mantiene sostanzialmente tutte le sotto categorie diagnostiche del DSM-III perfezionando, con piccole modifiche, i criteri diagnostici operativi precedenti.
Il DSM-IV, uscito nel 1996, amplia notevolmente il numero delle sotto categorie diagnostiche del DSM-III-R aggiungendo alcune nuove sindromi: il Disturbo Acuto da Stress, il Disturbo d’Ansia Dovuto ad una Condizione Medica Generale, il Disturbo d’Ansia Indotto da Sostanze. Inoltre, inserisce tra i disturbi NAS, il Disturbo misto Ansioso-Depressivo.
Come si vede, con il DSM-IV, molte condizioni cliniche di ansia, precedentemente incluse nel GAD, sono state classificate come nuove categorie, riducendo potenzialmente il numero delle diagnosi di GAD. In questo contesto il GAD sembra assumere una configurazione di “categoria residua” da utilizzare quando tutte le altre diagnosi di disturbo d’ansia siano state escluse.
Il GAD: problemi dell’inquadramento categoriale
L’applicazione sistematica dei criteri categoriali previsti dal DSM per l’inquadramento dei disturbi d’ansia ha facilitato la diagnosi a fini comunicativi o a fini epidemiologici, ha suggerito la possibilità di interventi specifici per ogni sottogruppo categoriale ma ha lasciato aperti molti problemi a livello clinico.
Anzitutto ha posto il problema dell’inquadramento delle condizioni di ansia che si accompagnano quasi costantemente a gran parte dei disturbi psichiatrici ed in particolare ai disturbi dello spettro depressivo. Stabilire se una condizione di “ansia” ha un carattere “primario” o “secondario” ad altri disturbi ha una notevole importanza ai fini terapeutici.
Consapevoli di questo problema, gli estensori del DSM-IV hanno introdotto un criterio “gerarchico” per quanto riguarda la diagnosi di GAD.
Il criterio “D” del DSM-IV esclude infatti la diagnosi di GAD se l’oggetto dell’ansia sono le manifestazioni di alcuni disturbi di asse I inquadrati in altri disturbi d’ansia e in taluni disturbi somatoformi. I quadri di ansia generalizzata che si accompagnano ad altri disturbi di asse I dovrebbero invece essere diagnosticati come condizioni di “comorbidità”.
Nella clinica il sintomo ansia (paura, timore, preoccupazione) si accompagna in realtà a quasi tutti i disturbi in asse I e a gran parte delle malattie somatiche come reazione ad una condizione di sofferenza soggettiva o al timore delle conseguenze del proprio stato. In alcuni casi il sintomo può assumere la dignità categoriale del GAD ma la sua indipendenza dal disturbo in asse I “primario” non è sempre facilmente valutabile.
Nel DSM inoltre, come avviene anche per altri disturbi di asse I, nella creazione della categoria GAD, necessariamente non si tiene conto delle forme “attenuate” del disturbo o delle “forme subsindromiche”. Le forme subsindromiche del GAD tuttavia, rappresentano probabilmente la maggior fonte di richieste di aiuto psichiatrico nell’ambito dei disturbi d’ansia, sono quasi sempre oggetto di trattamento sintomatico con BDZ e rappresentano una causa di disfunzione sociale, familiare e lavorativa molto sottovalutata. D’altra parte esse sono solo quantitativamente ma non qualitativamente differente dalla categoria GAD ed hanno quindi i medesimi meccanismi patogenetici di quest’ultima.
Autonomia diagnostica del GAD
In alcuni studi epidemiologici la categoria diagnostica definita dal DSM come GAD ha mostrato una prevalenza ad un anno variabile tra 4,2 e 6,6 nella popolazione generale. Inoltre si è visto che, nelle cliniche per disturbi d’ansia, circa il 12% delle diagnosi è di GAD (6). Il GAD ha inoltre le caratteristiche di un disturbo di lunga durata, con tendenza alla cronicizzazione e con una percentuale di remissioni a cinque anni relativamente bassa, pari al 38% del totale (7).
Il problema dell’inquadramento diagnostico dell’ansia generalizzata, della valutazione di gravità, dell’interpretazione dei rapporti di dipendenza-indipendenza con altri disturbi e soprattutto della specificità della sua terapia appare più complesso rispetto a quello di altri disturbi dello spettro. Secondo alcuni autori infatti è addirittura lecito chiedersi se l’entità categoriale GAD sia o meno sostenuta da evidenze dirette in grado di confermarne la autonomia diagnostica come sindrome.
Classicamente, a seguito delle prime dimostrazioni di Klein (8) circa la possibilità di operare una “dissezione farmacologica” dei disturbi d’ansia, si tendeva ad inquadrare il GAD come un target selettivo per il trattamento con benzodiazepine (BDZ). Questa presunta risposta selettiva del GAD, che si ipotizzava potesse essere associata a sottostanti meccanismi patogenetici specifici, sembrava in grado di delineare una certa autonomia diagnostica per questo disturbo. Netta infatti, ad esempio, era la possibilità di differenziare questo disturbo dalle manifestazioni dell’area del panico, che invece non rispondevano alle benzodiazepine, ma apparivano responsive ai trattamenti con gli antidepressivi.
Più recentemente tuttavia si è osservato che le BDZ, per quanto abbiano un’indubbia efficacia nella terapia del GAD, potrebbero tuttavia avere esclusivamente una funzione sintomatica e aspecifica.
È risultato infatti evidente che, anche nel GAD, il trattamento con i farmaci AD si caratterizza per una potente azione antiansia (9,10,11). Questa, nel confronto con quella ottenibile con le BDZ, ha mostrato una superiorità nella componente di “ansia psichica”, mentre quella delle BDZ sembra indirizzata in modo più specifico sulla componente dell’ansia somatica (12).
Sembra quindi che i dati di “dissezione farmacologica” in precedenza considerati specifici per il GAD, non siano in realtà propriamente tali. Lo spettro di risposta farmacologica infatti presenta alcune similitudini, ad esempio, con alcuni elementi rinvenibili anche in quello del Disturbo di Panico.
Se tuttavia si esaminano gli studi controllati relativi all’efficacia di Buspirone, farmaco agonista parziale dei recettori 5-HT1A del rafe si vede che il GAD risponde in modo significativo a questa molecola (13-15), che invece è di scarsa efficacia nella terapia del Disturbo di Panico (16-18).
I dati relativi alla dissezione farmacologica del GAD danno alcune risposte ma pongono anche alcuni problemi.
La rapida risposta alle BDZ e ai farmaci non benzodiazepinici attivi sul sistema GABA depone per una relativa specificità del coinvolgimento di questo sistema nell’ansia generalizzata. La riduzione dell’efficacia a lungo termine di questi trattamenti e l’efficacia dei farmaci attivi sul sistema della serotonina, indica la possibilità che sia presente una up-regulation dei recettori 5-HT1A presinaptici, come elemento patogenetico del GAD.
L’aumento della concentrazione sinaptica di 5-HT porterebbe alla normalizzazione recettoriale e alla regressione della condizione di ansia. Il problema è che il medesimo meccanismo è stato addotto per spiegare l’efficacia antidepressiva dei medesimi farmaci. Una possibile soluzione di questo problema è stata suggerita dal modello di Deakin (19,20) che prevede funzioni di controllo differenziate da parte del nucleo mediano e del nucleo dorsale del rafe rispettivamente sull’ansia e sulla depressione. La up-regulation dei recettori 5-HT1A riguarderebbe essenzialmente il nucleo mediano e su di essa agirebbero i farmaci SSRI. Una indiretta conferma di questo possibile meccanismo viene dall’azione differenziata sul GAD e sulla depressione da parte di farmaci agonisti parziali dei recettori 5-HT1A.
Allo stato attuale delle conoscenze ciò depone per una relativa specificità dei meccanismi patogenetici dell’ansia primaria caratterizzata nel suo insieme da una risposta positiva ai GABAergici e ai farmaci SSRI e da una risposta negativa agli agonisti 5-HT1A e, probabilmente ai farmaci noradrenergici selettivi.
L’ansia generalizzata come dimensione psicopatologica
Come è stato osservato, l’attuale inquadramento nosografico del GAD come categoria pone alcuni problemi.
In primo luogo non è ancora chiaro se il GAD, così come è definito nel DSM-IV, vada considerato come un disturbo indipendente da altri disturbi d’ansia, nosograficamente autonomo e con possibili meccanismi patogenetici specifici.
Valutare se un quadro di “ansia generalizzata” sia un “sintomo” o una “malattia” ha profonde implicazioni a carattere terapeutico. Infatti, se un quadro di ansia è un sintomo secondario indotto da un altro disturbo, la terapia dell’ansia potrà essere “sintomatica” mentre la terapia “patogenetica” andrà centrata sul disturbo di base. Al contrario, se l’ansia generalizzata è un’entità nosografica sindromica indipendente essa andrà trattata con terapie “patogenetiche” per essa specifiche.
Inoltre, occorre chiarire se il quadro sindromico del GAD rappresenti una semplice esacerbazione temporanea di una condizione di personalità e di temperamento meglio classificabile in Asse II, secondo i criteri multiassiali del DSM-IV. Il problema è che il DSM-IV, nella sua discutibile classificazione dei disturbi di personalità non prevede, contrariamente ad ogni evidenza clinica, l’esistenza di un “Disturbo ansioso di Personalità”.
Ciò che oggi viene definito GAD potrebbe quindi essere un’entità clinica indipendente, che tuttavia potrebbe avere manifestazioni attenuate (o subsindromiche) permanenti, definibili come “tratti” o “disturbi di personalità”. Oppure si potrebbe trattare di un disturbo di personalità, analogo ad altri disturbi del DSM-IV, in grado tuttavia di dar luogo a temporanei aggravamenti sintomatologici, ma che non giungono mai a soddisfare tutti i requisiti di un disturbo di Asse I.
Anche in questo caso, le implicazioni terapeutiche potrebbero essere diverse, in quanto un’entità clinica indipendente richiede una terapia patogenetica mentre una semplice esacerbazione di tratti di personalità dovuta a cause contingenti può essere controllata anche con terapie di tipo sintomatico.
Un ulteriore problema è rappresentato dalla co-morbidità del GAD con altri disturbi psichiatrici di Asse I, ed in particolare con i disturbi dello spettro depressivo.
È stato rilevato che il 90% dei pazienti con diagnosi di GAD presentano una co-morbidità con altri disturbi psichiatrici, in particolare con altri disturbi d’ansia e con i disturbi depressivi (21).
Per quanto riguarda la co-morbidità con altri disturbi d’ansia essa oscilla tra l’80 e il 90% dei casi, suggerendo la possibilità che tutti i quadri sindromici identificati e descritti nelle attuali classificazioni possano avere una matrice patofisiologica comune.
Di maggiore interesse sono i dati di comorbidità del GAD con i disturbi dello spettro depressivo. I risultati del National Comorbidity Study (22) hanno mostrato come i pazienti con diagnosi di GAD abbiano una comorbidità “lifetime” del 62% con la depressione maggiore e di quasi il 40% (39,5%) con la distimia.
Un altro studio epidemiologico (23), che ha distinto GAD primario (comparso prima di altri disturbi d’ansia) e GAD secondario (comparso successivamente ad essi) ha messo in rilievo, per il GAD primario una comorbidità pari al 60% per i disturbi depressivi maggiori, al 15% per i disturbi depressivi intermittenti, e al 14% per i disturbi depressivi minori, per un totale pari all’89%.
Il dato obiettivo di una comorbidità molto alta, sia trasversale che longitudinale, tra GAD e disturbi dello spettro depressivo e la osservazione clinica della presenza di sintomi d’ansia nei disturbi depressivi e di sintomi depressivi nel GAD, ha portato il DSM-IV a includere tra i disturbi d’ansia NAS la nuova categoria diagnostica (meglio specificata nei “criteri di ricerca” per nuove categorie) del Disturbo Misto Ansioso Depressivo.
Un livello così elevato di comorbidità tra GAD e disturbi dello spettro depressivo, e le regole diagnostiche restrittive che riguardano il GAD, pongono evidentemente in crisi la sua classificazione categoriale e richiedono, soprattutto per fini terapeutici, un approccio differente.
Passando da un’ottica di tipo “categoriale” ad una visione “dimensionale” del problema, le tecniche statistiche di tipo multivariato hanno tentato di dare una migliore risposta alla coesistenza, con frequenza elevata, di sintomi di tipo “ansioso” e di tipo “depressivo”.
Un’indagine condotta da Goldberg (24) su di un campione esteso di popolazione aveva isolato un fattore comune di ansia e depressione che spiegava il 21% della varianza totale. L’autore ne aveva dedotto che ansia e depressione appartenevano ad un’unica dimensione psicopatologica. In uno studio successivo, condotto sempre su di un campione esteso di popolazione normale (25) un’analisi dei componenti principali ha messo in evidenza tre fattori indipendenti statisticamente: un fattore A (ansia e preoccupazione), un fattore B (bassa autostima, vissuti di incapacità) e un fattore C (depressione, perdita della speranza).
Uno studio più recente, condotto su pazienti psichiatrici con diagnosi di disturbi d’ansia e di disturbi depressivi, ha confermato i dati relativi a popolazioni normali individuando la presenza di due dimensioni psicopatologiche, ansia e depressione statisticamente indipendenti e con profili clinici separati, anche se in parte sovrapponibili (6).
Una serie di analisi fattoriali effettuate su vari gruppi di pazienti affetti da disturbi dello spettro depressivo hanno mostrato come, nella depressione, esistono tre dimensioni psicopatologiche dominanti: Umore depresso, Aggressività, Ansia libera o somatizzata (26). La dimensione “ansia” sembra inoltre caratterizzata dalla presenza di due componenti, una di ansia psichica ed una di ansia somatizzata.
Le analisi fattoriali confermano quindi l’esistenza di due dimensioni psicopatologiche indipendenti, una caratterizzata da paura, tremore, preoccupazione e angoscia ed una caratterizzata da tristezza, umore depresso, vissuti di colpa.
In questa ottica, entrambe le dimensioni sono presenti in tutti i pazienti con disturbi sia depressivi che ansiosi, ma l’una o l’altra possono essere dominanti in modo relativo o assoluto in specifici gruppi di pazienti. Il disturbo categoriale denominato “Ansia Generalizzata” si situa ad uno degli estremi di questo continuum, mentre il disturbo categoriale “Depressione Maggiore” si situa all’altro estremo.
L’elevata “comorbidità” categoriale tra GAD e disturbi dello spettro depressivo trova così una sua più completa spiegazione nelle analisi dimensionali. Ansia-Paura e Umore Depresso-Tristezza coesistono in tutti i pazienti dei due spettri categoriali ma in rapporto diverso nei singoli casi clinici.
I costrutti che fanno da base concettuale all’impalcatura teorica su cui si fonda il raggruppamento sindromico del GAD, sembrano quindi confermabili dai risultati delle analisi statistiche multivariate. È comunque possibile che in una futura revisione della nosografia dei disturbi d’ansia, nella posizione in cui attualmente è collocato il GAD, si possa proporre l’inserimento di ulteriori “sottosindromi”, così come è avvenuto in passato. Ad esempio, vi è motivo di ritenere che, nell’ambito attuale del cluster sintomatologico del GAD possa essere distinto un “Disturbo da ansia psichica” e un “Disturbo da Ansia Somatica”.
È stato detto che il GAD è una entità nosografica destinata ad assumere sempre minore importanza fino a raggiungere i caratteri di una “categoria” in via di estinzione. Ciò può essere vero in un’ottica di frammentazione “categoriale” come quella attualmente dominante nella serie dei DSM, ma l’ansia assume un’importanza e una dominanza completamente diverse se viene considerata come una dimensione indipendente.
Come dimensione indipendente essa infatti diventa un “target” specifico per interventi “patogenetici specifici” e non solo sintomatici. Va ricordato a questo proposito che per lungo tempo, ed in particolare fin dall’introduzione delle benzodiazepine, l’ansia, sia nella sua prospettiva categoriale (GAD) che nella sua prospettiva dimensionale (Dimensione Paura), è stata sempre trattata a breve termine in modo sintomatico quasi sempre con conseguenze negative.
Ruolo di serotonina nella regolazione dell’ansia: evidenze sperimentali e cliniche
Le evidenze indicative di un coinvolgimento della trasmissione serotonergica nell’ansia provengono sia da studi condotti su animali di laboratorio, sia da studi clinici condotti su pazienti affetti da disturbi riferibili a questa area diagnostica.
Il principale problema metodologico degli studi sulla psicobiologia dell’ansia e della depressione condotti su animali di laboratorio, consiste nel fatto che la condizione emotiva dell’animale deve essere estrapolata esclusivamente dall’osservazione del suo comportamento (27). Fanno parte di questi test di laboratorio, fondamentalmente due gruppi di modelli di comportamento animale: quelli basati sul comportamento condizionato (nei quali le risposte sono controllate da procedimenti di condizionamento operante) e quelli basati sul comportamento incondizionato (nei quali vengono valutate alcune reazioni comportamentali spontanee, la cui emissione non richiede alcun training specifico). I modelli comportamentali del primo gruppo generalmente si basano sull’introduzione di una situazione di conflitto nel repertorio comportamentale dell’animale. L’applicazione di questi modelli nelle ricerche in cui si è cercato di individuare il ruolo dalla serotonina nella psicobiologia dell’ansia, prevedeva lo studio delle modificazioni comportamentali indotte da un incremento o da una riduzione dell’attività di questo trasmettitore. In queste ricerche la condizione di “paura” condizionata nell’animale esposto a questi modelli sperimentali, è stata considerata simile all’esperienza umana dell’ansia.
Evidenze sperimentali: riduzione della trasmissione serotonergica
È possibile operare una riduzione del tono serotonergico mediante differenti interventi farmacologici, attuati a livello di varie strutture di questo sistema neurotrasmettitoriale. Ad esempio, è possibile bloccare il recettore serotonergico post-sinaptico mediante un antagonista recettoriale, oppure utilizzando la paraclorofenilalanina (PCPA) è possibile inibire la sintesi della serotonina, o, in ultimo, è possibile distruggere selettivamente dei neuroni serotonergici mediante alcune tossine specifiche (ad esempio la 5,7-diidrossitriptamina: DHT). Tutte queste possibili modalità d’intervento per ridurre la trasmissione serotonergica sono state testate nell’animale mediante la loro applicazione sui modelli sperimentali di ansia.
È stato osservato che il trattamento dell’animale con antagonisti non specifici del recettore 5HT2, come ad esempio la metisergide, la cinanserina, la ciproeptadina, la metergolide ed il ritanserin (antagonista misto 5HT2a/5HT2c), non determina modificazioni comportamentali significative: l’attività ansiolitica di queste sostanze risulta infatti molto inferiore a quella delle BDZ. Un effetto ansiolitico è stato invece rilevato in alcuni studi in cui, mediante la PCPA, era stata inibita la sintesi della serotonina (28). È stato osservato inoltre, che questo effetto può essere antagonizzato dalla somministrazione di 5-idrossitriptofano (5HTP: un precursore della serotonina) (29), o da quella degli antagonisti del recettore 5HT1a 5-metossi-dimetil-triptamina (5MeODMT) e 8-idrossi-depropilamino-tetralina (8OHDAPAT) (30). La rilevazione che l’incremento del tono noradrenergico e dopaminergico, ottenuto mediante la diidrossifenilalanina (DOPA: precursore sia della DA che della NE), non antagonizza l’effetto ansiolitico della PCPA, indica che le catecolamine non sono coinvolte nel meccanismo d’azione ansiolisitico di questa sostanza (31).
Anche i risultati di alcuni esperimenti in cui sono state lesionate zone ricche di neuroni serotonergici, hanno confermato l’effettivo coinvolgimento della trasmissione serotonergica nella regolazione dell’ansia. Infatti è stato osservato che dopo 10-14 giorni dalla somministrazione di alcune neurotossine in grado di ledere selettivamente i neuroni serotonergici, alla comparsa delle lesioni si associava una riduzione delle risposte ansiose evocabili nell’animale di laboratorio esposto ai modelli sperimentali di ansia (32). In particolare, a distanza di 12 giorni dalla provocazione per mezzo della DHT di lesioni dei neuroni serotonergici del rafe dorsale, poteva essere rilevata la comparsa di un effetto ansiolitico significativo. Questo effetto invece non si osserva quando le lesioni venivano apportate ai neuroni del rafe mediano (33). I risultati di questi studi pertanto, indicano che i neuroni serotonergici localizzati in differenti raggruppamenti sono caratterizzati da una differente specificità funzionale, con un probabile maggior coinvolgimento nei meccanismi patofisiologici dell’ansia dei sistemi del rafe dorsale. Al contrario, dal momento che alla distruzione dei neuroni catecolaminergici non si associa alcun effetto ansiolitico, sembra poco probabile che questo sistema neurotrasmettitoriale sia coinvolto nella patofisiologia dei disturbi d’ansia (34).
Evidenze sperimentali: incremento della funzione serotonergica
Successivamente alla dimostrazione che la riduzione del tono serotonergico determina un effetto ansiolitico, è stato ipotizzato che, al contrario, un suo incremento avrebbe potuto invece determinare un effetto ansiogeno. In effetti la somministrazione degli agonisti serotonergici-metil-triptamina, m-cloro-fenilpiperazina, fenfluramina e 5MeODMT, determina la comparsa nell’animale sperimentale di modificazioni comportamentali che, come ad esempio l’inibizione motoria, indicano un effetto ansiogeno (35). L’MCPP, un agonista non selettivo dei recettori 5HT2c, determina effetti ansiolitici solamente nei modelli sperimentali di conflitto e di interazione sociale, mentre è privo di questa attività, o è addirittura ansiogeno, negli altri modelli (36). La sua applicazione locale sull’ippocampo determina la comparsa di una reazione di ansia, che può tuttavia essere antagonizzata dagli antagonisti non selettivi del recettore 5HT2 ciproeptadina e metergolina, ma non dalla ketanserina, un antagonista selettivo del recettore 5HT2a. Queste osservazioni pertanto indicano che l’attività ansiogenica dell’MCPP sembrerebbe mediata dai recettori 5HT2c.
Evidenze cliniche
I risultati degli studi condotti sui modelli sperimentali dell’ansia hanno dimostrato chiaramente che questa condizione si associa ad un incremento funzionale della trasmissione serotonergica. Questa possibilità è stata confermata anche dai risultati di una serie di studi clinici, condotti su pazienti affetti da disturbi d’ansia di vario tipo (panico, fobia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo post-traumatico da stress ed ansia generalizzata), nei quali sono stati indagati una serie parametri biologici, indicativi del livello di attività di questa via neurotrasmissiva.
In pazienti con sintomi di ansia di panico, ad esempio, è stata effettuata la misurazione dei valori di concentrazione liquorale di acido 5-idrossi-indolacetico (5HIAA), il principale metabolita della serotonina, valutazione che permette di ottenere delle informazioni molto attendibili sul metabolismo centrale della serotonina. Questo parametro non ha tuttavia evidenziato differenze significative rispetto ai livelli individuati in volontari sani (37). Questo dato, che sembrerebbe indicativo di un mancato coinvolgimento della trasmissione serotonergica nella patofisiologia del panico, contrasta tuttavia con l’incrementata sensibilità dei recettori serotonergici, che può essere rilevata mediante dei test di stimolazione neuroendocrina. In queste indagini la sensibilità recettoriale viene misurata mediante vari tipi di agonisti recettoriali: triptofano e 5-idrossi-triptofano (precursori della serotonina), fenfluramina (potenziatore del firing serotonergico) ed MCPP (agonista recettoriale non selettivo). La rilevazione delle modificazioni neuroendocrine o comportamentali indotte dall’agonista somministrato, permette di quantificare lo stato di attivazione funzionale dei recettori serotonergici centrali.
I risultati di questi studi indicano che nei pazienti affetti da disturbo di panico è presente un incremento della sensibilità recettoriale del sistema serotonergico. Infatti la somministrazione di MCPP (38) e di fenfluramina (39), contrariamente a quanto accade nei soggetti sani o nei pazienti con depressione, determina un incremento dell’ansia e della liberazione di cortisolo e prolattina. Una analoga risposta neuroendocrina può essere indotta stimolando i recettori serotonergici mediante il 5HTP (precursore della serotonina) (40). L’esacerbazione dell’ansia di panico determinata da questi agonisti recettoriali sembra molto simile a quella che può essere osservata con una certa frequenza, nel corso della prima settimana di trattamento di questi pazienti con un SSRI.
Anche in un altro importante disturbo d’ansia, la fobia sociale, l’efficacia dimostrata dagli SSRI ha aperto il campo alla formulazione di ipotesi circa il possibile ruolo della serotonina nella patogenesi di questo disturbo. La recente osservazione clinica condotta in pazienti in trattamento con clozapina, farmaco dotato di effetto antagonista sui recettori 5HT2 post-sinaptici, dell’emergenza di sintomi fobico sociali e della loro reversibilità dopo somministrazione di fluoxetina (41), in effetti, conferma l’effettiva presenza di un meccanismo serotonergico nella patogenesi di questo disturbo d’ansia. I pazienti con sintomi fobico sociali inoltre, al confronto con controlli sani, esibiscono un incremento dell’ansia se esposti alla fenfluramina, un farmaco in grado di favorire il rilascio della serotonina, ed all’m-CPP, un agonista del recettore serotonergico. La risposta secretoria della prolattina ad entrambe le sostanze, tuttavia, appare normale. Ciò sembra quindi indicativo della presenza nella fobia sociale di una condizione di ipersensibilità dei recettori 5HT-2, come fattore associato all’incrementata sensibilità all’ansia, mentre i recettori 5HT-1, che sono responsabili della secrezione di prolattina, sembrano invece essere normali (42).
Relativamente al disturbo ossessivo-compulsivo, le alterazioni del sistema serotonergico, ed in particolare l’ipersensibilità dei recettori 5HT post-sinaptici, hanno rappresentato l’ipotesi eziologica maggiormente accredita sin dalla metà degli anni ’80. Questo modello è stato supportato dai risultati di studi in cui si è osservata l’esistenza di una correlazione tra la risposta al trattamento con clomipramina e la riduzione dell’acido 5-idrossi-indolacetico (5-HIAA) nel liquor e dalla dimostrazione della capacità della mCPP, un composto dotato di levata affinità per i recettori 5-HT1A, 1D, 2C, di indurre una riesacerbazione della sintomatologia ossessiva in pazienti non trattati. Questi dati sembrano confermare l’esistenza di una ipersensibilità serotonergica nei pazienti ansiosi con sintomi ossessivo-compulsivi (43).
Analoghe conferme circa un ruolo della trasmissione serotonergica sono state ottenute anche in una serie di studi condotti su pazienti con diagnosi di disturbo post-traumatico da stress, altra patologia dell’area dei disturbi d’ansia, recentemente resa oggetto di numerose indagini. Arora (44), in un gruppo di reduci dal Vietnam affetti da questa sintomatologia, ha rilevato una riduzione sia della Kd che della Bmax per la 3H-paroxetina (paroxetina triziata). La Kd rappresenta una misura inversa dell’affinità di legame della paroxetina per il sito di uptake, mentre la Bmax è la misura indicativa del numero di binding siets. Quindi in questi pazienti si verifica una riduzione del numero dei siti ed un incremento della loro affinità. L’effettiva importanza clinica di questa osservazione viene confermata dai risultati di un altro studio condotto su pazienti con analoga sintomatologia (45). Gli autori di questa indagine hanno infatti riportato dell’esistenza di una correlazione tra l’entità della risposta ad un trattamento condotto con fluoxetina e quella del binding della paroxetina triziata misurato in pre-trattamento. La migliore risposta fu infatti rilevata nei soggetti che in pre-trattamento avevano evidenziato i più bassi valori Kd e di Bmax. Una ulteriore conferma della presenza di un coinvolgimento della trasmissione serotonergica nel disturbo post-traumatico da stress viene dai risultati di un’altra indagine (46), più recente, in cui si è visto che la somministrazione di m-CPP, un agonista dei recettori 5HT-2, ma non di placebo, provoca un’accentuazione dell’intensità dei sintomi in pazienti con questa diagnosi.
Relativamente all’ansia generalizzata occorre segnalare come da parte di molti autori l’effetto ansiolitico delle benzodiazepine sia stato posto in relazione alla loro capacità di rallentare la neurotrasmissione serotonergica (47). Inoltre, in un gruppo di 45 pazienti con diagnosi di GAD, la misurazione dei livelli urinari del 5HIAA, il principale metabolita della serotonina, ha evidenziato una correlazione tra i livelli stessi e l’intensità di alcuni sintomi del disturbo d’ansia (48). Sul piano della risposta ai farmaci, è di conferma per la presenza di un coinvolgimento della serotonina nella patogenesi dell’ansia generalizzata, l’efficacia ansiolitica dimostrata dalla serazepina (49), un inibitore altamente specifico del recettore 5HT-2, in un trial multicentrico condotto su pazienti affetti da questo disturbo.
Trattamento dell’ansia: terapia sintomatica e terapia patogenetica
Le terapie in medicina possono essere etiologiche (quando agiscono sulla causa della malattia), patogenetiche (quando agiscono sui suoi meccanismi) e sintomatiche (quando agiscono per controllare singoli sintomi della malattia). In psichiatria i farmaci psicoattivi oggi disponibili agiscono a livello o sintomatico o patogenetico mentre non sono ancora disponibili terapie etiologiche.
Mentre tuttavia in medicina è chiara ad ogni medico questa differenza tra approcci terapeutici, ciò non si verifica in psichiatria, e il caso della terapia dell’ansia è in questo senso esemplare. La farmacoterapia dell’ansia può infatti essere descritta in tre fasi successive.
La prima fase è stata caratterizzata dall’uso di farmaci sedativi aspecifici, dotati quasi sempre di elevata tossicità, caratterizzati dall’induzione di gravi sintomi collaterali e con elevato rischio di dipendenza. I barbiturici ne sono l’esempio storico più evidente. In questa prima fase la terapia era evidentemente solo sintomatica, non era certamente specifica per la dimensione ansia ma tendeva esclusivamente a controllare ogni forma di iperattività motoria o psichica del paziente.
La seconda fase coincide con la scoperta delle BDZ prima, e con quella degli ansiolitici non benzodiazepinici successivamente.
Le BDZ hanno mostrato di possedere efficacia ansiolitica, miorilassante e ipnoinducente, associata ad un’elevata tollerabilità e sicurezza. Il loro meccanismo di azione è apparentemente “fisiologico” in quanto potenziano l’azione del principale sistema neurotrasmettitoriale inibitorio, il GABA, agendo, tramite recettori specifici, sulla permeabilità ionica dei canali di membrana.
Le BDZ, per queste ragioni, sono stati identificate fin dalla loro prima introduzione in commercio come terapie specifiche per ogni forma di ansia e inserite nella tradizionale (anche se ormai obsoleta) classificazione che suddivide i farmaci psicoattivi in ansiolitici, antidepressivi e antipsicotici.
Non solo, ma la loro evidente efficacia sull’ansia e la spiegazione farmacodinamica del loro meccanismo di azione ha portato alla formulazione di un’ipotesi GABA-ergica dell’ansia, alla base della quale vi sarebbe stata una disfunzione “primaria” di questo sistema. Le BDZ venivano così identificate come farmaci di tipo “patogenetico” per tutti i disturbi d’ansia. Da qui la loro enorme diffusione a livello commerciale.
La terza fase segue la nuova nosografia dei disturbi d’ansia introdotta dal DSM-III, quando cominciano ad essere pubblicati i primi dati relativi all’efficacia, superiore a quella delle BDZ, di alcuni farmaci “antidepressivi” (AD) nella terapia di uno specifico disturbo di ansia, il disturbo di panico.
Successivamente, le terapie con farmaci AD vengono sperimentate con successo in un numero crescente di disturbi dello spettro d’ansia. Disturbo di panico, agorafobia, disturbo post-traumatico da stress, fobia sociale, mostrano di rispondere in modo più evidente e persistente alla terapia con vari farmaci antidepressivi anche se con modalità diverse rispetto a quelle delle BDZ. Nel contesto terapeutico, queste ultime appaiono sempre di più come farmaci “sintomatici”, mentre gli “antidepressivi” si configurano come farmaci di tipo “patogenetico”.
Questi risultati terapeutici hanno naturalmente cambiato i modelli interpretativi patogenetici dei disturbi d’ansia.
La latenza terapeutica, la stabilità dei risultati, la risposta differenziata in rapporto ai parametri di stato e decorso simili a quelli della risposta ai medesimi farmaci nella depressione, hanno fatto ipotizzare che i meccanismi patogenetici di alcuni disturbi d’ansia abbiano analogie con quelle dei disturbi depressivi.
Attualmente vi è una consolidata evidenza clinico sperimentale che la terapia di molti disturbi d’ansia va centrata nell’uso di farmaci “antidepressivi” specifici, mentre il ruolo delle BDZ deve essere considerato semplicemente sintomatico.
Il ruolo delle benzodiazepine
Per quanto riguarda il GAD, anche dopo l’introduzione dei farmaci AD nella terapia di specifici disturbi dello spettro d’ansia, si è continuato per molto tempo a ritenere che le BDZ (o gli ansiolitici non benzodiazepinici) fossero una terapia specifica per questo disturbo. A questa opinione, tuttora condivisa da molti clinici, ha contribuito la difficoltà nosografica di stabilire con precisione i limiti diagnostici del GAD, il problema dell’inquadramento dell’ansia come “sintomo” o come malattia, ma soprattutto l’indubbia efficacia delle BDZ nel controllare in modo rapido ed efficace l’ansia generalizzata. Infatti l’efficacia delle benzodiazepine nel trattamento “sintomatico” a breve termine dell’ansia è ampiamente documentata da numerosissimi studi condotti nel corso degli ultimi 30 anni, per un’estesa rassegna dei cui risultati si rimanda ad opportune reviews (50,51).
Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, i ben noti problemi relativi all’uso protratto delle BDZ hanno portato ad un approccio al problema della terapia del GAD analogo a quello utilizzato negli altri disturbi d’ansia, nei quali sono stati man mano dimostrati gli effetti significativi ottenibili con farmaci appartenenti ad altre categorie.
Attualmente il trattamento dell’ansia con benzodiazepine rimane di prima scelta, per la gestione a breve termine (meno di 4 settimane) di stati di ansia “situazionale”, oppure per il contenimento “sintomatico” dell’ansia, nel corso della fase di latenza clinica che occorre attendere prima che si verifichi la comparsa degli effetti terapeutici utilizzando farmaci ansiolitici “patogenetici”, come gli antidepressivi.
Il ruolo del buspirone
La proprietà farmacodinamica del buspirone, che ne caratterizza il meccanismo d’azione, è rappresentata dall’azione mista agonista-antagonista (agonista parziale a livello pre-sinaptico e antagonista a livello post-sinaptico) sui recettori 5HT. Questa molecola è stata oggetto di numerosi trials clinici controllati, condotti su un numero molto ampio di pazienti, per verificarne le sue potenzialità d’impiego nel GAD (52). In questo settore, a causa di una dimostrata efficacia, il buspirone si è conquistato a ragione il titolo di farmaco con un ruolo specifico. La sua attività “anti-ansia” è stata comparata con quella del diazepam (53), dell’oxazepam (54), del lorazepam (55), dell’alprazolam (56) e del clobazam (57). I risultati di questi studi hanno costantemente indicato un’efficacia sulla sintomatologia del GAD paragonabile a quella della benzodiazepina con cui il buspirone è stato di volta in volta posto a confronto. L’effetto terapeutico si è inoltre mostrato stabile nel tempo, essendosi mantenuto costante in trattamenti prolungati fino ad oltre 12 mesi di osservazione (58). Rispetto alle benzodiazepine il buspirone presenta una minore attività sedativa ed una minore compromissione della performance, con assenza di potenzialità all’induzione di condotte di abuso o di fenomeni di withdrawal alla sospensione. A livello clinico tuttavia, l’efficacia del buspirone si esplica secondo modalità piuttosto differenti da quelle tipiche delle benzodiazepine. Infatti, mentre se per queste ultime la comparsa dell’effetto terapeutico è immediata, la somministrazione del buspirone al contrario determina la sua comparsa sui sintomi del GAD dopo un periodo di latenza di circa 2-3 settimane, analogamente agli antidepressivi (59).
Queste caratteristiche cliniche, unitamente al profilo di attività farmacodinamica selettivo per la trasmissione serotonergica, sembrano caratterizzare questo composto come un “ansiolitico patogenetico”. Questi dati inoltre lasciano aperti interessanti e stimolanti interrogativi su quanta parte dell’efficacia del buspirone sui sintomi d’ansia sia basata su dei meccanismi d’azione, in parte condivisi anche dai farmaci classicamente classificati come “antidepressivi”.
Terapia dell’ansia con farmaci “antidepressivi”
La letteratura sul trattamento del GAD attraverso farmaci classicamente classificati come “antidepressivi” risulta piuttosto ampia. Molecole come imipramina, clorimipramina ed SSRI, hanno dimostrato di possedere un’efficacia uguale o superiore a quella delle benzodiazepine nel trattamento del GAD a medio e a lungo termine. Questa capacità di operare un contenimento sulla sintomatologia ansiosa compare tuttavia dopo un periodo di latenza di durata analoga a quello necessario per la comparsa dell’effetto antidepressivo. Questa lunga latenza può in alcuni casi rendere necessario l’impiego contemporaneo di benzodiazepine nel corso delle prime fasi del trattamento.
Imipramina
Nell’ambito della terapia del GAD con antidepressivi, l’imipramina è sicuramente il farmaco studiato più estesamente. Questo farmaco è stato confrontato con alcune benzodiazepine (clordiazepossido, alprazolam e diazepam) e con il trazodone, in tre studi controllati. Il primo studio (60) ha posto a confronto imipramina, placebo e una benzodiazepina, il clordiazepossido. I risultati hanno messo in evidenza una superiorità dell’imipramina sia nei confronti del placebo che del clordiazepossido, fin dalla seconda settimana di trattamento e indipendentemente dalla presenza di una sintomatologia depressiva.
Un secondo studio (61) ha confrontato imipramina e alprazolam in una popolazione di pazienti selezionati sulla base di criteri diagnostici molto precisi. Entrambi i farmaci hanno indotto una significativa e globale riduzione dell’ansia. Secondo gli autori tuttavia, l’azione dell’alprazolam sembrava diretta in modo apparentemente più selettivo sui sintomi somatici dell’ansia, mentre l’imipramina era invece diretta su quelli psichici.
Il terzo studio (62), più recente, è stato condotto su una popolazione sperimentale particolarmente ampia (230 pazienti GAD), arruolata in base a dei criteri di selezione diagnostica molto rigorosi. In questa indagine è stata effettuata una comparazione di efficacia tra imipramina (dosaggio medio 143 mg/die), trazodone (dosaggio medio 225 mg/die) e diazepam (dosaggio medio 26 mg/die). I risultati hanno confermato un’azione iniziale più rapida del diazepam soprattutto sui sintomi somatici dell’ansia, seguita tuttavia da una relativa superiorità dell’imipramina, rilevabile nei confronti del diazepam e, in minor misura, del trazodone, dopo l’8a settimana di trattamento.
In uno studio aperto (63) imipramina ed alprazolam sono stati confrontati centrando la valutazione di efficacia sui sintomi somatici del GAD. Entrambi i trattamenti hanno indotto una riduzione dei sintomi somatici soggettivi correlati all’ansia. Mentre nei pazienti trattati con alprazolam si osservava una parallela riduzione dei parametri di attivazione neurovegetativa registrati con metodi obiettivi , ciò non si verificava nei pazienti trattati con imipramina, confermando così, indirettamente, i risultati di studi precedenti relativi ad una più selettiva azione sulla componente “psichica” dell’ansia da parte dell’imipramina.
In sintesi i dati depongono per una notevole efficacia dell’imipramina nella terapia a breve termine del GAD, con risultati tendenzialmente superiori a quelli ottenibili mediante le benzodiazepine. L’azione dell’imipramina è relativamente ritardata rispetto a queste ultime, con un tempo di latenza paragonabile a quello della sua azione antidepressiva. Di particolare interesse risulta il differente target dell’azione dell’imipramina rispetto alle benzodiazepine, con minore selettività sui sintomi somatici dell’ansia. L’imipramina sembra infatti ridurre in modo più selettivo la risonanza emotiva e la preoccupazione legata ai sintomi somatici rispetto alla riduzione dei loro correlati funzionali obiettivamente osservabili.
In un lavoro recente (64) è stata effettuata una valutazione meta-analitica dei risultati degli studi in cui sono stati indagati in doppia cecità gli effetti di moclobemide, imipramina e placebo in un gruppo complessivo di 950 pazienti affetti da depressione maggiore. L’analisi dell’efficacia sulla sintomatologia ansiosa è stata condotta valutando i punteggi degli item 10 ed 11 della HAM-D e delle sottoscale fattoriali “ansia somatica” (item 11, 12 e 13) ed “ansia psichica” (item 9, 10 e 15) della HAM-D. Dai risultati di questo studio è emerso che sia la moclobemide (300 mg/die) che l’imipramina (150 mg/die), si sono rivelate più efficaci del placebo sui sintomi d’ansia, già a partire dalla 2a settimana di trattamento.
Venlafaxina
La venlafaxina, come l’imipramina, possiede un meccanismo d’azione basato principalmente sull’inibizione della ricaptazione di serotonina e noradrenalina. Analogamente all’imipramina, anche la venlafaxina ha dimostrato di essere efficace nella terapia del GAD, se somministrata a dosi comprese tra 75 e 150 mg/die (65). Sulla base di queste evidenze sperimentali alcune autorità regolatorie, tra cui negli Stati Uniti la Food and Drug Administration, ne hanno recentemente approvato l’indicazione per l’impiego in questa patologia. Va tuttavia osservato che, a queste dosi, Venlafaxina è attiva in modo nettamente prevalente sul sistema 5-HT, e solo in piccola misura sul sistema NA (66). Quattro sono gli studi clinici disponibili. Nel primo (67), sono stati valutati 349 soggetti, suddivisi in 4 gruppi. Ognuno di questi gruppi è stato trattato per 8 settimane, rispettivamente con placebo o con venlafaxina, somministrata a dosaggi fissi di 75, 150 o 225 mg/die. Dalla valutazione dei risultati è emersa una superiorità della venlafaxina sul placebo in tutte le misure di efficacia considerate.
In un secondo studio (68) l’efficacia della venlafaxina (75 o 150 mg/die) nel GAD è stata confrontata in doppio cieco con quella del placebo e del buspirone (30 mg/die). Dai risultati è emersa una superiorità della venlafaxina non solamente sul placebo, ma anche su buspirone. Il dosaggio ottimale della venlafaxina è apparso quello di 75 mg/die. Vista la caratteristica del GAD di essere una patologia a decorso tipicamente cronico, l’efficacia della venlafaxina in questo disturbo è stata controllata anche in due studi a lungo termine (69,70). Dai risultati di entrambi questi studi è emerso che la venlafaxina, anche nel periodo di mantenimento a lungo termine, è ben tollerata e mantiene nel tempo le sue caratteristiche di efficacia, comportandosi come un “ansiolitico puro”, cioè evidenziando una attività sui sintomi d’ansia scissa da quella antidepressiva.
Mianserina
La mianserina, antidepressivo ad azione noradrenergica, con blocco selettivo sui recettori a-2 presinaptici, ha mostrato di possedere un’efficacia ansiolitica a breve termine, superiore a quella del diazepam o del clordiazepossido in due studi controllati, nei quali tuttavia la selezione dei pazienti non era stata effettuata in modo rigoroso. Nel primo di questi (71), gli autori hanno trattato 40 pazienti con sintomi di “ansia primaria” per 2 settimane in doppio cieco, con mianserina (30-60 mg/die) o con diazepam (15-30 mg/die) e, per altre 2 settimane in cecità singola, con placebo. Dalla valutazione dei risultati è emerso che, per quanto entrambi i farmaci attivi fossero caratterizzati da un’efficacia ansiolitica significativa, globalmente, quella della mianserina si era rivelata superiore. Con l’eccezione di un solo paziente nel gruppo trattato con mianserina, tutti i pazienti evidenziarono un peggioramento clinicamente significativo, successivamente al passaggio dal trattamento attivo al placebo.
L’efficacia ansiolitica della mianserina è stata confermata anche dai risultati di un secondo studio (72). In questa indagine multicentrica, condotta in setting di medicina generale, gli autori hanno trattato in doppio cieco 144 pazienti affetti da sintomi di “ansia primaria” con mianserina (30-60 mg/die), clordiazepossido o placebo. Al termine di un periodo di trattamento di 6 settimane, infatti, si è potuto evidenziare un trend di maggiore efficacia in favore della mianserina, rispetto sia al clordiazepossido che al placebo.
SSRI
Che il sistema 5-HT sia coinvolto in via primaria nel GAD è dimostrato dal fatto che anche i farmaci SSRI hanno mostrato, in vari studi controllati, una significativa efficacia nella terapia del GAD (73).
Dalla valutazione della letteratura clinica disponibile, sembra che l’efficacia degli SSRI sui sintomi d’ansia sia una caratteristica comune a tutti i farmaci di questo gruppo. Questi farmaci inoltre si caratterizzano per una buona tollerabilità e sicurezza d’uso, che ne favorisce la compliance nei periodi di mantenimento a lungo termine, importanti soprattutto durante il trattamento di patologie ad andamento prolungato, come ad esempio il GAD.
In uno studio aperto con fluoxetina (74), somministrata in bambini ed adolescenti affetti da vari tipi di disturbi d’ansia, inclusi il disturbo d’ansia di separazione e la fobia sociale, per il cui trattamento l’impiego di altri farmaci si era rivelato inefficace, si è visto che questo SSRI, in modo indipendente da una sintomatologia depressiva eventualmente concomitante, induceva in una percentuale significativa di casi trattati un evidente miglioramento del quadro clinico.
Uno studio controllato (75) è stata dimostrata la buona efficacia ansiolitica di clomipramina e fluvoxamina. In questa indagine gli autori hanno arruolato un campione sperimentale di 50 pazienti affetti da vari tipi di disturbi d’ansia, riferibili alle categorie diagnostiche previste nell’area dei disturbi d’ansia del DSM III. Questi sono stati avviati ad un trattamento, condotto in doppia cecità per 6 settimane, con fluvoxamina (100 mg/die) o con clomipramina (150 mg/die). Entrambi i farmaci sono risultati efficaci su tutte le misure previste dal protocollo per la valutazione di efficacia sulla sintomatologia ansiosa.
L’efficacia di fluvoxamina nel controllo farmacologico della sintomatologia ansiosa è stata confermata anche dai risultati di un altro studio più recente (76). In questo studio sono stati valutati 30 pazienti ambulatoriali affetti da depressione maggiore presente in comorbidità con uno o più disturbi dell’area dei disturbi d’ansia. Il gruppo sperimentale è stato trattato in aperto per 12 settimane con fluvoxamina (dose media 143 � 45 mg/die). Dai risultati dello studio è emerso che la fluvoxamina è risultata efficace sia sui sintomi ansiosi che su quelli depressivi, in oltre il 70% dei pazienti trattati.
In uno studio recente, condotto in aperto su pazienti con disturbo misto ansioso e depressivo secondo l’ICD-10, anche la sertralina ha dimostrato di possedere una significativa attività ansiolitica, paragonabile a quella antidepressiva, in pazienti nella cui valutazione di baseline erano stati rilevati elevati livelli di ansia. Al termine di un periodo di trattamento della durata di 8 settimane, nel quale sono stati raggiunti dosaggi medi di sertralina di 83 mg/die, è stato possibile rilevare una riduzione del punteggio della HAM-A nella misura del 55% (77).
La paroxetina nel trattamento del GAD
Di recente è stato ipotizzato un possibile impiego della paroxetina nel trattamento della sintomatologia del GAD in ambito clinico. Antecedentemente all’avvio dei primi trials multicentrici erano state pubblicate solo isolate segnalazioni, dai cui risultati sembrava emergere una certa potenzialità per l’impiego di questo farmaco in questo settore. Nella prima di queste (78) erano stati trattati con paroxetina per un periodo variabile dai 4 ai 6 mesi, 29 pazienti con diagnosi di GAD precedentemente non sottoposti ad alcuna terapia. I pazienti, prima dell’inizio del trattamento ed al termine di questo, sono stati testati mediante il Temperament and Character Inventory. Dalla valutazione comparativa della rilevazione psicometrica condotta in baseline con quella condotta al termine del trattamento è emerso che la paroxetina aveva indotto una riduzione significativa del punteggio della scala Harm Avoidance. Elevazioni del punteggio di questa scala sono considerate indici caratteristici del GAD con sintomatologia florida.
Nel primo studio clinico in cui è stata condotta una valutazione comparativa di efficacia della paroxetina nel GAD (79), gli autori hanno trattato in aperto un gruppo di questi pazienti con paroxetina, clordemetildiazepam o con imipramina. Dalla valutazione dei risultati di questo studio, emerge che in circa due terzi dei pazienti che avevano completato il trattamento era rilevabile un miglioramento marcato o moderato, indipendentemente dal farmaco assunto. I pazienti trattati con la benzodiazepina tuttavia ottenevano un miglioramento più significativo nel corso delle prime due settimane, che si poteva rilevare particolarmente marcato soprattutto sulla componente somatica del quadro ansioso. Quelli trattati con paroxetina o imipramina, evidenziavano invece un miglioramento più significativo allo scadere della quarta settimana di terapia, che, al contrario, si rivelava particolarmente marcato soprattutto sulla componente psichica dell’ansia.
Successivamente a questi due studi iniziali, l’efficacia della paroxetina nel trattamento del GAD è stata testata in un gruppo di 4 studi clinici multicentrici randomizzati, nei quali sono stati arruolati un totale di 1874 pazienti (80). I primi tre studi (popolazione complessiva: 1264 pazienti), sono stati focalizzati sulla valutazione di efficacia e tollerabilità della paroxetina nella terapia del GAD, mentre nel quarto (popolazione: 610 pazienti), si è cercato di verificare in che misura il trattamento a lungo termine con questo composto, in questa patologia caratterizzata da un decorso ad andamento tipicamente cronico, sia in grado di prevenire efficacemente le riacutizzazioni.
Il primo di questi studi, denominato GAD1, è stato condotto su 566 pazienti che sono stati valutati lungo un periodo di osservazione della durata di 8 settimane. Il disegno sperimentale prevedeva la somministrazione in doppia cecità di dosaggi fissi di paroxetina di 20 o 40 mg/die, o di placebo.
Il secondo studio, denominato GAD2, è stato condotto su 326 pazienti valutati per 8 settimane. In questo caso il disegno sperimentale prevedeva la somministrazione in doppia cecità di placebo o di paroxetina in dosaggi flessibili che, a seconda delle esigenze del paziente e della tollerabilità, potevano variare da 20 a 50 mg al giorno.
Anche nel terzo studio, il GAD3, condotto su 372 pazienti, era prevista la somministrazione in doppia cecità di placebo o di paroxetina in dosaggi flessibili, sempre variabili da 20 a 50 mg/die.
In tutti questi studi il punteggio totale della HAM-A è stato considerato la misura primaria di efficacia. I punteggi degli item 1 (umore ansioso) e 2 (tensione) della HAM-A, della Clinical Global Impression (CGI severity of illness) e della Sheehan Disability Scale (SDS), sono stati invece considerati le misure secondarie di efficacia. Al fine di escludere che l’efficacia sulla sintomatologia del GAD rilevata in seguito alla somministrazione della paroxetina, potesse essere secondaria agli effetti antidepressivi del composto, sono stati esclusi dall’arruolamento tutti i pazienti che presentavano alla valutazione di baseline un punteggio della Montgomery Asberg Depression Rating Scale (MADRS) superiore a 18.
I risultati dei primi 3 studi, finalizzati alla valutazione dell’efficacia (GAD1, GAD2, GAD3), hanno indicato che l’efficacia della paroxetina era significativamente superiore a quella del placebo in tutte le misure impiegate per quantificare la sintomatologia ansiosa (punteggio totale HAM-A, item 1 HAM-A, item 2 HAM-A). La paroxetina è inoltre risultata superiore anche alla valutazione dei punteggi della CGI e della SDS. Dal momento che in questi studi, impiegando la dose di avvio di 20 mg di paroxetina, non si è osservato un incremento paradossale dell’ansia, gli autori raccomandano questo dosaggio per avviare il trattamento di pazienti con diagnosi di GAD. I pazienti non pienamente responsivi possono essere sottoposti ad ulteriori incrementi posologici di 10 mg alla volta, fino al raggiungimento, ove necessario, della dose massima di 50 mg/die.
L’ultimo studio, infine, denominato GAD4, è stato focalizzato sulla valutazione della capacità della paroxetina nella prevenzione delle ricadute. Per questo scopo sono stati arruolati 610 pazienti, che sono stati seguiti per un totale di 38 settimane. Nel corso delle prime 8 settimane i pazienti sono stati trattati in single blind con una dose flessibile di paroxetina (20-50 mg/die). I responder sono stati poi randomizzati ed assegnati, in doppio cieco, ad un trattamento con paroxetina (20-50 mg) o placebo, per una durata di 24 settimane.
Dai risultati è emerso che, tra i pazienti a cui a partire dalla fine dell’8a settimana veniva somministrato il placebo, il 39,9% risultava andare incontro a ricadute. Tra quelli che continuavano ad assumere paroxetina tale percentuale scendeva invece al 10,9%. Il risultato quindi conferma che il GAD, visto l’andamento tipicamente cronico, si caratterizza per la necessità di continuare l’assunzione dei trattamenti per periodi di adeguata lunghezza dopo l’ottenimento della remissione sintomatologica. Le buone caratteristiche di tollerabilità della paroxetina possono indubbiamente migliorare la compliance in questa fase di mantenimento a lungo termine, favorendo così, come si è visto, la riduzione del numero di ricadute.
Considerazioni conclusive
Allo stato attuale tutti i clinici concordano sul fatto che la complessa organizzazione sindromica, caratterizzata dalla sovrapposizione di più dimensioni sintomatologiche, e definita in termini categoriali come GAD, sia estremamente responsiva al trattamento psicofarmacologico.
Sino all’inizio degli anni ’50, il trattamento di elezione per le sindromi ansiose era rappresentato dalla psicoterapia psicoanalitica. Infatti i trattamenti biologici allora disponibili in psichiatria, come ad esempio il coma insulinico, l’elettroshock e la lobotomia, si rivelavano completamente inefficaci nel trattamento di queste condizioni. Analoghe considerazioni valgono anche per i farmaci utilizzati sino ad allora, i bromuri, l’idrato di cloralio e la paraldeide (disponibili a partire dalla seconda metà dell’800), ed i barbiturati (disponibili a partire dagli anni ’30), che non consentivano di ottenere reali vantaggi.
L’inizio dell’epoca moderna del trattamento farmacologico dell’ansia, nel corso della quale l’industria farmaceutica ha messo a disposizione dei clinici dei composti realmente efficaci per queste condizioni, probabilmente coincide con l’introduzione del meprobamato negli anni ’50 e, soprattutto, con quella delle benzodiazepine negli anni ’60.
All’inizio degli anni ’60, Klein (8) tuttavia osservò che l’imipramina, farmaco introdotto nel 1957 per il trattamento della depressione, era in grado di bloccare la comparsa degli “attacchi di panico spontanei”. La descrizione di questo fenomeno ha coinciso con l’introduzione di una nuova dimensione nella farmacoterapia dei disturbi d’ansia.
Prendendo avvio da questi pionieristici trattamenti “patogenetici” dei disturbi d’ansia, anche nel settore del trattamento del GAD gli approcci non “sintomatici” hanno compiuto notevoli progressi, allineando anche questo settore della psicofarmacologia clinica allo “status terapeutico” degli altri disturbi dello spettro.
È un dato di fatto, sostenuto da un crescente numero di dati sperimentali che le condizioni di ansia generalizzata, individuate dalla sovrapposizione delle dimensioni “Paura, Timore, Preoccupazione”, rispondono al trattamento con alcuni farmaci antidepressivi in misura uguale o superiore alla terapia sintomatica con BDZ.
Nel corso dell’ultimo decennio, si è verificata un’enorme espansione delle conoscenze sul trattamento psicofarmacologico dei disturbi d’ansia. Infatti in questo settore non solamente sono stati introdotti nuovi farmaci, ma i clinici hanno messo a punto numerose tecniche per utilizzare al meglio ed in modo più sicuro anche quelli già disponibili. La terapia dei disturbi dello spettro d’ansia con farmaci AD ha messo in evidenza come non tutte le molecole a dimostrata efficacia nella depressione diano analoghi risultati in tutti i disturbi dello spettro.
Come è stato evidenziato dai risultati degli studi clinici finora resi disponibili, la paroxetina rappresenta un farmaco di sicura efficacia sulla sintomatologia del GAD, anche nel trattamento di quei pazienti nei quali non risulti particolarmente evidente una sintomatologia depressiva concomitante.
Il profilo degli effetti collaterali della paroxetina è nettamente vantaggioso, per ovvie ragioni, rispetto a quello degli IMAO e dei triciclici e, per alcuni aspetti, anche rispetto a quello delle benzodiazepine. Infatti questi composti uniscono ad un forte effetto sedativo, specialmente ai dosaggi che è necessario raggiungere perché si manifesti la loro efficacia nell’ansia generalizzata, anche una notevole potenzialità dipendentogena e la frequente comparsa di una sintomatologia di withdrawal alla sospensione. Ben noti sono inoltre i problemi derivanti dalla loro capacità di potenziare in modo additivo gli effetti sedativi dell’alcool.
Anche la caratteristica della paroxetina rappresentata dalla bassa incidenza degli effetti secondari, oltre a quella della sua efficacia, rappresenta un evidente vantaggio ed una reale innovazione nel trattamento dei pazienti con ansia generalizzata. Infatti è stato dimostrato che questa condizione, nella maggior parte dei casi, va incontro ad una evoluzione cronica della sintomatologia che, a volte, può durare per oltre 20 anni (81).
Di conseguenza la migliore tollerabilità della paroxetina costituisce una efficace garanzia, in grado di ridurre nettamente le probabilità che si verifichino delle interruzioni premature del trattamento, rilevabili invece con frequenza quando i periodi di mantenimento a lungo termine siano condotti con gli altri farmaci.
Fig. 1. L’impiego della paroxetina nel GAD è stato studiato in 4 studi multicentrici, condotti su un campione complessivo di 1874 pazienti. Nei primi 3 studi di questo gruppo (GAD1, GAD2 e GAD3), 3 indagini multicentriche, randomizzate condotte in doppia cecità vs. placebo su un gruppo totale di 1264 pazienti con diagnosi di GAD, è stata effettuata una valutazione comparativa dell’efficacia di paroxetina vs. placebo. Nello studio GAD1 si è confrontata l’efficacia di dosi fisse di paroxetina (20 e 40 mg/die) vs. placebo. Negli studi GAD2 e GAD3, invece, in confronto vs. placebo è stato effettuato mediante l’impiego di dosi flessibili di paroxetina (20-50 mg/die). Nello studio GAD4, in ultimo, è stata effettuata una valutazione comparativa a lungo termine (8 + 24 settimane) vs. placebo, sull’efficacia di paroxetina, somministrata in dosi flessibili (20-50 mg/die), nel prevenire le ricadute nel GAD. The use of paroxetine in generalised anxiety disorder (GAD) has been studied in four multicentre studies, carried-out on an overall population of 1874 patients. In the first three studies of this group of studies (GAD1, GAD2, and GAD3), three randomised multicentre investigations were conducted on a total group of 1264 patients with a GAD diagnosis and the effectiveness of paroxetine was compared to that of placebo. In GAD1, two fixed paroxetine doses were used, i.e., 20 mg/day and 40 mg/day. Flexible doses ranging from 20 to 50 mg/day oral paroxetine were used in GAD2 and GAD3. Finally, in GAD4, a long-term (8 plus 24 weeks) comparative assessment vs. placebo of flexible paroxetine doses (20 to 50 mg/day) was carried-out, focusing on relapse prevention of GAD.
Studio | Tipo |
Numero di pazienti |
Durata (settimane) |
GAD1 | dose fissa (20 mg/die, 40 mg/die) |
566 |
8 |
GAD2 | dose fissa (20-50 mg/die) |
326 |
8 |
GAD3 | dose fissa (20-50 mg/die) |
372 |
8 |
GAD4 | prevenzione delle ricadute (20-50 mg/die) |
610 |
32 |
Fig. 2. Risultati dei primi 3 studi di valutazione di efficacia della paroxetina nel GAD: riduzione in 8a settimana del punteggio globale di HAM-A, rispetto alla valutazione di baseline. Results of the first three studies of efficacy of paroxetine in GAD: reduction of total HAM-A scores at the 8th week of treatment with respect to baseline.
Fig. 3. Risultati dei primi 3 studi di valutazione di efficacia della paroxetina nel GAD: riduzione in 8a settimana del punteggio dell’item 1 di HAM-A (umore ansioso), rispetto alla valutazione di baseline. Results of the first three studies of efficacy of paroxetine in GAD: reduction of scores on item 1 of HAM-A (anxious mood) at the 8th week of treatment with respect to baseline.
Fig. 4. Risultati dei primi 3 studi di valutazione di efficacia della paroxetina nel GAD: riduzione in 8a settimana del punteggio dell’item 2 di HAM-A (tensione), rispetto alla valutazione di baseline. Results of the first three studies of efficacy of paroxetine in GAD: reduction of scores on item 2 of HAM-A (tension) at the 8th week of treatment with respect to baseline.
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